Sentite questa. Allora, qualche mese fa mi stavo godendo la solita serata del lunedì, tipo: puntata di Lost e un bicchiere di assenzio, senza cucchiaino, che non ho capito come si usa, quando mi chiamano al cellulare e mi chiedono se ho voglia di leggere qualcosa di mio al teatro Eliseo di Roma, verso marzo, e io dico ma certo, e loro fanno bene, e io dico ok, e loro fanno allora ci si sente per i dettagli, e io dico perfetto, e loro fanno ciao, e io dico buonanotte e metto giù e penso figo, e comincio a vedermi già nel paradiso degli scrittori con Kafka e Hemingway; poi però, dopo un mese, un mercoledì sera, tipo: puntata di Grey’s Anatomy e bicchierino di whisky senza ghiaccio, che non mi piace col ghiaccio, arriva una telefonata e mi fanno senti non abbiamo ancora ricevuto nulla di tuo e io dico ah, scusate, visto che era per marzo pensavo…, no no ci serve subito, ok allora vi invio il racconto sul maratoneta dal cuore malato e loro fanno no no non hai capito, vogliamo quindici cartelle sul tema dell’immigrazione e io penso cazzo l’immigrazione, ma non lo dico, dico invece ok allora ci penso, e loro fanno va bene pensaci, ma in fretta sennò… e io dico sì e metto giù e inizio subito a andare in paranoia e a fondermi il cervello su cosa scrivere e non scrivere, e mi dico che l’immigrazione non è nelle mie corde e vorrei rinunciare e non dormo un paio di notti poi, una mattina, mi sveglio e tac ho un’idea in testa, incredibile ma ce l’ho, niente di originale state tranquilli, però è qui nella testolina. Seguo l’idea e l’idea mi porta a prendere il mio registratore portatile e lo zainetto con dentro la macchina fotografica perché può capitare di cogliere un attimo di vita che merita di essere colto, non si sa mai, e comincio a vagare per la città alla ricerca di un extracomunitario, possibilmente clandestino, che abbia voglia di raccontarmi la sue sfighe o le sue botte di culo qui, nel Bel Paese. Insomma come dicono molti manuali di scrittura, volevo partire dal dato reale per trasformarlo in finzione. Detto fra noi, non avevo la minima idea di cosa scrivere e cercavo una storia, una qualsiasi, per uscire dalle sabbie mobili in cui mi trovavo.
Giro e giro per le strade di Milano finché non finisco in un bar, uno dei tanti con nomi assurdi, che si trovano vicino all’università, un buco di quelli dove vanno gli studenti quando non c’hanno lezione e cazzeggiano parlando di calcio e fighe, i ragazzi, e di moda e fighi, le ragazze. Entro in ’sto bar, il Point Break, mi sembra, e mi si para davanti una folgorazione, come una sberla di mamma quando era arrabbiata che io avevo fatto qualcosa di brutto, insomma una roba alla Joyce dei Dublinesi. Una epifania, ecco cosa mi trovo di fronte. Una vera e propria epifania. Premessa numero uno. Io non sono gay, mi piacciono di brutto le donne. Sia chiaro non ho niente contro i gay, ho avuto un capo gay, ebreo, che tartagliava, stupido come una capra, ma nessuna di queste caratteristiche, a parte l’ultima, mi infastidiva particolarmente. Insomma non sono qui per parlare di identità sessuale né di appartenenza religiosa né di problemi di somatizzazione né di altre cosucce un po’ troppo pese per un’occasione come questa, sono qui per dirvi che la folgorazione di cui parlavo si è sostanziata – sentite come parlo bene quando voglio – in un ragazzo alto, torso modellato su maglietta United Colors bianca, biondiccio, occhi azzurro husky, di quelli che trapanano se non ci stai attento, sorriso infame, tra Nicholson e la pubblicità del dentifricio, mani da efebo greco e culo da body builder. Per farla breve: un uomo di una bellezza sconvolgente, una roba da Hollywood piovuta sulla terra.
