Quando la democrazia maschera lo sfruttamento
Hassan Hanafi 16 January 2008

Questo testo è il primo intervento del filosofo Hassan Hanafi nel dialogo svoltosi tra l’autore e il professor Andrew Arato, pubblicato dalla rivista Reset nel numero 103 (settembre-ottobre 2007).

Dopo l’11 settembre 2001 il termine democrazia è diventato una parola d’ordine del gergo sociopolitico. Il dramma del mondo intero sarebbe dovuto alla mancanza di democrazia. Da qui la necessità di democratizzare il mondo non democratico, vale a dire il mondo musulmano, dal momento che gli autori degli attentati dell’11 settembre sono arabi musulmani. L’errore è negli altri e non in se stessi. Il colpevole è l’altro. Gli eventi dell’11 settembre sono azioni, non reazioni a qualcos’altro, al potere senza giustizia, alla globalizzazione come nuova forma di egemonia, non un nuovo grido degli oppressi contro i simboli del potere: il WTO, il Pentagono, la Casa Bianca, la potenza economica, militare e politica.

Tutti ricordano l’11 settembre 2001, nessuno il 28 settembre 2000, l’inizio della seconda Intifada, per non parlare di ciò che accadde nel corso dell’intero anno, delle case e dei campi distrutti, delle donne e dei bambini massacrati e degli attivisti eliminati fisicamente. Quale settembre segna una pietra miliare nella storia, e nella storia di chi? Gettare uno sguardo retrospettivo sulla precedente letteratura riguardo alla democrazia è una vera fatica. Non è lo studio di un tema, ma un tema di studio. Richiede un esame storico completo, ricco di argomenti contraddittori e per sentito dire. La descrizione delle esperienze democratiche esistenti è molto più produttiva se il loro contenuto è condiviso da tutti all’interno di una esauriente percezione collettiva. Riferimenti, note a margine, nomi di libri e di autori, a volte, confondono più di quanto chiariscono. Sono usati addirittura per nascondere l’assenza di significato e di progressi in questo campo. Ciò rientra nella pedanteria accademica. Confonde informazione e conoscenza, il già noto e ciò che ancora non lo è. Inoltre, gran parte della letteratura minore è occidentale e descrive la cultura da un solo punto di vista. In Asia, Africa e America Latina esiste una vasta letteratura sul tema che solo raramente viene citata. Gran parte di essa è scritta in lingue non europee.

La democrazia è uno strumento, non un fine. È un mezzo per attuare qualcos’altro, vale a dire gli obiettivi nazionali. Sono possibili anche altri mezzi, tra cui l’autoritarismo. L’esperienza dello sviluppo sudcoreano si è realizzata sotto un regime autoritario. L’esperienza giapponese si è evoluta attraverso un sistema corporativo di valori fondato sul comunitarismo, sulla lealtà, sulla dedizione, sul sacrificio, sull’etica del lavoro e sul perfezionismo. Nel XIX secolo, sotto Mohammed Ali, la vasta esperienza egiziana della creazione della nazione fu guidata da quel despota illuminato. Dal momento che il liberalismo è un prerequisito della democrazia, non tutte le culture hanno attraversato una fase liberale. Alcune sono passate dal feudalesimo al socialismo, come l’ex Unione Sovietica. A dire il vero, nell’esperienza occidentale, la liberazione fu una fase di transizione dal feudalesimo alla modernità. Essa portò in Occidente il mercantilismo e il capitalismo, nonché i partiti politici socialdemocratici e cristiano-democratici. Secondo Montesquieu, il «dispotismo orientale» può esprimere lo spirito dell’Oriente. In effetti, non c’è contraddizione tra una leadership forte e carismatica e la reciproca consultazione e il consenso nazionale. Il liberalismo o l’autoritarismo, come alternative in reciproca opposizione, possono esprimere la dicotomica visione del mondo occidentale basata sul concetto «o l’uno o l’altro».

