Questo è il testo presentato dall’autrice alla conferenza di Doha su donne e media, organizzata da Resetdoc il 19 aprile 2009
Rappresentare l’altro assente
Che cosa significa rappresentare e cos’è la rappresentazione? Molti sono i significati acquisiti nella storia della filosofia e della politica, soprattutto per via dei diversi mezzi attraverso cui viene data nuova realtà a soggetti e oggetti mancanti. In effetti, la parola repraesentatio evoca nella sua stessa etimologia l’essere vicaria. È un’immagine, un individuo o una cosa che ridà presenza a ciò che è assente. L’intelletto umano diventa quel motore che rappresenta oggetti concettuali, così come il rappresentante politico è colui che porta voce e interessi altrui. I mezzi di riproduzione visuale (dalla fotografia, al cinema, alla televisione fino ai nuovi media) vengono poi a porre nuovi quesiti sui soggetti rappresentati e sull’ideologia riposta negli interstizi fra effettualità e visione. Ed è per questo che l’analisi di genere, che mira a individuare la configurazione dell’ordine sociale attraverso le regole patriarcali imposte nelle relazioni fra donne e uomini, si sofferma sulle problematiche rappresentazioni mediatiche, come nel caso del corpo femminile. Il che è ancor più complesso se trattato da un punto di vista inter-culturale. Ma le diversità culturali non sono certo d’ostacolo a tale prospettiva, anzi. Esistono molti elementi comuni nella connotazione dei ruoli sociali di genere.
Diventa allora possibile gettare un ponte che, se da una parte permette una più adeguata conoscenza delle proprie culture d’origine, dall’altra indica la via per una fruttuosa ricerca su elementi di genere, comuni a più culture. Come caso esemplificativo mi riferirò al cambiamento di «rappresentazione» delle donne nella televisione italiana, nel senso tanto dell’affermazione di nuove ideologie sessiste, quanto della carenza di rappresentanza politica. Un profondo iato sembra infatti essersi creato tra le immagini di donne date dalle televisioni, di Stato e private, e le loro reali capacità/competenze. Raffigurazione mediatica e ruolo sociale sembrano collidere. Ma forse nella loro ideologia immagini stereotipate e immaginari collettivi «dicono la verità»: le donne italiane sono diventate sempre più libere ma sempre meno uguali in diritti. Da un’idea paternalistica di emancipazione della donna come madre e lavoratrice, affermatasi fra gli anni Cinquanta e Sessanta, si è infatti passati a una sempre maggiore eroticizzazione del corpo femminile, a partire dagli anni Novanta.
In mezzo ci sono state le lotte per i diritti civili, i processi di liberazione, l’incremento dell’accesso delle donne al mondo del lavoro e dell’istruzione, ma anche lo sviluppo del neo-liberismo e la crisi dello Stato sociale, che ha ridotto sempre più le garanzie sociali prima previste. La televisione segue questa parabola: da un paternalismo sociale si è passati a un patriarcato economico globale dalle sembianze neo-populiste. Una riflessione sul ruolo e la rappresentazione/rappresentanza delle donne nelle televisioni italiane, diventa tanto più urgente, quanto più i recenti eventi delle «veline in lista» hanno dimostrato un’evidente sfasamento socio-politico. La società civile delle donne deve ancore stare a guardare?
Paternalismo e ricostruzione nazionale
Con il dopo-guerra, le donne italiane diventano il fulcro di numerose narrazioni collettive: rappresentazioni neo-realiste le sottraggono da secoli di invisibilità. Nei filmati d’epoca, appaiono ancora avvolte in abiti tradizionali, ma fiere di poter contribuire alla costruzione di un nuovo ordine politico. Immagini di donne di tutte le classi e le età vengono portate alla ribalta mentre si accingono per la prima volta a votare per le elezioni amministrative e poi per il referendum nel 1946. Le donne testimoniano un ruolo attivo svolto nella lotta di liberazione contro il nazifascismo e sono insieme simbolo di una democrazia inclusiva che vuol creare anche visivamente un nuovo spazio pubblico, dove poter accedere liberamente. La televisione – che col nome di Rai dà inizio alle sue trasmissioni il 3 gennaio 1954 alle 11 del mattino – prosegue i toni di un’epica popolare che mira a mettere in pratica i dettami costituzionali attraverso la comunicazione di massa.