Approccio il bellone ordinando cappuccio e brioche e scopro che viene di Ucraina, che è clandestino – lo negano le parole ma lo dicono gli occhi – e che si chiama Sergej. Speravo in qualcosa di più originale, ma tanto so che il nome è falso. Seconda premessa. Dopo la caduta del muro di Berlino, ho pensato bene di studiare la lingua di Dostoievskij all’università. Pensavo, eccolo lì il mercato del futuro. San Pietroburgo Milano; Mosca Milano. Import export. Traduzioni. Bella idea, sì. Be’, che dire? Mi sono fatto il mazzo per quattro anni con Cirillo e Metodio, poi in Russia non è andata esattamente come speravo e ho scoperto altri interessi, così ho smesso di considerare il russo una lingua viva, e sono passato oltre. Chiusa la premessa numero due. Sta di fatto che, davanti a Sergej, gli anni di università mi paiono per un attimo non del tutto buttati e mi viene da tirare fuori i miei penosi vocaboli cirillici e lui si mette a ridacchiare con quel sorriso bastardo; e un po’ in italiano un po’ in russo riesco a farmi promettere che mi racconterà qualcosa della sua vita. Da, saglasna, dice, però aggiunge che se faccio il suo nome a qualcuno mi mette lì la faccia come Elephant Man e io gli do la mia parola e gli stringo la mano e lui mi ritorna la stretta, ma un po’ troppo forte per i miei gusti. Comunque. Me ne sto seduto a aspettarlo finché finisce il turno e intanto crepo d’invidia perché le ragazzine più fancazziste e le donne che vengono a bersi il caffè durante gli orari di ufficio se lo mangiano con gli occhi. Una roba imbarazzante, una roba che a me è capitata forse una volta, ma mica sono tanto sicuro. Per farla breve, termina il turno e finalmente ci presentiamo un po’ meglio. Scopro che è di Kiev e ha ventisei anni. Se voglio sapere altro devo andare con lui che non ha tempo adesso. Fine.
Allora andiamo. Terza premessa. Sincerità. Sì, devo essere sincero con voi. Il mio russo, nonostante i tanti anni passati sui libri è pessimo, anzi fa schifo, così come è terribile l’italianskij di Sergej, quindi, siccome so che sarete comprensivi, vi racconterò la vicenda di Sergej più per come l’ho intuita che non per come credo sia davvero andata. Diciamo che ci ho messo un po’ di fantasia qua e là, diciamo che ho unito le linee, come in quel giochino che mi piaceva tanto fare da piccolo sulla Settimana Enigmistica. Ho unito le linee, ma i puntini li ho messi un po’ a caso, ecco tutto. Usciamo dal bar e Sergej mi dice di montare su uno scooter nano che fa un rumore da motogp. Un modo perfetto per attirare l’attenzione. Il tipo non deve essere Einstein, penso io. Poi mi dice che gli dispiace, ma che il suo mezzo è a riparare e che il catorcio è di un amico spagnolo a cui piace Valentino Rossi. Vedi? E mi indica il 46 sul parabrezza. Annuisco e partiamo. Sono senza casco, fa un freddo bestia e sto sulla sella con un ucraino irregolare che conosco da mezz’ora al massimo. Fra l’altro andiamo a manetta e passiamo volentieri col rosso. Cominciamo bene, mi dico. Però penso anche che per la gloria letteraria si può fare questo e altro. Ci inoltriamo in viuzze atroci, con palazzi austeri; non brutti in origine, ma zozzi da far schifo, ora; con marciapiedi pieni di robaccia e cacche di cane, finché non ci fermiamo davanti a un cancello come tanti. Da signor nessuno. Mi rendo conto che, per essere Milano, il posto in cui vive Sergej non è considerato infame, solo un po’ fuori mano, ma neanche tanto. Sarà vero, però nel cortile c’è la carcassa di una macchina carbonizzata. Sergej mi dice che è lì da quando è arrivato e che nessuno ha mai capito di che era l’auto. Lui ha un sospetto, ma non è sicuro. Mi spiega anche di non preoccuparmi: che il palazzo è tranquillo, che ci sono un sacco di italiani, che tutti vanno d’accordo, bolsce ili miensce, dice proprio così, e io sono fiero di averlo capito. Bolsce ili miensce. Più o meno.
