La domanda di giustizia, libertà e democrazia che si è riversata nelle piazze del mondo arabo ha aperto una fase di transizione dai contorni ancora sfumati. Una delle incognite è il futuro dell’informazione e dei mezzi di comunicazione. In un paese dove è appena stato demolito un regime, almeno nel momento della rivolta, è paradossalmente facile sviluppare un sistema plurale e indipendente, perché come ha ricordato Faouzi Ezzedine, direttore dell’emittente tunisina Hannibal Tv, “è naturale schierarsi con le opposizioni del regime che si lascia alle spalle”. Ma quando le componenti di queste rivoluzioni dovranno decidere i nuovi assetti del potere, allora la questione potrebbe nuovamente complicarsi.
Sino ad ora televisioni e giornali nazionali, in Tunisia, Egitto e Libia, sono stati di solito il megafono del potere. E in un panorama estremamente rigido per gli operatori dell’informazione, costretti a subire pressioni, minacce o peggio arresti, quando non sono “spariti” nel nulla, si sono inseriti i canali satellitari dalla fine degli anni ’90 e poi la rete, con i blog e i social network. Emittenti come Al Jazeera e Al Arabya, dal Qatar e dagli Emirati, sono partite alla conquista di un pubblico giovane e sempre più attento alle questioni internazionali e dei propri paesi, le stesse che i governi sistematicamente hanno censurato.
Al Jazeera in particolare ha sempre avuto un rapporto conflittuale con il governo Mubarak per la precisa scelta di dare spazio e visibilità ai movimenti di opposizione. Nella copertura delle manifestazioni, ben prima del 25 gennaio 2011, ha scelto una strategia multipiattaforma: ha messo in connessione il suo network con Internet, e ha permesso l’integrazione delle proprie corrispondenze con i racconti via blog, Twitter, Facebook e You Tube. Il controllo dei regimi sui media “tradizionali” intanto ha continuato a crescere e non è un caso che dopo il gesto di Mohamed Bouazizi, il giovane tunisino morto per essersi dato fuoco il 10 dicembre scorso accendendo le proteste, la tv di stato TV7 abbia mandato in onda cartoni animati o in alternativa le interviste di cittadini che si dichiaravano contrari alle manifestazioni.
Nella classifica sulla libertà di stampa di Reporters sans Frontières dello scorso anno, la Tunisia è scesa di dieci punti al 164° posto, e secondo il Comitato per la tutela dei giornalisti di New York, fra i “dieci strumenti d’oppressione on line”, due in particolare hanno caratterizzato Tunisia ed Egitto sul fronte dell’indipendenza consentita nell’uso della rete: la creazione di false pagine Google, Yahoo e Facebook da parte dello stato per carpire i dati di accesso degli utenti, e lo spegnimento arbitrario delle connessioni. Il governo di Ben Ali, che in questi anni ha avuto il monopolio sulle due stazioni televisive (TV7 e Canale 21), su sette radio e sulla maggioranza di quotidiani e periodici di lingua araba e francese, come Assabah e Al-Chourouk, non ha mai smesso di fare pressioni sui media che cercavano di restare indipendenti.
È il caso di Radio Kalima e dei suoi giornalisti Fatem Hamdi, aggredita da due poliziotti in borghese lo scorso anno dopo un reportage sull’aumento dei prezzi, e Nizar Ben Hassine, accusato di disturbo dell’ordine pubblico e insulti all’autorità, dopo che aveva raccontato di espropriazioni illegali di terre a vantaggio della famiglia del presidente. Dopo la cacciata di Ben Ali, la stessa Tv7 ha cominciato a trasmettere le immagini delle proteste e nel frattempo ha cambiato nome (ora si chiama Tv Nazionale) e simbolo (da viola a bianco e rosso, come la bandiera). Ma per i tunisini la tv è stata anche quella italiana dei canali che si ricevono sull’altra sponda del Mediterraneo. Racconta Nabila Zayati, consulente di ANSAmed, che alcuni giovani appena sbarcati a Lampedusa da lei intervistati, alla vista della telecamera gridavano “Italia1”, come i ragazzi italiani negli spot dell’emittente Mediaset: la “loro Italia era quella della tv, anche Rai, dei quiz, dei varietà e dei reality.
In Egitto prima dell’11 febbraio, giorno dell’addio di Mubarak, la Middle East News Agency, l’agenzia di stampa statale, aveva l’ordine tassativo di non parlare di Fratelli Musulmani o di Mohamed El Baradei come oppositore politico del regime. Abdelhalim Kandil, giornalista da sempre critico nei confronti del governo Mubarak e coordinatore del movimento per la democrazia in Egitto nato nel 2006, Kefaya, sostiene che uno dei problemi endemici per l’informazione libera è sempre stato quello della mancanza di case editrici private, motivo per cui qualunque periodico doveva passare dalle tipografie dello stato. L’Egitto ha mantenuto pubblicazioni d’opposizione, ma sempre con grandi difficoltà a causa della censura, adottata soprattutto in caso di contenuti critici riguardanti il presidente e i suoi familiari. Al-Masri Al-Youm e Al- Dustour, i due principali quotidiani indipendenti, che pure avevano dato spazio al movimento del 6 aprile 2008 a sostegno degli operai, per le pressioni ricevute non hanno poi parlato altrettanto diffusamente dell’iniziativa organizzata un anno dopo.
In Libia fino ad oggi i media sono stati praticamente tutti in mano allo stato. Fra il 2007 e il 2008 ne era stata autorizzata la proprietà privata, e questo provvedimento è servito ad inserire nel panorama Al-Ghad, la società di uno dei figli di Gheddafi, Seif Al Islam, poi nazionalizzata l’anno scorso. Chi ha provato a denunciare la politica del regime ha pagato in alcuni casi anche con la vita. Un nome per tutti, Mohamad Nabus, che aveva creato Lybia Al-Hurra, una web tv, e che è morto il 19 marzo scorso ucciso da un cecchino. Anche in Libia la rete ha fornito connessioni fondamentali, le tradizionali forme di organizzazione e diffusione dei messaggi, ciclostile compreso, hanno fatto il resto.
Il rischio è che ora si passi da un controllo totale delle informazioni ad un flusso indiscriminato e non sempre verificabile. E se la situazione libica è un caso a sé, dato il seguito delle manifestazioni di piazza e l’intervento internazionale in corso, in Egitto e Tunisia le porte della libertà di stampa potrebbero non essersi spalancate del tutto. In Egitto l’esercito ha smantellato il Ministero dell’Informazione ma ha nominato un supervisore della radio e della tv. Emblematico il caso di Maikel Nabil, un blogger condannato a tre anni di prigione dal tribunale militare per aver insultato l’establishment e diffuso col suo blog informazioni false. Il giovane aveva scritto che la posizione di neutralità mostrata dall’esercito era solo di facciata, perché in realtà le Forze Armate avrebbero sostenuto la polizia segreta e praticato la tortura su alcuni manifestanti arrestati nei giorni della protesta, anche dopo la caduta di Mubarak.