Come persona impegnata a promuovere la soluzione dello Stato unico negli Stati Uniti, puoi indicarci le motivazioni e gli argomenti che ti hanno spinto ad abbracciare questa idea?
Il primo argomento è di carattere normativo, e riguarda i valori in cui gli occidentali affermano di credere. Non credo nelle entità politiche basate sulla razza; se qualcuno domani mi imponesse di riconoscere l’America come una nazione bianca o cristiana in cui tutti gli altri vengono messi in secondo piano mi riterrei estremamente offeso. Il liberalismo nel modo in cui lo concepiamo oggi ha a che fare soprattutto con l’eguaglianza, un fatto che viene ampiamente accettato negli Stati Uniti così come in gran parte dei luoghi che ho visitato in Europa. In Israele, tuttavia, questo liberalismo viene vissuto in maniera diversa; gli israeliani ritengono che il popolo ebraico debba godere di diritti specifici in quanto tale. Come se non bastasse, si tratta di un’argomentazione nata in un contesto coloniale; i Palestinesi sono stati scacciati dal territorio nel 1948 e nel 1967 attraverso un processo che va avanti ancora oggi in posti come Gerusalemme, alcune aree della Cisgiordania e nel deserto del Negev, al fine di preservare quella che viene definita la “maggioranza ebraica”. Oggi è un fatto che l’America sia in proporzione più cristiana di quanto Israele sia ebraico. In Israele una persona su cinque non è ebrea. Il 20 percento degli israeliani è infatti palestinese e il restante 5 percento è composto da lavoratori migranti. Ne consegue che se una persona su cinque non appartiene a quella religione, Israele non può definirsi uno Stato ebraico ma al massimo come uno Stato a maggioranza ebraica.
Mi trovo costretto a ripudiare uno Stato dove gli ebrei vengono privilegiati poiché credo fermamente nell’eguaglianza degli individui. L’America, che pure è più cristiana di quanto Israele sia ebraico, non viene definita una nazione cristiana. Il New York Times ha di recente pubblicato un sondaggio che dimostra che per la prima volta nella storia del paese i cristiani protestanti non costituiscono più la maggioranza ma formano solo il 48 percento, rivelando la natura pluralistica del paese. Gli Stati Uniti sono una società dinamica; esistono modelli simili nelle democrazie liberali dell’Europa occidentale dove nazionalità, statualità e società non sono definite sulla base di concetti inamovibili come “razza” o “popolo”. Molti israeliani continuano a credere nel contrario, ma io non posso farlo. Il che rende la mia un’argomentazione basata sui valori.
Per quanto riguarda gli aspetti pratici, bisogna capire che oggi uno Stato unico già esiste. Il problema è che è uno stato di apartheid. Sono nato nella Striscia di Gaza, ho una carta di identità palestinese e per questo non posso entrare in Cisgiordania, in Israele o tantomeno andare a Gerusalemme. Gli israeliani ci categorizzano in maniera diversa; se mi sposassi con un’israeliana palestinese, una donna israeliana o una palestinese della Cisgiordania sarebbero loro a stabilire dove posso vivere o sposarmi. Sono loro a prendere decisioni in materia di ricongiungimento familiare, transazioni commerciali e razionamento dell’acqua nei territori palestinesi; loro a decidere cosa fare dell’elettricità o come gestire la tassazione.
È importante far sapere che lo Stato unico esiste e che è uno stato basato sull’ineguaglianza. Non si tratta di una situazione in cui ci sono due società separate l’una dall’altra; basti ricordare che un abitante di Israele su quattro è di origini palestinesi, che uno su cinque non è ebraico e che nella Cisgiordania una persona su sei è un colono ebraico (una cifra destinata a crescere). Le acque si sono mischiate, abbiamo già uno Stato unico e tutte le persone di fede liberale e democratica riconoscerebbero gli abitanti di questo Stato come eguali. Adesso si tratta di convincere la società israeliana conformarsi agli standard di civiltà. Bisogna tenere conto inoltre che sotto la Cisgiordania giace una falda acquifera di enorme importanza strategica a cui Israele non rinuncerà mai, e il fatto che Gerusalemme Est sia stata isolata dalla periferia della Cisgiordania da una serie di insediamenti rende la soluzione dei due Stati alquanto fittizia, oltre che indesiderabile dal punto di vista dei valori che condividiamo in occidente.
