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  • Conversazione con Steven Livingston. Di Mauro Buonocore 5 aprile 2011
    «Siamo tutti Khaled Said». C’era un ragazzo di ventotto anni a tenere uniti i manifestanti che riempivano le piazze egiziane contro Mubarak. Torturato e ucciso da poliziotti che volevano perquisirlo in un internet caffè della periferia di Alessandria lo scorso giugno, Khaled è stato il cuore della mobilitazione. Il suo nome ha stretto un intero popolo, che lo ha fatto parlare con una sola voce per dire basta ai soprusi del regime. Le immagini del suo corpo martoriato hanno fatto il giro del paese, sono state condivise sul web da milioni di egiziani. Malmenato e ucciso probabilmente perché voleva pubblicare sul web un video in cui si vedevano due poliziotti coinvolti in una questione di droga. Khaled ha dato il nome al profilo Facebook intorno al quale i manifestanti si sono aggregati fino a opporre nella piazza la propria persona fisica a Mubarak e al suo sistema. Tutto questo sarebbe avvenuto ugualmente senza Facebook, Twitter e gli altri social network?Per Steven Livingston, docente alla George Washington University ed esperto del modo in cui i media influenzano i meccanismi delle democrazie, la risposta ha a che fare con la tecnologia, anzi con molteplici tecnologie: «I telefoni cellulari, i computer, i satelliti, i cavi per trasmettere dati ad alta velocità. Tutto questo crea un nuovo ambiente di informazione che consente ai cittadini di essere più consapevoli di quello che accade intorno a loro e chiedere che il potere sia più trasparente, aperto ed efficiente». Da qui nasce una enorme possibilità per le democrazie dei paesi in via di sviluppo, come il professore americano ha scritto in un recente studio dal titolo Africa’s Evolving Infosystems: A Pathway to Stability and Development, in cui sottolinea il modo in cui i media digitali potenziano le possibilità di realizzare sistemi sanitari, aiutare il mercato di prodotti agricoli, dare vita a servizi bancari e migliorare la sicurezza pubblica e la qualità della democrazia stessa.
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