La democrazia, senza dubbio, è un valore universale come tale e in se stesso, fondato sulla reciproca consultazione e opposto al monopolio delle opinioni. La verità, anche una verità relativa, può essere raggiunta in modo più efficace attraverso il consenso che non mediante una semplice opinione individuale. L’esperienza intersoggettiva è più sicura di quella soggettiva. Un giudizio universale e obiettivo può essere ottenuto attraverso una presa di coscienza reciproca la quale, secondo Husserl, fornisce un grado più elevato di obiettività basata sull’interazione delle numerose esperienze soggettive – vale a dire il consenso – diversa sia dalla classica definizione scientifica di verità come adequatio ratio in rei, sia da quella soggettiva heidegariana, l’aletheia. La democrazia, il potere del popolo, è un potere cognitivo prima che politico.

“Un uomo un voto” è un concetto formale

Il concetto di democrazia può differire da una cultura all’altra. In Occidente, esso è un concetto quantitativo fondato sul criterio di maggioranza e minoranza. La verità è dalla parte della maggioranza contro la minoranza. La maggioranza vince, la minoranza perde. La prima è al potere, la seconda all’opposizione. Gli equilibri possono cambiare alle elezioni successive. La maggioranza diventerà minoranza che sta all’opposizione e la minoranza sarà la maggioranza al governo. Ciò che è vero diventa falso e ciò che è falso diventa vero. La quantità fa la qualità, il potere fa il giusto. Quante volte la maggioranza ha avuto torto, allo stesso modo del nazismo e del fascismo che un tempo ebbero la maggioranza quasi assoluta? Per un filosofo classico, il corpo è la quantità, l’anima è la qualità e la domanda è: chi guida cosa? La democrazia in Occidente si fonda sul concetto di individuo e di cittadinanza. Altre culture sono più orientate verso il gruppo e la comunità, verso il concetto di fratellanza e di cameratismo. L’individuo è un fratello o un compagno. L’individuo non esiste per sé ma all’interno della comunità, della famiglia, della tribù o della setta. Presso tali culture, la democrazia è fondata sulle coalizioni e sul compromesso tra gruppi diversi. La stessa cosa accade in Giappone. La democrazia è il consenso nazionale oppure un accordo tra fazioni differenti.

La democrazia come sistema multipartitico basato su libere elezioni, «un uomo un voto», è un concetto formale. Le differenze tra i partiti possono essere minime. Due grandi partiti sono alternativamente al potere oppure possono condividere la stessa ideologia, magari con sfumature diverse, all’interno di una stessa coalizione. Negli Stati Uniti, i Democratici e i Repubblicani condividono la stessa ideologia riguardo all’egemonia, all’invasione dell’Iraq e al sostegno verso Israele. In Gran Bretagna, il partito laburista e quello conservatore condividono la stessa ideologia, simile a quella dei due grandi partiti politici americani. In Israele, sia il partito Likud che quello laburista hanno la stessa posizione nei confronti dell’aggressione contro il popolo palestinese e della continuazione dell’occupazione della Cisgiordania, della Striscia di Gaza e di Gerusalemme. Ciò che costituisce l’essenza dei partiti sono i loro obiettivi, specie in politica estera, non il nome che si danno o il loro numero, il fatto che siano al governo oppure all’opposizione. La democrazia non è mera apparenza, non è una forma o un artificio, un gioco politico per il trasferimento del potere. A volte, gli interessi nazionali vengono sacrificati in nome degli interessi dei partiti al governo o all’opposizione.