Con questo intende dire che uno Stato palestinese non è sostenibile?
Proprio così, innanzitutto perché non c’è modo di evacuare 600,000 coloni dalla Cisgiordania. Poi c’è la questione della continuità territoriale: se diamo un’occhiata alla mappa ci rendiamo conto che il modello a groviera, vale a dire la cantonizzazione, sarebbe davvero complicato da applicare a un eventuale Stato palestinese. Stiamo parlando di dozzine di pezzi di territorio che non sono contigui e non hanno alcuna forma di sovranità, il che rende tutto abbastanza fatuo. Chi stiamo cercando di proteggere? La razza di un popolo che in qualche modo si crede superiore? Questo giustifica tutte le misure intraprese per difendere la sua maggioranza? Non mi pare un criterio legittimo.
Stando ai ultimi sondaggi però, l’idea di uno Stato unico non sembra godere di molta popolarità all’interno della comunità palestinese. Mi riferisco a un sondaggio condotto dal Palestinian Center for Policy and Survey Research (PSR) che colloca il sostegno popolare a questa formula attorno al 25-30 percento.
Sì, ma il dato va contestualizzato. Apparentemente questa idea incontra il favore solo di un palestinese su tre, ma va tenuto conto che questa idea non è mai stata avanzata da alcuna forza politica mentre la soluzione dei due Stati – in teoria più popolare – è stata promossa con forza per circa vent’anni.
Poi c’è un secondo punto che va sottolineato. Da attivista il tuo compito non è seguire l’opinione pubblica ma esercitare un impatto su di essa. O ti impegni a favore dell’uguaglianza lottando contro l’apartheid in Sudafrica oppure ti limiti a citare sondaggi secondo i quali gli Afrikaner accettano lo status quo; puoi lavorare affinché gli stati americani del sud abbandonino lo schiavismo oppure dire che tanto i neri non accetteranno mai di vivere nella stessa società dei loro vecchi padroni. È evidente che un militante non deve traghettare l’opinione della massa ma lavorarci su e offrire argomenti che possano avere una ricaduta sulle cose. Rovesciando il sondaggio, è positivo che un palestinese su tre sia a favore dello Stato unico quando nessun attore politico si è preoccupato di promuovere questa idea.
E quale sarebbe una possibile strategia per far avanzare l’idea dello Stato unico? Si inizia con lo smantellamento dell’autorità nazionale Palestinese e il dichiarare nulli gli Accordi di Oslo?
Niente mi renderebbe più felice. Mahmud Abbas e Salam Fayyad non sono utili alla causa del popolo palestinese e l’occupazione israeliana fa affidamento su di loro per mantenere lo Stato di apartheid. I due dipendono dalla carità offerta dagli europei e dagli americani e l’intera autorità nazionale Palestinese può essere considerata una struttura artificiale, anti-democratica e repressiva che richiede un dispiegamento notevole di risorse per stare in piedi. È per questa ragione che sono a favore del suo smantellamento. Vorrei inoltre che gli israeliani si assumessero tutta la responsabilità dell’attuale Stato di apartheid che esiste oggi in Cisgiordania; se gestissero l’intera occupazione le cose risulterebbero molto più chiare a tutti.
Ma così non si corre il rischio di ulteriori attacchi e di violenza? Se l’Anp dovesse venir meno Israele sarebbe costretto a mandare l’esercito in Cisgiordania creando più sofferenza per tutti.