Del resto, l’articolo 37 della Costituzione prevede che «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione». La televisione di Stato viene dunque da una parte a rappresentare la donna come interessata a combinare il suo doppio ruolo di madre e lavoratrice, mentre dall’altra a sostenere un’idea paternalistica di emancipazione: come neo-cittadine le donne hanno ancora bisogno di essere protette ed educate. Da «elettrodomestico» acquistabile da pochi privilegiati, la televisione diventa ben presto un oggetto indispensabile dell’arredamento domestico: viene a raffigurare l’unità familiare e la condivisione di interessi. Se dapprima era stato un mezzo di rivoluzione delle cadenze quotidiane, ben presto viene a modulare la scansione dei ritmi familiari attraverso una programmazione che rende assuefatti.
La televisione permette altresì l’acquisizione di nuove conoscenze e la formazione di nuovi immaginari collettivi. Diventa ben presto espressione della nuova egemonia culturale repubblicana, che diffonde l’italiano come lingua comune e permette processi di alfabetizzazione («Non è mai troppo tardi», ricordava il maestro Manzi). In questa prima fase, la televisione assolve dunque a specifici compiti civico-pedagogici e a una missione fondata su tre pilastri: educare, informare, intrattenere. Non poteva dunque che essere women friendly; non era tecnicamente difficile da usare: bastava pigiare un pulsante. Il tradizionale stereotipo vede infatti le donne come inadatte a qualsiasi strumentazione per cui gli elettrodomestici devono essere elementari nella loro fruizione, altrimenti le donne non li comprano. Tuttavia, l’iniziale modello conoscitivo di accesso ai media, nonostante le sue pretese popolari era di fatto elitista. Implicava infatti una censura di tipo moralista da parte dei governanti (allora afferenti alla Democrazia Cristiana), che decidevano in senso unidimensionale ciò che l’audience poteva vedere o meno.
Agli spettatori veniva sottratto il libero arbitrio nella scelta dei programmi, dal momento che credenze religiose venivano indicate come valori comuni su cui misurare il «comune senso del pudore».
La «decenza» veniva così ritagliata anche sugli abiti delle donne in televisione, dove un fiore poteva coprire una scollatura considerata oltraggiosa. Il corpo delle donne diventa quindi un luogo pubblico su cui poter valutare l’entità dello scontro fra tradizione e modernizzazione. Ma tale impostazione era resa possibile dalla detenzione del monopolio da parte dello Stato, o meglio del governo del tempo. Nel 1975 la regolamentazione televisiva passerà sotto il parlamento. Forme di censura politica su base religiosa unitamente ad attitudini sessuofobiche di tipo misogino seguono dunque il controverso processo di «emancipazione» delle donne italiane, assieme all’incremento della loro visibilità in spazi pubblici, ampliata dall’ambivalente rappresentazione televisiva.
La sessualizzazione neo-populista
Nella memoria collettiva, gli anni Sessanta sono collegati all’idea di «miracolo economico» e incremento delle nascite, a segno di un benessere economico e di un ottimismo culturale che permette un migliore accudimento dei figli. Intanto il numero delle donne accresce in tutti i settori di impiego e dal 1963 hanno libero accesso a tutti gli uffici pubblici. Accanto a conformismi tradizionali, anche la televisione di Stato comincia a sostenere l’immagine della «donna moderna», tanto capace di coniugare il ruolo di madre e lavoratrice, quanto interessata a incrementare il benessere familiare, grazie a uno stipendio che le dà autonomia finanziaria. Le donne diventano quindi ben presto il terreno per sperimentazioni sociali, ma anche il bacino per nuovi consumi, a partire dal settore domestico.
