Tunisia, dopo la tempesta
Antonella Vicini 27 giugno 2011

14 gennaio 2011. Sono trascorsi cinque mesi dalla rivoluzione del gelsomino, la “jasmine revolution”, come rimbalzava allora sui social network o come è stato stampato dopo addirittura su alcune magliette. Di quella rivoluzione, che con un effetto domino dirompente e inaspettato ha aperto una breccia in molti dei regimi stantii in Nord Africa e in Medio Oriente, restano ora, oltre alle scritte sui muri semicancellate e ai gelsomini, che gli ambulanti tunisini offrono abbondantemente ai turisti per pochi dinari, anche molte problematiche irrisolte. E una data: 23 ottobre 2011, il giorno in cui dopo ventitré anni di dittatura la popolazione verrà chiamata alle urne per votare l’Assemblea Costituente. Un evento epocale che però non sgombra il campo dalla sensazione di precarietà ed incertezza che si respira in questo periodo nel Paese. Anzi, forse, la amplifica. Perché la Tunisia che è scesa nelle strade, quella stessa che è riuscita nell’impresa di cacciare via il presidente-dittatore Zine El Abidine Ben Ali e che è stata immortalata mentre baciava e abbracciava i militari che si sono rifiutati di puntare le armi sulla folla, adesso è una Tunisia in fermento e in attesa.

“Stiamo tutti aspettando di vedere cosa accadrà”. Lo dice Ridha, che italianizza il suo nome in Federico e che l’italiano lo parla, come pure lo spagnolo, l’inglese, il francese e ovviamente l’arabo. Lui è un pilota e la rivoluzione l’ha vista dagli schermi tv di un aeroporto internazionale, durante uno degli scali che effettuava il suo volo. “E ho pianto. Quando ho visto tutti i miei connazionali scendere in piazza, ho pianto”. Ma ora c’è da capire quale sarà il futuro di un Paese che solo nel mese di giugno, secondo i dati diffusi dal Ministero del Turismo tunisino, ha subito un calo delle prenotazioni pari al 50%. Una crisi a cui si aggiunge l’esodo sostanzioso di libici che fuggono dalla guerra. Libici di due tipi, quelli che la Tunisia l’hanno sempre frequentata come un cortile di casa accogliente e i profughi. I primi li riconosci dalle targhe dei loro potenti suv, parcheggiati fuori dagli alberghi turistici di alto livello; gli altri sono in parte nel sud, nei campi di Dehiba, Remada, Tataouine e in parte in strutture alberghiere o nelle case messe a disposizione dai tunisini. La cifra totale si attesta sui 130mila. Un problema non da poco, che rischia di far tracollare una nazione scesa in piazza proprio perché stremata dai problemi economici.

“Ma sono nostri fratelli”, dice Ali, un venditore nella medina di Tunisi, che nel suo negozio ha la tv sintonizzata su al Arabiya. “Gheddafi è un problema anche per noi e quando non ci sarà più le cose andranno meglio”, spiega ancora. Le conseguenze di questa situazione le stiamo vedendo anche sulle nostre coste, pure se a parlare con i tunisini che incontri ovunque, da Djerba a Gabes a Matamata, a Keirouan, il flusso di migrazione verso l’Italia è “sbagliato”, per un semplice fatto: “anche da voi c’è crisi”. Eppure il problema esiste. Le imbarcazioni per il pattugliamento e le apparecchiature elettroniche per il controllo notturno della navigazione che il governo italiano ha fornito a quello tunisino per bloccare l’esodo sembrano essere solo un palliativo, non la cura della causa.

“Noi siamo un Paese che vive di turismo e avremmo bisogno che l’Italia ci aiutasse a rimanere in piedi”. A parlare è Adnan Farfar a capo di un grosso tour operator di Tunisi che fino allo scorso anno lavorava moltissimo con il nostro Paese. Il problema quindi è a monte. “Se non risolveremo le questioni economiche sono convinto che ci sarà una seconda ondata di sbarchi”. “I prezzi quest’anno sono stracciati, perché non abbiamo richieste”, ribadisce Zamouri Bechir, general manager di un’importante agenzia di Djerba. La crisi è tangibile non solo nelle strade deserte e nei locali vuoti, ma anche nelle manifestazioni di protesta che s’incontrano lungo il viaggio da sud a nord: un gruppetto di agricoltori seduto in mezzo alla statale che collega Djerba a Gabes; un sit-in che va avanti da giorni davanti all’ente turistico di Sousse, un altro piccolo presidio che blocca la metropolitana leggera nella capitale. L’impressione è che sia una conseguenza naturale di questa ubriacatura di libertà di espressione. Anche se il sindacato qui è sempre stato molto forte, infatti, fino a pochi mesi fa era impensabile per i tunisini discutere di politica nei luoghi pubblici. Ora lo fanno ovunque: al bar, sul pullman, nei circoli, per strada. Del resto, in questi mesi ci si sta giocando il futuro.

C’è chi, però, pensa che quella di gennaio sia stata solo una vittoria momentanea. Abdallah e i suoi che occupano da giorni l’ente turistico di Sousse, perché hanno perso il lavoro, vogliono infatti “una seconda rivoluzione”. “Il governo (transitorio, ndr) non sta rispondendo alle nostre richieste. Sappiamo che i soldi ci sono, quindi resteremo qui finché non otterremo delle risposte”. Le questioni sono quelle di sempre e loro sembrano molto arrabbiati e con poche aspettative anche per quel che riguarda il voto di ottobre. “Il fatto è – prosegue Abdallah – che la maggior parte delle persone qui non ha una coscienza politica. I tunisini non sono solo i giovani scesi in piazza quest’inverno e quindi siamo un preoccupati per come voteranno”.

Dopo ventitré anni di regime, in effetti, i partiti politici tunisini non brillano per organizzazione e, stando a un sondaggio dei mesi scorsi, il 61% del campione preso in esame ignorerebbe cosa sia un partito politico. Alle prossime elezioni, però, ce ne saranno più di ottanta. Una chiara risposta ai veti del passato, quando la politica veniva portata avanti solo dall’UGTT, l’Union Générale Tunisienne du Travail, visto che i partiti politici erano fuori legge. Ma questa libertà porta con sé una inevitabile dose di confusione. “In questo momento i vari gruppi sono alle prese con scontri interni legati alla propria organizzazione. C’è un po’ di caos, ma questo è il gioco della democrazia”, conferma Ridha Mejri, membro del Pdp, il Partito democratico progressista.

Il dialogo, la discussione, lo scontro non sembrano spaventare Ridha, anche se dall’altra parte c’è un partito d’impronta religiosa come Ennahda che, stando ai sondaggi, è quello che attualmente ha maggior seguito. “Forse ci aspetta un governo di unità nazionale”, dice. Quel che pare certo, prosegue, è che “saranno tanti a esercitare per la prima volta questo diritto”, tanto che pare che siano state organizzate delle vere e proprie task force di volontari che stanno portando avanti una campagna di “alfabetizzazione” al voto, attraverso incontri nei circoli, nei luoghi di lavoro, al café.

“Sette milioni di elettori per la registrazione, problemi di organizzazione e la formazione degli agenti elettorali”; sono queste le principali ragioni che per stessa ammissione del presidente della Commissione incaricata delle riforme politiche, Yadh Ben Achour, hanno portato allo slittamento delle consultazioni. E in mezzo, poi, c’è anche un mese di Ramadan. “Meglio votare dopo, così non si rischia di scegliere sulla base di un’emotività religiosa”, sottolinea ancora Ridha Mejri.