No, la violenza e la sofferenza dipendono in primo luogo dall’apartheid, è questa la causa del problema. Se vuoi che gli africani a Soweto smettano di ribellarsi devi riconoscere i loro diritti. Sei tu il problema, un governo basato sulla diseguaglianza, questo è il problema.
Quindi all’interno di questa cornice l’assistenza economica europea all’Anp sarebbe un ostacolo per lo sviluppo di nuove strategie per i palestinesi?
Si, un grosso ostacolo. Gli europei devono decidere come investire le loro risorse: vogliono davvero sostenere, alimentare e difendere un disastro umanitario e un sistema moralmente corrotto solo per fare un favore a Israele?
Cosa mi dice di Gaza? Come rientrerebbe Gaza in un ipotetico Stato unico? Chiedo questo perché non credo che Hamas sia molto favorevole all’idea di uno Stato bi-nazionale.
Gaza fa parte della Palestina. Da persona nata a Gaza, resto sempre perplesso quando un interlocutore me ne parla come se fosse un’entità a parte. Gli abitanti di Gaza sono palestinesi come tutti gli altri e provengono in maggior parte da quei territori che oggi fanno parte di Israele. I nostri diritti sono tutelati dal diritto internazionale. Facciamo e faremo sempre parte della Palestina, alla fine i calcoli che fece Ariel Sharon nel 2005 quando decise di evacuare gli insediamenti israeliani da Gaza gli si sono ritorti contro. I cittadini di Gaza hanno fatto capire chiaramente che non fanno parte dell’Egitto, che non sono un’entità separata e che sono, e rimarranno sempre, una parte centrale del popolo palestinese.
A fini puramente speculativi, è ovvio che se anche l’Anp venisse smantellata lo stesso non accadrà a Gaza con Hamas. A quel punto ci sarebbero comunque due entità di «governo» a Gaza e in Cisgiordania.
Capisco il punto. Ma il problema dell’Anp non è che si pone come tentativo di governo autonomo Palestinese in un contesto locale; il vero problema è che è stata creata per gestire l’occupazione con una decisione presa dall’alto. Per questo motivo in Cisgiordania si stanno diffondendo sempre più comitati popolari. La storia tra il 1967 e gli Accordi di Oslo del 1993 insegna che ogni qual volta i palestinesi hanno cercato di governarsi da soli a livello municipale, gli israeliani hanno deportato i leader politici più competenti spedendoli in Libano e in Giordania. Lo scopo era inibire la crescita di una politica interna valida e di una resistenza non-violenta.
Oggi, sul fronte dei comitati popolari o della rete amministrativa municipale c’è una leadership palestinese organica ed efficace; quando parlo di dissoluzione dell’Autorità nazionale palestinese mi riferisco alle persone che sono state formate e incaricate dagli americani di provvedere alla pacificazione della popolazione palestinese. Quindi mi riferisco alle forze di sicurezza e al vanaglorioso servizio civile che sono di fatto inconcludenti e vogliono solo mantenere la situazione attuale. Se vai a guardare la proporzione di poliziotti palestinesi armati in Cisgiordania rispetto alla popolazione ti renderai conto che si tratta di una delle percentuali più alte al mondo. Non c’è alcuna ragione perché questa cosa sussista, se non quella di mantenere la struttura di apartheid. Non sono contrario al governo autonomo palestinese, ma mi oppongo alla strategia di pacificazione per il proseguimento dell’occupazione.
Ma il servizio civile e le forze di polizia non determinano anche un’alta percentuale dell’occupazione in Cisgiordania? Circa il 60 percento dell’occupazione è collegata all’Anp. Se questa dovesse venire meno non si rischia la disoccupazione di massa, dando luogo a ulteriore sofferenze per i palestinesi?