Saliamo scale, superiamo cancelli, scopriamo recessi di palazzi che mai mi sarei immaginato potessero esistere e ci troviamo in un corridoio illuminato da un paio di lampade al neon. Miopi. Intermittenti. Nella semioscurità, Sergej avanza verso una porta scalcagnata, apre con foga e mi fa segno di entrare. E io entro. Se fossi un bravo scrittore qui comincerebbe la parte in cui faccio parlare Sergej in prima persona. E siccome sono un bravo scrittore così faccio. Questa è la sbobinatura poco fedele di ciò che Sergej mi ha detto in quell’oretta prima che mi accompagnasse nella palestra clandestina non tanto lontana da casa sua, lì dove le cose non sono andate proprio come dovevano andare. Vuoi sapere la mia storia? Ok, ecco qui che ti racconto, ma in fretta. Il mio nome è Sergej e vengo di Ucraina. Come Shevcenko. Più bello ma meno ricco. Peccato. Che io molto bello si vede. Posso essere uno che indossa abiti se voglio, ma quelli della moda a me stanno laggiù. Capito dove, no? Tutti. Nicevo pravda. Niente di vero in quel loro mondo di cavolaccio. Ehi, cosa guardi me storto, ho detto cosa banale, lo so, ma è come in proverbi, c’è sempre un po’ di vero, o no? Torniamo a Sheva. Se io guadagno uno per cento di quello che guadagna lui a me basta per mantenere una vita. Sono tutti fuori questi del calcio, cavolaccio.
Peccato però; che so suonare il piano da dio, che so fare pugilato come pochi ma… ridi? Cosa hai da ridere? Ti sembra che non stanno bene insieme pianoforte e pugilato? Guarda queste mani: magiche. Leggere come piume su piano, pesanti come martello su faccia. Se vuoi altra verità sono bravo anche a scopare. Scopo come dio. Ancora ridi? Bene, allora ciao… No, no, se vuoi che continuo, togli tuo sorriso che prende in giro, va bene? Scopo da dio, e donne italiane sanno questo, mi annusano, e mi cercano. Sì, e io le scopo. Tante. Aspetta, una cosa alla volta. Ti dico, so fare boxe, scopare e suonare come dio, ma faccio schifo a calcio, e a me spiace, cavolaccio. Voi italiani siete pazzi per calcio. Ucraina conoscete solo perché è nato Sheva e perché avete battuto ai mondiali, sennò nessun di italiano sa che esistiamo. In Italia solo professori sanno dove è Ucraina. Chiedi a tuoi amici italiani dove sono Ucraina o Bulgaria e poi di’ a me. Non lo sai tu neanche, eh? Fa niente, io abituato a questo. Italiani zero in geografia e zero in sesso, cavolaccio. Poi ti spiego perché, prima ti dico c’è un’altra cosa che noi in Ucraina siamo bravi meglio di voi nel vostro paese. In Ucraina tutti sappiamo tutto di Verdi. Giuseppe sì. Cantiamo le opere sue. Suoniamo la musica sua. Da voi solo pochi pochi la sanno. Provo a chiedere in giro, ma mi fanno tutti una faccia che dice: tu scemo, che mi frega di Verdi, cavolaccio!
Sono in Italia da tre anni. Prendo treno a Kiev, scendo a Milano e non torno più. Voi pensate che clandestini arrivano tutti con gommoni. Mi fate ridere. Davvero. Anche io vedo loro in televisione, quelli che scendono in Sicilia. Non mi frega niente di loro. Loro vita, per ora, non cambia mia vita. Solo un po’ qui dentro, come dice tu? Coscienza, sì, ma poco. Se sono italiano penso anche io che rompono, che non li voglio. Sai, è difficile pensare a loro quando le cose vanno bene abbastanza a te. Non guardare me così, non pensare che io cattivo, non pensare che io razzista, non pensare un cavolaccio di me. A me le cose in Italia mi vanno bene abbastanza e fanculo di resto. In Ucraina no. Ma di Ucraina non parlo a te. Parlo di donne italiane che scopo, di lavoro, di pugilato e di calciatore spia che ho conosciuto perché mi faccio la moglie. Storia interessante. Giuro. Ok, adesso ti racconto. Comincio come muratore in cantiere. Con quelli di Bergamo e di Brescia e altri di tanti paesi. Neri gialli rossi. Tutti i colori. Il grande capo dopo che lavoro da due mesi non paga me. Io chiedo a lui i soldi. Lui dice che mi dà soldi, ma non dà. Li chiedo di nuovo e lui dice che li dà, ma non dà. Chiedo ultima volta e lui dice calma, te li do, ma non adesso. Allora io, in fine settimana, cerco chi è sua moglie. Una di quarantadue quarantatre anni, più o meno, sempre sola, che si annoia, senza figlio, non brutta, super di moda, con stivali dentro di pantaloni che è ridicola a vederla. Ma tanto. Però non mi interessa lei, voglio vendettarmi. Così la seguo e un sabato che ha tante borse, mi avvicino e la aiuto a portare spesa a casa.