Carosello (iniziato il 3 febbraio 1957 e terminato il 1 gennaio 1977) assurge a evento conclusivo della giornata che, grazie a storie e animazioni avvincenti, riesce a coagulare attorno a sé grandi, piccoli e anziani, inculcando loro immagini di oggetti appetibili.
L’intrattenimento diventa centrale per la programmazione televisiva, dove appaiono soprattutto artiste (ma non ancora giornaliste) dall’innegabile talento e professionalità. Gli anni Settanta segnano un cambiamento radicale del precedente ordine socio-politico, anche a livello simbolico. Nelle immagini pubbliche e negli immaginari collettivi fanno irruzione rappresentazioni di proteste delle donne, unite nel loro scendere in piazza per la rivendicazione di diritti non solo civili, ma di genere. Il mutamento degli ordinamenti giuridici lascia il segno: leggi sul divorzio, diritto di famiglia e aborto vengono a coabitare con il partito cattolico di maggioranza. La televisione mostra quasi sotto choc tali trasformazioni, così come farà alcuni anni dopo con le angoscianti immagini del terrorismo. Per la prima volta la televisione viene a rappresentare una diversa figura di «femminilità»: si tratta di soggetti autonomi e indipendenti che fanno tracimare i precedenti stereotipi fondati sull’idea delle donne come ancora bisognose di tutela.
In televisione cominciano altresì ad apparire come giornaliste e conduttrici di programmi ad hoc. Ma se la cosiddetta «questione femminile» è ormai diventata una problematica pubblica, pur tuttavia viene ancora rintuzzata in una riserva. Gli anni Settanta riservano una ben altra svolta nel panorama televisivo: la perdita del monopolio statale nella comunicazione pubblica con l’affermarsi di emittenti commerciali. Tale tendenza esploderà nel decennio successivo, col passaggio dalla «paleo» alla «neo-televisione». Più tardi, nel 1984 Silvio Berlusconi darà inizio al suo impero televisivo, grazie all’allora Primo Ministro Bettino Craxi che con un decreto ministeriale permetterà anche alle emittenti private di trasmettere sull’intero territorio nazionale. Nasce così un’accesa concorrenza fra la televisione di Stato e le emittenti commerciali che troverà un punto di convergenza proprio nella riproposizione di tradizionali ruoli femminili. Ma alla maggiore disponibilità e libertà di accesso alle notizie si unisce un decremento della qualità delle offerte.
Diventa prioritario l’interesse a promuovere merce a un pubblico più vasto, nell’errata equazione fra maggior audience uguale minor interesse culturale. La regressione dell’ascolto e della visione va di pari passo con la commercializzazione del corpo femminile, in una collazione di desideri di compra-vendita. L’erotizzazione, sconfinante col pornografico, fa nuovamente del corpo femminile un’arena pubblica che mistifica l’oggetto in vendita e trasferisce su nuovi terreni gli imperativi del mercato. Tale tendenza viene radicalizzata negli anni Novanta: la bellezza femminile diventa una conditio sine qua non per ogni trasmissione di successo, a scapito delle capacità professionali. Non vale più tanto la formazione ma la consistenza di reti di favori e di conoscenze economico-politiche. Il ruolo educativo della televisione lascia posto a un flusso continuo di immagini e parole che sussumono tutti i generi (ovvero l’informazione, lo sport e la cultura) sotto l’unico contenitore dell’intrattenimento.
