Ma Viaggio tra i cristiani d’Oriente è anche, per converso, un modo per imparare che le minoranze, quelle cristiane in Oriente, quelle islamiche da noi, ci interrogano su un “altro” religioso che impedisce alla religione di maggioranza di rivendicare un assoluto primato, con relativo impoverimento culturale. Pichon si rifiuta tuttavia di fare un parallelo tra le minoranze cristiane e quelle musulmane da noi («Il cristianesimo lì è più originario dell’Islam»); inoltre, dal suo punto di vista di fedele, rivendica l’importanza della provenienza religiosa, e auspica di conseguenza un leale confronto tra radicalità, piuttosto che un dialogo politicamente corretto: «Preferisco un faccia a faccia sulla verità, che una convivenza di facciata. In questo senso, temo che negare, o annacquare, le radici cristiane dell’Occidente non solo sia una forma di impoverimento, ma suggerisce una forma di laicità neutrale verso il religioso che mi sembra impossibile».
Qual era lo scopo di questo lungo viaggio tra le comunità cristiane del vicino Oriente? La denuncia della loro situazione, il racconto di un modo di vivere cristiano alternativo al nostro?
All’inizio, si trattava di trovare un modo dolce e progressivo di lasciare quel mondo arabo al quale eravamo stati così attaccati, avendovi vissuto a lungo: un viaggio via terra, in macchina, ci sembrava molto indicato, rispetto ad un rientro in aereo troppo rapido. In seguito, a questo intento si è unita la voglia di mostrare che è possibile attraversare il vicino Oriente dormendo ogni sera in un monastero e riuscendo a parlare di questi arabi sconosciuti in Occidente: arabi che lo «scontro di civiltà» non permette di situare sulla scala della rappresentazione.
Quali sono le emergenze più importanti che queste comunità devono fronteggiare? Economiche? Oppure politiche e culturali?
Ho scelto in maniera deliberata una forma narrativa, quella di un racconto di viaggio. Di conseguenza, non ho una linea direttrice, ma penso che i personaggi incontrati e le situazioni descritte nel libro siano sufficienti a dare una giusta impressione dei timori e delle paure che esistono tra i cristiani d’Oriente. Bisogna per primo sottolineare che il loro numero si riduce come una pelle di zigrino nella regione, per molteplici ragioni. Anzitutto, perché il loro dinamismo demografico è inferiore a quello dei musulmani. Inoltre, perché queste comunità cristiane emigrano di più, dal momento che beneficiano di istituzioni ecclesiali di un buon livello educativo,: la situazione economica del Libano o della Siria, per esempio, costringe un laureato in medicina dell’Università Saint Joseph di Beyrouth a scegliere tra un salario di miseria sul posto o una buona situazione in Francia e in Canada. Questo è il problema principale, come mi ha ricordato il patriarca maronita Nasrallah Sfeir durante il nostro passaggio a Bkerké. Ultima ragione, i sussulti dell’islamismo radicale che agitano la regione, dall’Egitto all’Iraq, che non rassicurano di certo queste comunità. Tendono a diventare dei cittadini di serie b, e arrivano persino a doversi giustificare della loro presenza, quando le loro Chiese sono autoctone!
Pensa che la loro situazione sia peggiorata?
Sì, credo che si sia enormemente degradata dopo l’invasione americana in Iraq, anche se in Palestina o in Turchia il fenomeno è molto antico. In Libano e in Siria conservano ancora qualche carta e una certa capacità di pesare nei processi politici. In Iraq, Palestina e Turchia sono invece in procinto di scomparire completamente, di qui a una generazione, se non prima. Se ciò avverrà, il non aver saputo conservare loro un posto sarà il grande rimorso del mondo arabo.
Lei descrive la fede di queste comunità per le loro radici e la loro identità, così come la bellezza dei loro monasteri e delle loro comunità monastiche. Le considera come una sorta di modello originario di cristianità, desiderabile per un Occidente secolarizzato?
I cristiani d’Oriente non sono migliori di noi, ma tendono uno specchio ai loro fratelli d’Occidente, i quali farebbero bene a rispecchiarvisi. Essi ci interrogano in maniera permanente attraverso il loro modo di vivere e le loro liturgie grandiose sulla verticalità e il senso della mediazione simbolica, di cui l’Occidente si è sbarazzato con rabbia, con la conseguenza che sta morendo lentamente. Il senso del sacro, l’idea che si raggiunga il proprio oggetto (Dio all’occorrenza) attraverso svolte, deviazioni che costituiscono la bellezza, la gestualità e la fedeltà al passato mi sembrano assolutamente da riscoprire in Occidente, dove la «trasparenza» e la chiacchiera hanno ucciso ogni forma di spiritualità trasformandola in paccottiglia. E inoltre non si può loro negare un certo coraggio nella perpetuazione della loro identità, mentre gli europei non osano evocare le radici cristiane del loro continente.
Queste popolazioni ci ricordano anche in qualche modo che il cristianesimo non è una faccenda occidentale?
In effetti, è buona cosa ricordare che questi cristiani d’Oriente sono i discendenti diretti dei Gentili di cui parla San Paolo, cioè i primi popoli che furono toccati dal messaggio evangelico al di fuori del contesto ebreo originario. Non devono dunque avanzare nessuna giustificazione per la loro presenza qui: persino l’Islam è posteriore, e fino al decimo secolo furono demograficamente maggioritari. I loro paesi sono terre evangeliche e non vetero-testamentarie: Damasco in Siria, Sion, Tiro e Cana in Libano, Gadara in Giordania o Antiochia in Turchia furono inizialmente percorse da Cristo stesso o dai suoi primi apostoli, ben prima di Napoli, Roma, Lione!