Lei prima non è contenta, sembra, poi si abitua. Io faccio a lei qualche battuta, dico a lei che è bella, lei sorride, poi chiedo se vuole bere un caffè e prima è indecisa, poi di meno, poi mi dice porto te in un posto bello a bere un caffè buono buono e prendiamo la macchina e andiamo, andiamo e andiamo. Andiamo così tanto che penso che sta portando me a casa, in Ucraina. Durante che viaggiamo parliamo inglese. Lei lo sa bene abbastanza. Anche io. Arriviamo a un grande parcheggio e c’è tutto il mare intorno e io so che siamo a Venezia. Inizio a dire a lei le cose che so sui pittori italiani di rinascimento. Lei non sa che padre mio è pittore, lei non sa che padre mio è insegnante d’arte e fa lezione a noi a casa. E io racconto e a lei occhi fanno sorriso e prendiamo una nave, ma piccola, che va nei canali, e per la prima volta vedo dal vero quella città. E vorrei che esiste una macchina per fare scambio subito con altra persona, vorrei che lì c’è mio papà al posto mio, perché mio papà se lo merita più che me, perché lui sa dove che mettere gli occhi, io no, lui sa piacere più che a me Venezia. Io contento comunque perché poi posso telefonare a casa e dire a lui che vedo Venezia e raccontare a lui tutto, ma non è la stessa cosa. Mio papà si chiama Mischa, fa il pittore, ma quando c’è Unione Sovietica a casa nostra, lo chiamano pittore come nazi chiamano Kandinsckij. Sì, sì, degenerato. Ogni tanto, la notte, vengono facce a culo di KGB e vogliono che Misha dà loro i suoi quadri. Dicono a lui che non è in Stai Uniti, che lui non può fare Andy Wharol, lui è pittore sovietico e deve fare pittura sovietica. Non si può fare la pop art, lì da noi, dicono facce a culo.
E lo portano a ufficio loro e lo tengono dentro tutta la notte. La mattina dopo torna a casa e ricomincia a fare quadri e poi vengono facce a culo e i quadri se li portano via ancora. E ancora. E ancora. Io lo vedo adesso Mischa, nella stanza di sopra a casa, con finestra che guarda sul bosco con tanti ciliegi, magro magro, pelato, con una barba bianca come Tolstoj e lunga anche, le mani grandi che si muovono sempre, con piccolo pennello in mano anche se non fa i quadri, e il fuoco del camino che gli fa la luce sulla testa; e adesso mi ricordo di una volta che entro in quella sua stanza e lui guarda fuori e quasi non si accorge di me che entro e si gira e io capisco una cosa grande di lui, capisco che se lui può, vuole togliere di suo corpo ogni cosa tranne testa e mani, tutto tranne testa e mani, perché è solo quelle due cose che lo rendono vivo e… ma vaffanculo, cavolaccio, io ho promesso che non dico niente a te della mia casa per cui, no, basta, fine. No, non vado avanti. Vado avanti con la storia di me in Italia, se vuoi, sennò niente. Sì, inizio a scopare con moglie del mio capo. Sì. Poi lascio quel lavoro di merda e inizio altro lavoro di merda, inizio a fare le pulizie in grande azienda di televisione. La mattina. No, continuo a scopare con lei, ma anche con altre. Poi una volta che sono stanco di lei, prendo grande busta e metto dentro mutande di moglie che ho rubato a casa sua e le spedisco a marito, mio capo. Più sentita, magari lui uccide lei, chi può sapere. Scherzo dai, lui avrà chiesto divorzio. Meglio per lei che si fa un po’ di soldi e non deve più scopare con bastardo che puzza.
