I modelli di oggi? L’Onda verde iraniana e l’Akp turco
Amara Lakhous 4 February 2011

Poco prima della clamorosa fuga dell’ex Presidente tunisino Ben Ali, un giornalista arabo ha chiesto al ministro degli Esteri egiziano Ahmed Abu El-Gheit se ci sarebbe stato un effetto domino sul suo paese. La risposta è stata sprezzante e laconica: «Non diciamo sciocchezze!». Invece la domanda era pertinente eccome! L’effetto domino del caso Tunisia, desiderato dai popoli arabi e temuto dai loro governi, è ormai un dato di fatto innegabile. Le stesse cause portano alle stesse conseguenze. La Tunisia non è diversa dall’Egitto, dallo Yemen, dalla Giordania, dalla Libia, dall’Algeria o altri ancora. Questi paesi condividono in varia misura gli stessi fenomeni di disagio sociale, di corruzione delle classi dirigenti, di mancanza di partecipazione democratica alla vita politica dal basso, di emarginazione dei giovani. I regimi arabi tremano e corrono ai ripari. Il presidente egiziano Hosni Mubarak, come il suo collega yemenita Ali Abdullah Salah, ha dichiarato che non si candiderà alle prossime elezioni presidenziali e non passerà il potere al figlio.

Il Presidente algerino Abdelaziz Bouteflika ha chiesto al governo di preparare un piano per revocare lo Stato di emergenza che dura da 19 anni. Lo scenario tunisino rimane aperto a diversi sviluppi. Non è sbagliato sostenere che la Tunisia sta diventando un modello, un prototipo di cambiamento sociale dall’interno, dopo il fallimento del cambiamento imposto dall’esterno, secondo la tesi secondo la quale bisogna esportare la democrazia anche con i carri armati. Il risultato è catastrofico, basta guardare alla tragedia senza fine dell’Iraq. I veri protagonisti di questa rivoluzione araba sono i giovani che sono riusciti a sconfiggere i sistemi di censura grazie all’uso delle nuove tecnologie come internet. Anche i maggiori media di lingua araba come Al Jazeera e Al Arabiya continuano a svolgere un ruolo determinante. Di fronte alle proteste dei giovani egiziani che occupano le piazze dal 25 gennaio scorso, il presidente egiziano Hosni Mubarak ha deciso (finalmente) di nominare il capo dei servizi segreti, il generale Omar Suleiman, come vicepresidente e il generale Ahmed Shafik a capo dell’esecutivo. Le tv arabe hanno trasmesso continuamente le immagini di Mubarak nella sede dello stato maggiore dell’esercito, circondato dal ministro della difesa e il capo Maggiore, mentre seguiva le ‘operazioni’ di repressione contro i manifestanti. Non ci sono dubbi: Mubarak ha dichiarato guerra al suo popolo. Purtroppo non è l’unico nel mondo arabo.

È finita una fase e ne sta iniziando un’altra. Ormai la giustificazione della guerra al terrorismo e al fondamentalismo, usata dai regimi arabi, non funziona più. È davvero sconcertante la posizione delle capitali occidentali. In un’intervista al Corriere della Sera, il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini ha dichiarato: “Credo si debbano sostenere con forza i governi di quei Paesi, dal Marocco all`Egitto, nei quali ci sono re o capi di Stato che hanno costruito regimi laici tenendo alla larga il fondamentalismo. La priorità numero uno è la prevenzione del fondamentalismo e degli embrioni di terrorismo”. Invece di sostenere la democratizzazione dei paesi arabi, Frattini fa l’elogio di un dittatore al potere dal 1969: “Faccio l`esempio di Gheddafi. Ha realizzato una riforma che chiama ‘dei Congressi provinciali del popolo’: distretto per distretto si riuniscono assemblee di tribù e potentati locali, discutono e avanzano richieste al governo e al leader. Cercando una via tra un sistema parlamentare, che non è quello che abbiamo in testa noi, e uno in cui lo sfogatoio della base popolare non esisteva, come in Tunisia. Ogni settimana Gheddafi va lì e ascolta. Per me sono segnali positivi”. Abbiamo una grande novità: il colonnello libico ha inventato una democrazia nuova, in salsa tribale! Gli interrogativi invece sono tanti: La democrazia è universale o no? È un diritto umano come la libertà e la dignità o un privilegio per pochi? È necessario ricordare che il parlamento in Egitto è stato fondato nel 1867, prima dell’Unità dell’Italia? Cosa significa la stabilità? La stabilità dei regimi o quella dei popoli?

Da oppositore politico laico e sostenitore della democrazia nel suo paese (la Tunisia) e nel mondo arabo, Moncef Marzouki, in un’intervista a La Stampa mette in guardia l’opinione pubblica occidentale, svelando in modo chiaro il trucco dei dittatori arabi nell’uso strumentale dei fondamentalisti: “L`ottica di una politica miope e la paura dell`islamismo hanno fatto credere che fossero necessari regimi forti. L`islamismo che Ben Ali si vanta di aver distrutto è quello di un partito moderato, di destra, un po` come la democrazia cristiana in Italia. Era l`opposto dei talebani e Ben Ali ha sempre cercato di fare l`amalgama, dicendo che tutti gli islamici sono talebani, quando è una realtà molto larga in cui ci sono anche partiti moderati come quelli in Marocco o in Giordania”. Ancora: “Non c`è alcun pericolo islamista qui, questo è un Paese laico, un po` come la Turchia, con una tradizione modernista, il movimento femminile è forte, c`è una forte borghesia. Gli islamici, in caso di vere elezioni arriverebbero al massimo al 20-30 per cento. In queste settimane non si è sentita una sola parola d`ordine islamista. Italiani, francesi e spagnoli appoggiano Ben Ali perché credono sia una trincea contro i fanatici e possa servire da polizia di frontiera. Attenti! Regimi come quello tunisino e algerino moltiplicheranno invece gli emigranti della miseria e creeranno i jihadisti. State agendo contro i vostri valori e contro i vostri interessi”.

Penso che il modello di riferimento nelle società arabe di oggi non sia l’Iran di Khomeini, ma l’Iran dei giovani dell’Onda verde di due anni fa. E credo che le elite, soprattutto gli islamisti, guardino con interesse e ammirazione alla Turchia di Erdogan. Riconciliare democrazia e islam, tradizione e modernità, passato e futuro, queste sono le grandi sfide del presente.

www.amaralakhous.com

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