Sì, il servizio civile determina un alto livello di occupazione ma qui dobbiamo distinguere tra governo dell’Anp, società civile e servizi. La società civile palestinese è una delle più robuste nel mondo arabo; le Ong e i movimenti culturali palestinesi sono cresciuti in maniera organica finché non è arrivato l’Anp che gli ha indeboliti e cooptati. Quindi ci sono alcune componenti del servizio civile, penso per esempio all’insegnamento, che sono assolutamente indispensabili ma non direi che i palestinesi sono in una fase della loro storia in cui hanno bisogno di servizi di intelligence. Per quanto riguarda le vessazioni economiche basta prendere l’esempio di Gaza che è entrata sotto il controllo di Hamas in seguito alle elezioni democratiche tenutesi nel 2006. Gli europei hanno deciso di mettere da parte l’umanitarismo e si sono alleati con gli Stati Uniti per imporre un embargo a Gaza e la società si è adattata di conseguenza. Ora, non è mia intenzione sottovalutare la sofferenza degli abitanti di Gaza che sicuramente è conseguita a questa decisione e alla svolta politica intrapresa nella Striscia. Voglio solo fare una distinzione tra aiuti umanitari e l’illusione di aiutare un’economia a crescere; non c’è alcuna chance di sviluppo in uno spazio economico vincolato.
Al momento sto lavorando sul concetto di federalismo per uno Stato unico in Palestina-Israele. È questo il punto cruciale della discussione e richiede persone armate di buona volontà ed esperienza che siano disposte a lavorare affinché possa diventare reale. Un modello federale rappresenta il migliore degli scenari possibili a mio avviso; After Zionism è stato scritto proprio per far scaturire una discussione. Siamo ancora nelle fasi preliminari del progetto, ma parlarne è un esercizio quantomeno necessario. Il supporto sta crescendo man mano; in Israele si sta affermando una nuova formazione di sinistra favorevole allo Stato unico oltre a un pragmatismo, una volontà di riconoscere alternative allo Stato di apartheid e alla soluzione dei due Stati. È in base a tali presupposti che abbiamo organizzato la One State Conference a Harvard; volevamo contribuire alla legittimazione di un concetto. Dopo la conferenza sono usciti diversi articoli di riflessione che riconoscono la maturazione di un’idea arrivata al punto tale che se ne può parlare senza commenti di scherno o derisione. Quella dello Stato unico è un’idea seria in tutto e per tutto. Sono abbastanza soddisfatto degli esiti dell’iniziativa e dell’attenzione ricevuta dai media.
Adesso sto lavorando su un libro incentrato su una proposta concreta di stato unico insieme ad alcuni colleghi israeliani e palestinesi. L’obiettivo è prendere il modello americano o indiano e iniziare a concepire quattro stati federali costituiti dalla Cisgiordania, la Striscia di Gaza, il distretto di Tel Aviv a nord e il centro d’Israele, Negev incluso, con Gerusalemme a servire da capitale indipendente un po’ come Washington DC. In tal modo si otterrebbe la capacità di delegare alcune competenze specifiche ai vari stati: gli stati a maggioranza palestinese potrebbero approvare leggi comunitarie di loro interesse mentre quelli a maggioranza ebraica possono continuare a tutelare il loro credo identitario e comunitario. È importante riconoscere ai cittadini il diritto di esprimersi come comunità tutelando al tempo stesso diritti individuali uguali per tutti. Se gli stati vengono stabiliti in base a un criterio territoriale nel corso del tempo le persone si sposteranno avanti e indietro; alla fine della Guerra Civile americana nel 1865 era impensabile che un abitante del sud Carolina si trasferisse nello stato di New York ma oggi nessuno ci fa assolutamente caso, puoi vivere dove di pare. Ci sono leggi diverse su determinati argomenti tra i vari stati, ma di fatto un sistema federale permette alle persone di esprimersi come comunità e nel lungo periodo favorisce una deriva comunitaria che facilità l’integrazione. È questa la mia, la nostra, visione di uno Stato unico.
Ahmed Moor è stato intervistato da Andrea Dessì
Traduzione di Claudia Durastanti