La televisione diventa «generalista» e con contenuti medio-bassi (come si può evincere dalle domande presentate ai quiz), nonostante l’innalzamento del numero di diplomati e laureati. Tuttavia, l’approfondimento della notizia non è più indice di gradimento o ascolto. Parole a valanga diventano lo sfondo di ogni programma. I talk-show amplificano gli spazi privati dei salotti e aprono a un pubblico famelico di convivialità. Come accade nella migliore tradizione maschilista, le donne sono spesso invitate non per competenza o autorevolezza ma perché sono divertenti, leggere e poco impegnative. Ottengono soprattutto successo come intrattenitrici, ma senza molti argomenti e qualità intellettuali da mostrare. Donne si improvvisano «opinioniste», non tanto per preparazione su specifici argomenti, ma per l’abilità sfacciata di incrementare risse verbali o fare la parodia di questioni cruciali. Le donne diventano «attraenti» per audience. Le veline (oggetto di desiderio per centinaia di migliaia di adolescenti) rappresentano così un caso mediatico esemplare: di come la creatura sia sfuggita dalle mani del suo artefice. Se all’inizio erano state concepite come critica sociale e caricatura dello stereotipo di genere connesso all’avvenenza del corpo femminile, nel corso del tempo le veline sono diventate incarnazione del loro stesso pregiudizio, nel diniego dell’oggetto satirico per cui si erano state create.
Il privato di massa
Se è vero che la paleo-televisione era unidimensionale e che la neo-televisione è fondata sull’interattività e l’inclusione dello spettatore (soprattutto mediante interventi telefonici), tuttavia il neo-populismo televisivo si fonda su un falso principio di «vicinanza» e «partecipazione». Di fatto la distanza rimane, nonostante l’impressione tratta dal telespettatore di essere diventato finalmente un protagonista, riuscendo a dare un valore «eccezionale» alla propria «vita ordinaria». Pertanto, nonostante l’intento di far conoscere storie e personaggi ignorati, i reality show non rappresentano la «vera vita» e l’autenticità delle persone, bensì la retorica della loro drammatizzazione di massa, nel rendere familiari persone estranee alla propria vita. Eppure, le immagini dei reality e il loro successo enunciano una verità: la televisione sembra dar spazio e voce a persone che vogliono essere partecipi e deliberare all’interno di un’arena pubblica, proprio nella crisi della democrazia rappresentativa.
Ma lo spazio virtuale della televisione non è certamente «libero dal dominio». E intanto il pubblico ritorna a inaspettate dimensioni del privato. Una delle frasi-chiave del femminismo era «il privato è il politico», sottendendo il fatto che le relazioni di genere hanno sempre un valore pubblico. Ma non ci si sarebbe mai aspettati una deriva neo-populista di tale espressione. La narrazione dell’intimità e della sessualità è uscita dall’ambito strettamente personale o psicoanalitico per trasformarsi in spettacolo, dove i rapporti «reali» diventano una fiction nel processo di traslazione mediatica. Controversie tra i generi, assieme a pettegolezzi e maldicenze, vengono a coprire lo spazio prima dedicato alla politica o all’approfondimento culturale. O meglio, la politica ha assunto i toni coloristici di narrazioni familistiche e intime. Il panocticum per il controllo socio-politico a là Orwell sembra così lasciar posto al neo-voyeurismo del vicino. Ma anche in questo caso le immagini trasmettono una verità: il cambio irreversibile della tradizionale famiglia cattolica mononucleare grazie a nuove tipologie di famiglia e relazioni fra generi (compresi omosessuali, transessuali e transgender), nonostante la costante influenza politica della Chiesa cattolica nel dibattito pubblico. La televisione mitiga dunque il dolore, crea dipendenza e può indebolire il valore del civismo. Ma in ciò vi è un rimando sovversivo: capovolgere il significato delle immagini date.
L’idea paternalistica dell’emancipazione lascia spazio a tendenze neo-tradizionaliste e neo-populiste che erotizzano le immagini femminili e insieme le inducono a ruoli codificati nell’età del neo-liberismo. Come è successo nei paesi post-socialisti, anche in Italia l’eroticizzaazione del corpo femminile è funzionale al decremento della sicurezza sociale, dell’occupazione lavorativa e dei diritti socio-economici ottenuti negli anni Settanta. Nel frattempo, nel corso dell’ultimo decennio la presenza femminile nel mondo del lavoro è diminuita e si aggira al 46% (dopo Malta è il tasso più basso fra i 27 membri dell’Unione Europea) e guadagnano mediamente il 15% meno degli uomini. Le televisioni italiane hanno perso contatto con le reali condizioni delle donne. Ma nella vacuità della fantasmagoria delle immagini televisive è riscontrabile anche qui una verità: non vi è solo la persistenza delle ineguaglianze di genere, ma una loro radicalizzazione post-moderna.