La propaganda politica e il potere dei mass media producono un forte impatto sul voto, non necessariamente una consapevole lettura del programma politico di ciascun partito. «Un uomo un voto» è un concetto formale, considerate le differenze di istruzione e di consapevolezza politica esistenti tra gli elettori. Il fenomeno dell’astensionismo è divenuto progressivamente più evidente, anno dopo anno. La gente è sempre più apolitica, prova verso la politica un senso di apatia, è stanca del sistema. Il pluripartitismo è gestito a beneficio dei partiti e non del paese. Alcuni votano per i verdi. La difesa dell’ambiente, se non altro, è una cosa utile, volta al bene di tutti e perseguita in favore della sopravvivenza umana. A volte, dalle urne elettorali non esce un vincitore chiaro, oppure accade che poche migliaia di voti decidono a chi andrà il potere e chi resterà all’opposizione. Quella dei brogli elettorali è una pratica diffusa persino nelle più note democrazie.

Il sistema pluripartitico non impedisce la corruzione: finanziamenti non dichiarati per la campagna elettorale, spionaggio del partito di opposizione come è accaduto nel famoso caso Watergate, corruzione per ottenere un trattamento di favore dopo le elezioni. A volte, il fenomeno della corruzione raggiunge addirittura i Presidenti e i Vice-Presidenti. Complottare contro altri regimi politici attraverso un colpo di Stato o mediante un’invasione diretta è diventata una pratica comune alla gran parte degli Stati democratici. La democrazia, a volte, ha un criterio doppio. I cosiddetti stati democratici possono appoggiare i regimi politici più dittatoriali fino a quando tali regimi sono alleati delle potenze occidentali e ne servono gli interessi. La violazione dei diritti umani è tollerata sino a quando i regimi politici sono alleati dei cosiddetti stati democratici occidentali. I quali, peraltro, diventano una frusta non appena quei regimi disobbediscono alle grandi potenze e difendono gli interessi nazionali.

In Occidente, la democrazia non impedisce la crescita della destra del Nuovo Partito Nazista in Germania, o delle nuove tendenze verso destra in Francia e in Austria, del fondamentalismo cristiano-sionista negli Stati Uniti e dell’estrema destra, il Likud, in Israele. La democrazia di facciata va in una direzione, e le forze sociali e politiche antidemocratiche in un’altra. I problemi delle minoranze, in Occidente, non sono ancora stati risolti. Negli Stati Uniti, gli Indiani d’America vivono nelle riserve. Gli afroamericani, i cittadini di origine messicana, la gente che vive nella catena montuosa degli Appalachi e la popolazione di colore sono dei sotto-gruppi. Il melting pot è un mito.

La democratizzazione, assieme ad altre tematiche come la società civile, la governance, le minoranze, i diritti umani, il genere, ecc. costituiscono nel loro insieme un ordine del giorno concepito e dettato dall’esterno dagli stati democratici occidentali per essere imposto a quelli cosiddetti non democratici. Lo scopo non è quello di attuare la democrazia come tale ma quello di sbarazzarsi dei residui degli stati nazionali degli anni ’60: la difesa del settore pubblico, i sussidi alimentari, l’istruzione gratuita, l’industrializzazione, lo sviluppo sostenibile, la pianificazione economica, e così via, politiche delle quali al giorno d’oggi le masse avvertono la mancanza. Lo scopo è costruire una base sociopolitica per la globalizzazione e per l’economia di mercato fondata sulla competizione e sul profitto, la quale esige frontiere aperte e la rinuncia alla sovranità nazionale. In tal modo la democrazia è utilizzata come uno strumento per attuare un’economia liberale e non come valore in sé. Essa è anche una copertura, un mezzo per nascondere lo sfruttamento e l’egemonia. La governance globale è un sostituto dello stato nazionale. L’economia globale è un sostituto dell’economia nazionale.

Hassan Hanafi è docente di filosofia presso l’Università del Cairo, dove dal 1988 dirige il dipartimento di filosofia. Nel corso della sua carriera i suoi interessi si sono concentrati sull’analisi delle tradizioni filosofiche islamica e occidentale e sui rapporti che le hanno legate.

Traduzione di Antonella Cesarini

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