Sì, pulisco pavimenti e cessi di azienda, pulisco lo schifo che fanno questi che sembra che sono come dii venuti su terra. Fanno la televisione loro, ma dal vero fanno schifo. Ma molto. Sì, te ne dico una. La sera prima vedo in tele un attore famoso, bello, e lo intervistano, e lui dice che le donne sono le cose più fantastiche che esistono, che per avere loro bisogna che fai questo e quello, e io certe cose penso che sono vere e che c’ha ragione e fanno un sondaggio e fanno vedere che lui è uomo che donne italiane amano di più; poi, il giorno dopo, entro in bagno degli uomini per mettere nuova carta igienica e trovo l’attore bello, quello della sera prima, che bacia capo di azienda e con mano dentro di suoi pantaloni. Giuro. Sì. No, non dico palle, e neanche, no, non dico un bel cavolaccio di nome. Non sono mica una spia, io, Sergej. Niente. Loro si sono staccati e sono usciti, io ho messo la nuova carta igienica. Fine. A proposito di spie, se vuoi ti dico una storia, ma bella. No, niente palla. Nicevò. Garantisco. No, non c’entra KGB, c’entra uno bastardo che rovina un altro perché dice cose a polizia. Ti spiego come è. Un giorno entra una donna in bar dove lavoro. Bellissima. Quaranta anni più o meno. Elegante, con classe che la puoi pesare. Io sono contro innamorarsi. Innamorarsi è pervertito, io penso. Sì, come si dice? Ecco, perversione. Sono per amore e sesso libero, non sempre uguale, ecco, intendo.
Però, davanti a Carla penso che posso essere un po’ perverso, solo un mese però, o di più, magari, non so. Bosge moi. Eta udivlenie. Sì, una meraviglia e si chiama Carla, e è mia amante per un po’ di tempo. Sì. Entra in bar, rimango con bocca aperta, ma non perdo tempo, faccio a lei battute e siccome che ha grande tubo in giro al braccio chiedo a lei cosa è, e lei risponde a me che è architetto e che ci sono disegni di case dentro, allora faccio finta di sapere cose di architettura e parlo di architetti che non so chi sono, ma ho letto nomi su qualche libro, un giorno, in libreria di università, e li ho sparati. Lei è colpita, si vede, e il giorno dopo viene ancora e faccio cappuccino buono buono, speciale, con cacao e tutto, e glielo offro e poi viene giorno dopo, e ancora e ancora tanti altri giorni. Poi, una sera, quando finisco di lavoro, vado in libreria e prendo da scaffale un libricino su architetti e sto in un angolo e leggo e imparo un po’ a memoria, e il giorno dopo sparo un po’ di cavolacciate, ma intelligenti credo, su architettura e lei dice a me che se voglio, lei può raccontare qualcosa di più interessante su architettura, mica cose corte, come si dice, sì, ecco, riassunti, ma intanto ride, mi prende in giro, si vede che vuole divertirsi con me, ecco.
Mi dice che può raccontare a me di architetti magari sabato, e io dico che no sabato lavoro, e lei dice domenica e io dico sì che domenica non lavoro. Allora ci vediamo domenica pomeriggio vicino a Sant’Ambros, come dice chi è a Milano da tanto, e dopo che parliamo un po’ su panchina, capisce che sono tranquillo, un tipo a posto, simpatico, e bello – molto – vedo che mi guarda tanto e capisco che le piaccio, e invita me a casa sua lì vicino. Casa bellissima, non grande, ma bellissima. Dentro di casa, su armadio, dietro il vetro, io vedo tante coppe, e lei dice che marito è ex calciatore famoso, molto. Mi fa suo nome, ma non lo conosco. Lei dice che è calciatore in anni 70/80, è un po’ che non si sente e non si vede più. Poi vedo che in un angolo c’è un pianoforte. Allora dico a Carla se posso suonare e lei dice che faccio pure, e io, dopo che più non tocco il piano da due anni quasi, mi sembra straniero, lui il pianoforte, dico, ma poi ci prendo la fiducia e suono e suono e Carla ogni volta che finisco mi dice che continuo e io continuo, poi quando suono Satie, un pezzo bello triste, sento caldo sulla schiena e poi le mani di Carla sugli occhi sulla testa sul collo e poi smetto di usare le mani sul piano e le metto addosso a lei e poi… e poi lo sai come vanno queste cose, no, cavolaccio?