Chi/cosa rappresenta chi/cosa?
Nel suo noto libro su The conception of Representation (1967), Hannah Pitkin teorizza l’idea di rappresentanza politica come distinguibile secondo quattro aspetti connessi, ovvero può essere formale, descrittiva, simbolica e sostanziale, nell’interrelazione fra lo «stare per» e l’«agire per». È possibile utilizzare tale impostazione anche a proposito della limitata rappresentazione/rappresentanza delle donne nelle televisioni italiane? Penso che questo sia il caso in due sensi: il mezzo televisivo da una parte non rappresenta le donne secondo il ruolo effettivo che ricoprono nella società civile e le loro reali capacità intellettive (tra l’altro costituiscono ormai il maggior numero di aventi laurea, conseguita in minor tempo e con migliori votazioni), mentre dall’altra conferma quel deficit di rappresentanza presente sia nella sfera politica che nelle posizioni apicali nel mondo lavorativo.
Benché la professione giornalistica si sia sempre più femminizzata, e nonostante le attività di notevoli giornaliste (anche se spesso la scelta delle anchorwomen cade sotto i criteri dell’avvenenza), pur tuttavia – se si guarda bene l’organigramma societario di varie emittenti – si può notare la discrasia fra presenza e rappresentanza femminile.
Su nomina politica, la prima donna presidente della Radio Televisione Italiana (dal 1945) è stata Letizia Moratti nel 1994, seguita da Lucia Annunziata nel 2003. Ma non si è mai dato né un direttore generale donna, né vi è attualmente alcun direttore di telegiornale, ovvero donne al vertice. Nonostante la presenza di una sofisticata machinery sulle pari opportunità e la ratifica di tutte le direttive europee in materia, continua a esserci una vistosa sotto-rappresentanza femminile anche in un settore chiave per il funzionamento della democrazia come quello dell’informazione pubblica. Non si tratta di semplice rivendicazione per evidenti deficienze di rappresentanza politica e culturale, per la mancanza di donne nella governance dei mezzi di comunicazione, o per la discrasia fra realtà e raffigurazione mediatica. Si tratta piuttosto di violenza simbolica: le immagini vengono a soverchiare le voci stesse, ovvero la possibilità per le donne interessate di parlare con la propria voce, per se stesse o per coloro che rappresentano. È una situazione paradossale: le libertà di cui le donne godono sembrano restringersi proprio nella loro raffigurazione pubblica e nell’espandersi di stereotipi sessisti.
Le donne continuano a essere dipinte attraverso gli occhi altrui, mediante immaginari eroicizzanti, limitando la libertà di rappresentare come meglio credono la propria realtà, aspettative, potenzialità e talenti: non ci si può dunque riconoscere nelle immagini che «altri» danno della condizione femminile. La televisione diventa rivoluzionaria perché sovverte con luoghi virtuali lo spazio della costruzione della volontà pubblica, indicando le difficoltà della società italiana. Ancora una volta la televisione dice la verità: attitudini neo-populiste simboleggiano una democrazia rappresentativa in cerca di un leader, capace di toccare l’immaginario della speranza e di realizzare ciò che la gente si aspetta di sentire: il miraggio di una vita migliore. Berlusconi sembra incarnare queste aspettative, seguendo il modello dell’assuefazione televisiva e della ripetitività del messaggio pubblicitario. Ma forse Berlusconi col suo corpo femminizzato dalla chirurgia plastica dice per una volta il vero: la cultura dell’apparenza camuffa e inganna la concreta rappresentazione delle esperienze di vita. E in ciò consta la leva per il sovvertimento: mettere al potere una diversa immaginazione per realizzare ciò che ancora non esiste, la coniugazione fra libertà e uguaglianza.
Marina Calloni è professore ordinario di Filosofia Politica e Sociale presso la Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca