Tanto più, aggiunge la filosofa, che l’immaginario del cosiddetto “primo mondo” (e in particolare dell’Italia) è ancora attraversato da un’immagine femminile prigioniera della contrapposizione – veicolata con forza dalla pubblicità – tra donna moglie-madre e donna manager-puttana.
Un’intervista di Elisabetta Ambrosi.
Partiamo dal mondo che ci è più vicino. Quali sono secondo lei le “emergenze” delle donne del mondo occidentale? Penso ad esempio, dal punto di vista sociale, alle conseguenze causate dal passaggio al “post-fordismo” – lavori precari, welfare manchevole, disparità di reddito tra donne e uomini, bassissime presenze femminili nella politica e nelle aziende.
Per quanto riguarda il mondo cosiddetto “occidentale”, è indispensabile operare delle distinzioni da paese a paese, perché la situazione nel sociale o nel mercato del lavoro delle donne in un paese come l’Italia è evidentemente molto diversa da un paese come la Svezia o la Finlandia, o come gli Stati Uniti. Si tratta di situazioni difficilmente confrontabili. Diciamo che nei paesi “avanzati” nelle questioni sociali, l’emancipazionismo delle donne ha avuto effetti e risultati più cospicui, anche perché sono state messe in atto delle tecniche e delle pratiche, come per esempio il “politically correct” negli Usa, che hanno prodotto, anche dal puro punto di vista numerico, dei risultati. L’Italia invece è una cultura mediterranea, a forte ascendenza cattolica: questa ascendenza, culturalmente molto potente, produce l’insistenza su quello che possiamo chiamare il “familismo”, un’idea di famiglia tradizionale in cui la donna ha un ruolo ben preciso, e in cui simbolicamente essa non è collocata nell’immaginario sociale nell’ambito dei saperi e dei poteri, ma nell’ambito della famiglia. Di fatto, più si insiste con una cultura di valorizzazione della famiglia tradizionale, più la donna continua a ricoprire nell’immaginario questi ruoli. Questo è uno dei motivi degli scarsissimi risultati, rispetto al processo emancipativo, che ci sono in Italia.
Quali sono gli altri motivi?
Questi cattivi risultati si incrociano anche con altri moduli che hanno poco a che fare con la religione cattolica, ma che riguardano il costume politico nazionale, che è caratterizzato da lobby di professionisti della politica che riproducono se stessi: e in questa auto-riproduzione viene loro spontaneo pensarsi come soggetti maschili (cosa che appartiene alla tradizione non solo italiana): ma c’è di più, perchè con questi meccanismi c’è pochissima mobilità e possibilità reale di ricambio della classe politica, che tende a conservarsi (basta vedere l’età delle massime cariche politiche). Sono professionisti della politica proprio nel senso weberiano della parola, visto che il loro lavoro è la politica e quindi tendono a conservarlo, proprio come io voglio conservare il mio. Ripeto, questo fenomeno, un po’ generale, in Italia è molto più evidente, mentre non lo è in paesi pure cattolici come l’Irlanda, dove c’è un ricambio nel luogo dei saperi e dei poteri che lascia spazio ai giovani. Noi abbiamo in sostanza l’incrocio tra tradizione cattolica conservatrice e autoconservazione della classe politica. Due trappole di chiusura.
Cosa pensa dell’ipotesi delle “quote rosa”?
Le considero un puro strumento, per di più temporaneo: le quote non fanno parte di una verità politica, o di una grande rivoluzione in nome della libertà. Sono strumenti di autocorrezione di un principio di eguaglianza che non va. Il principio di eguaglianza è stato scritto nella costituzione italiana, ma sostanzialmente non funziona, anche se è espresso formalmente. E io credo che se c’è un principio costituzionale che non funziona questa classe politica, al novanta per cento maschile, dovrebbe preoccuparsene e darsi da fare per attivarlo, finalmente.
Lei ha parlato del modo in cui il modello cattolico familista ha inciso negativamente sull’emancipazione femminile. Ma esiste, secondo lei, una tensione strutturale tra donne e religione, in particolare quella islamica?
Voglio chiarire subito che non sono un’esperta di Islam. La mia impressione, tuttavia, è che il sistema repressivo così ferocemente repressivo che si ha in alcuni paesi islamici dipenda, più che dalla religione, da tradizioni tribali. Si tratta appunto di costumi tribali, che sono il volano che poi legge la religione in senso repressivo per le donne.
A suo parere, che cosa dovrebbero mutuare dal femminismo occidentale le donne islamiche?
Secondo me non dovrebbero prendere quasi niente. Mi spiego. Un soggetto che agisce politicamente è calato in un determinato ambiente, un preciso contesto e secondo me ci sono già dei sintomi qua e là, per esempio in Iran, che indicano vie politiche per la liberazione e per una certa valorizzazione del soggetto femminile. Rispetto a questi fermenti, le donne occidentali devono dare tutta la loro solidarietà, e fare un tentativo di comprensione, ma certamente non mettersi a fare le maestrine e dire “Se volete liberarvi fate come l’Occidente”. La rivoluzione francese, voglio dire, è scoppiata in Francia nel ‘700, e al di là della globalizzazione penso che non possiamo prendere il frutto di un’esperienza storica molto peculiare e applicarla a tutto il globo.
Tanto meno, allora, deve essere mutuato il modello della donna che viene veicolato dai media.
In realtà esistono media e media e ogni paese è diverso. Posso dire però che i media – parlo soprattutto della pubblicità che ha una grande influenza – diffondono una figura femminile da una parte molto familista, ossessionata dalla pulizia (questo avviene in quasi tutti i paesi dell’Occidente, che invece prima ho distinto); dall’altra, a questa figura viene affiancata per contrasto la donna grande manager, molto feroce, con caratteristiche di rampantismo maschile ma anche con particolari letteralmente vampireschi. Così, si usano per contrasto queste due immagini, e una fa il gioco dell’altra. Voglio però dire che l’uso del corpo femminile osceno, in pose sessualmente provocanti (il puro corpo come oggetto del desiderio maschile), quello che compare sia nella pubblicità sia soprattutto nei nostri settimanali di “cultura e politica”, è un fenomeno molto italiano. Lei non troverà una copertina del genere negli Stati Uniti, o meglio troverà donne in posizioni oscene sulle riviste e sui giornali pornografici, che sono giornali di settore, quindi all’interno di un contesto, mentre Italia sono decontestualizzati. Questo fa il paio con la predominanza della cultura cattolica familista, nel senso che l’ossessione per un buon comportamento femminile oblativo all’interno della famiglia fa diventare molto appetitoso e di grande richiamo la trasgressione di questo stereotipo. E la trasgressione è proprio la donna puttana, per cui esiste questa schizofrenia tra la donna che ti accudisce (la moglie, la madre) e l’altra.
Lei conoscerà benissimo il dibattito relativo all’opportunità o meno di intervenire (e come) in difesa di diritti umani violati. Cosa bisognerebbe fare, secondo lei, quando i diritti femminili vengono calpestati?
Il campo dei diritti è un campo su cui chi conosce la materia può tecnicamente intervenire. Molte sono infatti le vie possibili. A mio avviso, però, il motore di un cambiamento, che poi si riflette anche nel sistema dei diritti (che storicamente è il risultato di una cultura e non viceversa), è costituito dall’agire a livello di simbolico. È lì che si operano cambiamenti a lungo termine. In altre parole, la pura politica dei diritti, meccanicamente applicata, ha valore se è all’interno di una riconfigurazione del simbolico. Altrimenti non funziona.