Il giorno subito dopo, finisco che lavoro e poi corro da FNAC e vado su internet, metto il nome del marito di Carla e Google spara fuori 124.000 pagine su di lui e allora penso che è un calciatore figo davvero. Così anche al bar chiedo se qualcuno conosce lui e il padrone, quello bastardo, mi dice che è un mito e che non sa dove è che è finito, che magari poteva fare l’allenatore o andare in tv a sparare un po’ di cavolacciate, tanto ce n’è tanti, invece nicevò, niente, nessuno sa dove è che è, e io penso che è anche un mito, ma io sono più mito che lui che scopo la sua moglie. Ma lei Carla non si fa più vedere, allora io qualche sera vado davanti alla casa sua, ma non la trovo mai e invece credo di vedere lui una volta anche se è buio e non sono sicuro. Penso a Carla e penso che amore è vera perversa, no, come si dice? perversione, sì, che lei è davvero come se è chiodo in mio occhio, qui, capito! Allora per levarmi la voglia che cresce qui in mezzo a gambe, capisci cosa intendo, no? Ecco, vado in palestra… oh, cavolaccio, fra poco dobbiamo andare in palestra sennò ammazzano me e te insieme. Se vuoi che vieni, vieni, che ti presento io. Dicevo che vado in palestra e faccio boxe clandestina con altri stranieri e gli spacco la faccia brutta che hanno perché sono arrabbiato che Carla non viene più a trovarmi al bar.
Il tempo passa e passa e quando è primavera quasi, lei viene a bar e mi dice che dopo che lavoro vuole parlare con me. Ma non a sua casa a mia casa. Ma io vergogno di mia casa e lei dice che non interessa a lei dove che abito e allora veniamo qua e lei si siede dove tu adesso. Sì, su questa sedia lì. E parliamo e dice che suo marito, il calciatore, non lo ama più, che quando lo conosce, che suo papà dirige insieme a altri la sua squadra, lui finisce da poco di giocare, e Carla è giovane e lui anche se è famoso gli pare che è semplice, con tanta energia dentro, quella di uno che è bravo ma proprio campione a fare una cosa, e si innamora di lui, e anche se lei è dieci anni più giovane, anche lui la ama, e si sposano, ma la cosa strana è che dopo che smette di giocare, lui non vuole fare più niente con il mondo di calcio, compra appartamenti e sta a casa e fa cose in borsa e allena una squadra di quartiere, di bambini piccoli, e basta. La società a lui offre di fare cose, molte anche, ma lui non vuole, e diventa senza parole e come cane, con rabbiosità. No, sì, rabbia. Lei cerca di aiutarlo, ma lui niente, non interessa niente a lui, lui è calciatore che non sa fare altro che calciatore, ma che non può più fare il calciatore. Capito?
Ecco io forse ho capito, spero anche tu. Allora lei vuole fare figli, così che magari lui cambia e è più allegro, ma lui invece non vuole. Poi, dopo tanti anni che aspetta chissà cosa, un giorno conosce me, dice lei, conosce me e sente come suono pianoforte e anche se dico che non voglio più suonare perché mi ricorda la casa e la famiglia e gli alberi con ciliegia e perché da quando sono in Italia ho deciso di mollare il pianoforte, lei dice a me che non vuole vedere uno con talento buttare via la sua vita come marito, e io dico grazie a lei, ma che non voglio più e mai più suonare, e poi insiste e io dico che va bene, ma sotto sotto penso che poi più avanti dico a lei di no sempre e sempre. E poi ci vediamo di più, ma solo a mia casa e un giorno viene e piange e ha una faccia brutta che non conosco, e mi dice che sente dire a suo papà, a un amico, in una stanza, che loro non la vedono, che marito, tanti anni fa, fa una cosa bruttissima a suo compagno di squadra. Allora lo chiede a suo papà e prima lui dice che non può dire a lei, ma lei fa la dura e lui lo dice. Racconta di questo compagno di squadra.