Qual è il rapporto di queste minoranze con l’Islam? Si può dire che esso sia speculare a quello che c’è da noi tra cristiani e musulmani? Lei parla di una coabitazione silente, dove è possibile vivere insieme, ma non parlare di teologia, o nominare il Vangelo.
Credo che il dialogo islamo-cristiano debba essere praticato nella verità, se non altro che per rispetto per i musulmani che hanno la virtù di essere focalizzati sulla persona di Dio come assolutamente inaggirabile. Intrattenersi in illusioni di vaga convergenza non è buono per nessuno. Detto questo, anche se in Oriente il dialogo teologico è poco praticato a favore di una stima cortese e reciproca, io penso che le popolazioni di origine musulmana presenti in Europa abbiano tutt’altro assetto: e sono d’altro canto le prime a stupirsi dei nostri rinnegamenti successivi. Con loro, è necessario un dialogo autentico sulla misericordia e l’Incarnazione.
Nel libro lei descrive la fierezza e l’orgoglio di queste comunità. Essere minoranza dà loro un’energia e un’autenticità maggiore? Oppure, per converso, essere minoritari crea porta a una radicalizzazione delle posizioni?
Si accusano spesso i cristiani d’Oriente, e in particolare i maroniti del Libano, di avere «nazionalizzato» la loro religione e di conseguenza di avere confuso le cose della terra con quelle del cielo. È innegabile che queste comunità hanno avuto e continuano ad avere bisogno di postazioni territoriali ed economiche, vedi politiche, per esistere. In realtà, quando l’arabismo esisteva ancora come ideologia nel mondo arabo, essi avevano la tendenza a farsi dimenticare nel quadro di una società laica e prima di tutto araba. Oggi che l’islamismo politico tende a imporsi, la loro posizione diventa insostenibile e sviluppano una reazione identitaria che fa loro torto.
Come è concepita la conversione religiosa in questi paesi? E che tipo di difficoltà incontrano i matrimoni misti?
La questione delle conversioni è in generale assai delicata, perchè in molti paesi, come il Libano l’Egitto o la Giordania, la confessione figura sullo stato civile e si ha quindi la garanzia di essere giudicati secondo la legge del proprio statuto personale. Convertirsi significa dunque anzitutto scuotere l’ordine civile e politico, e in Libano in particolare quest’ultimo riposa sui delicati equilibri demografici. A proposito delle conversioni dall’Islam al cristianesimo, la difficoltà raddoppia a causa di una condanna generale dell’ordine sociale e religioso musulmano, dove in teoria l’abbandono dell’Islam è punito con la morte. Detto questo, nessun paese applica questa legge, ma la morte sociale, familiare e politica è garantita, quando non sono gli islamisti che si incaricano di regolare la questione. La questione dei matrimoni misti, infine, è al cuore di questa difficoltà: l’Islam autorizza questo tipo di figure, ma solamente per gli uomini musulmani. La sposa, anche se resta cristiana, deve allevare i suoi figli nella religione musulmana. Nella pratica, questo genere di pratiche è rarissimo, sono soprattutto le donne occidentali che fanno le spese di questa situazione.
Quale potrebbe essere, in conclusione, il ruolo di queste minoranze ne paesi arabi? Quanto è importante per una religione avere un “altro” con cui confrontarsi? Può essere un rimedio contro il fondamentalismo?
In realtà, il fondamentalismo che agita il mondo musulmano è un affare interno all’Islam. La vera frattura che sembra disegnarsi oppone sunniti e sciiti. I cristiani hanno sempre giocato questo ruolo di cemento tra le comunità e la loro presenza è quindi tanto più necessaria di quanto lo era in passato quando essi introdussero la modernità nel seno del mondo arabo.
Secondo lei i musulmani sono consapevoli di questo ruolo dei cristiani? E, viceversa, lo siamo noi rispetto ai musulmani in Occidente?
Non credo che la situazione tra le nostre minoranze musulmane d’Europa e le minoranze cristiane in terra d’Islam siano comparabili, e nemmeno che si possa fare un parallelo tra di loro: l’Islam non è mai stato autoctono in Europa, al contrario del cristianesimo in Oriente. Giocare su questa falsa similitudine fa d’altro canto parte di una certa retorica islamista. Detto questo, la stima profonda e il sentimento in maggioranza pacifico e benevolente delle popolazioni musulmane verso gli arabi cristiani è una realtà, che ha ricordato persino il principe saudita recentemente, in un articolo intitolato «Il mondo arabo ha bisogno dei cristiani».
E allora, che tipo di laicità suggerirebbe per questi paesi del Vicino Oriente arabo? Dovremmo parteggiare per una neutralità alla francese, per una religione predominante (come in Italia) o una pluralità religiosa, come negli Stati Uniti?
Credo che in materia religiosa, si potrà meglio accettare e farsi accettare dalle altre confessioni europee non dimenticando le nostre radici cristiane. Il modello italiano, che però non conosco in dettaglio, mi sembra in questo caso più adatto di una falsa neutralità di fatto impossibile.