Uno bravo bravo. Ala veloce, dribbling e cross belli. Lui è anche uno che ha idee politiche e vuole parlare di politica sempre, dentro la squadra e con giornali. E lui e marito suo sono compagni di stanza quando giocano, e marito molte notti si accorge che, prima di partita, lui va fuori di nascosto, e marito gli chiede dove che va, e lui gli dice di andare con lui e una volta va e vede un posto nascosto in campagna, con gente che discute di politica e prepara striscioni e altre cose che non capisce. Strane. Poi una volta arriva la polizia dentro a spogliatoio e uno a uno fanno domande, sì domande a tutti su terrore, no, ecco, su terroristi. Il marito ha paura e dice, dopo tante domande, dice che sa un posto dove vanno forse, e li accompagna e lì trovano armi e gente, tanta, arrabbiata, e esce il nome del suo compagno e, però, siccome non hanno prove prove che è terrorista, e siccome è famoso calciatore, fanno finta che ha grave infortunio e non può più giocare, ma non mettono lui in prigione. Lui non gioca più e suo marito diventa grande calciatore, ma è spia bastarda e uomo schifoso. Per me.
Carla dice che non vuole più stare con lui, che non ama più lui e che a lei pare pazzo che è un uomo così, che non lo vuole vedere e anche non lo vuole perdonare. Poi un giorno che torno a casa, fuori di porta c’è Carla che aspetta e insieme a lei ci sono due uomini con pianoforte che va contro il muro. Io prima non dico niente, aiuto quei due a portare dentro stanza il piano e quando sono andati dico duro duro a Carla che non voglio i suoi soldi, che ce la faccio da solo, che se voglio me lo compro io il piano, ma non voglio, non voglio più, mai più, suonare il pianoforte, e lei si arrabbia, poi piange, poi si incavola, poi va in bagno, poi urla, poi se ne va e mi lascia con il piano in mezzo a casa e il suo profumo nella stanza e qualche vestito in cassetto. E basta. Poi quando vado in bagno vedo una cosa strana sulla carta igienica. La prendo e vedo che è sporca con il rossetto e c’è scritto: RACCONTALO TU, una lettera per ogni strappo e poi, alla fine, c’è il segno della sua bocca col rossetto. A questo punto, il racconto di Sergej finisce e io spengo il registratore. Stop. E vedo che Sergej si alza, si avvicina a un armadio, apre un cassetto, tira fuori una striscia di carta igienica, la appoggia sul tavolo e mi dice io ti ho raccontato, tu sei scrittore, allora racconta tu. Do un occhio alla carta e ci trovo dentro le parole di Carla e vedo la sua bocca, lì impressa da qualche mese: un fantasma fatto di rossetto e carta. E penso che è strano.
Poi Sergej mi dice che dobbiamo andare alla palestra altrimenti gli fanno il culo e io lo seguo, ma prima do un ultimo sguardo alla carta igienica. Penso, tipo ‘sta roba non la dimentico più. E infatti c’è l’ho ancora qui davanti agli occhi ogni tanto. Carta igienica e rossetto. E allora pigliamo il motorino e andiamo e andiamo in luoghi della città dove non sono mai stato, dove mi oriento a stento. Poi Sergej parcheggia la carretta in uno spicchio di marciapiede all’ombra, un posto umido da far schifo come solo se ne possono trovare a Milano, e mi dice di scendere, ma veloce. Io scendo al volo e lo seguo quasi correndo. Arriviamo davanti a un palazzo obbrobrioso, mezzo diroccato, e vedo Sergej che suona al campanello. Una due tre volte. Come un codice. Come un cazzo di 007 sfigato. Dopo qualche istante arriva un tipo panciuto, con un vestito grigio improbabile e i capelli tinti di un nero violaceo. Pare che invece che l’hennè ci abbia messo la vernice tanto sono spessi e catramosi. Per finire il capolavoro ha pure la faccia asimmetrica, che sembra sia come riflessa dentro un vetro rotto. Appena apre la porta fa a Sergej e lui chi è? e Sergej dice un amico, e faccia doppia fa sicuro? e Sergej dice certo, e allora quello apre la porta e io gli passo di fianco e sento una zaffata di aglio paurosa, che non so da dove gli venga visto che ha la mascella serrata e sta a due metri da me.
Eppure zaffa da paura. Poi faccia doppia ci precede, e con chiavi lunghe una spanna ci fa passare di porta in porta, di cantina in cantina e, alla fine, arriviamo in una sala sotterranea piena di gente. Ci sono fumo e puzze di ogni genere lì dentro, tipo sudore e segatura e umidità e piscio. In mezzo a tutte ‘ste persone e a ‘ste puzze, c’è un ring. Pulito e illuminato bene. Io sto lì un po’ a osservarlo imbambolato, visto che non ne ho mai visto uno dal vivo. Poi mi guardo intorno e mi accorgo che ci sono quasi solo uomini in quel postaccio. C’è qualche ragazza qua e là. Mezza nuda, bionda con la crescita, il fisico da ballerina mancata, ma che sembra lì a fare il mestiere più vecchio del mondo più che il doppio passo. Magari per una sveltina fra un round e l’altro o a fine match. Una roba del genere. Comunque appena vedono Sergej gli ficcano un paio di guantoni in mano e lo fanno salire sul ring. Lui si toglie giacca, felpa e maglia e resta a torso nudo, coi jeans al culo. Si fa legare i guanti da un ragazzino acneoso e appena suona il round si avventa sul tizio marocchino che gli sta davanti. Devo ammetterlo, Sergej non raccontava palle. Sa tirare di boxe e bene anche. Chissà se suona e scopa altrettanto bene. Comunque.
L’incontro purtroppo dura solo un paio di minuti, il tempo di vedere il marocchino barcollare vistosamente e Sergej infierire con classe e rabbia. Poi arrivano rumori urla e botte e vetri infranti e uomini che si spingono e che spingono altri uomini e do un occhio al ring e scorgo Sergej che, nudo e coi guantoni, salta fuori dalle corde e fila via, più veloce della luce, e ho l’impressione che prima di sparire dietro la porta laggiù, sul retro, mi lanci un’occhiata, ma non ne sono sicuro, anche se ci penso ancora ogni tanto, di notte, quando non riesco a dormire e mi vengono un po’ di idee per scrivere il grande romanzo della vita, ma ho troppo sonno o sono troppo pigro per alzarmi a scrivere, e allora penso alle cose che mi sono capitate e ancora mi sembrano assurde… Per farla breve mi hanno beccato nel bel mezzo di una retata della pula contro le scommesse clandestine. Ho passato mezza giornata a spiegare perché ero lì e, per fortuna avevo la cassetta con Sergej che parlava a scagionarmi. Più o meno, visto che mi hanno schedato comunque. Sono passato a casa di Sergej dieci volte prima che si aprisse la porta e si presentasse una donna cicciotella con l’accento calabrese. Le ho chiesto se sapeva qualcosa di Sergej, ma lei mi ha detto: Chi? Le ho chiesto se aveva trovato un pezzo di carta igienica con su delle scritte col rossetto, ma lei mi ha guardato come si guardano i matti, e ha aggiunto che doveva pulire le cozze. E ha chiuso. Sbam. Sono rimasto lì, sotto le luci al neon. Quelle miopi e intermittenti. Ho rivisto davanti agli occhi la strisce di carta sbaffate di rossetto. Ho pensato a Sergej e a Carla, poi sono tornato a casa e ho cominciato a scrivere.
“Tutto, tranne testa e mani” è uno dei testi che sono stati scelti per essere recitati all’Eliseo Café di Roma (Via Nazionale 183) nell’ambito della manifestazione Melting Plot. Cinque giovani scrittori diplomati alla Scuola Holden di Torino fondata da Alessandro Baricco leggono propri racconti inediti su luoghi, volti, e storie di emmigrati (un ibrido tra immigrazione e emigrazione). Le cinque serate di Melting Plot, a cura di Alessandra Minervini, mettono in scena storie che capovolgono, con l’ironia, la distanza culturale che convenzionalmente interviene quando metti nello stesso luogo persone che parlano una lingua diversa. Il prossimo evento si terrà il primo aprile 2007.