«Così diamo una speranza alle donne del Bangladesh»
Kamal Ahmad intervistato da Valeria Fraschetti 12 January 2010

Come suggerisce lo stesso nome, la Asian Univeristy for Women è un’istituzione pan-asiatica e tutta femminile. Cominciamo dalla prima particolarità: da dove nasce l’esigenza di riunire studenti da tutta l’Asia?

Se guardiamo alla storia di questa regione, uno dei problemi importanti è quello degli scontri e delle violenze etnico-religiose. In più, nel processo di globalizzazione, se da una parte c’è una tendenza al collasso delle sovranità, dall’altra c’è un’affermazione delle identità etniche, linguistiche e religiose e molte violenze sono inserite nel processo di asserzione di tali identità. Il nostro progetto cerca di rispondere a questa situazione, attraverso il riconoscimento che alla fine dei conti la nostra comunità è più ampia delle idee settarie che abbiamo in testa. Il risultato è che nell’università ci sono donne da tredici diversi Paesi asiatici. L’idea è che solo vivendo con qualcuno che hai sempre visto come diverso riesci a riconoscere che quello che pensavi vi separasse in realtà non esiste. Stiamo quindi cercando di creare un nuovo senso di tolleranza e di comunità.

Perché la necessità di focalizzarsi solo sulle donne?

Nonostante i progressi fatti, la devalorizzazione della donna resta ancora un grande problema. Per questo volevamo creare un’istituzione che coltivasse attivamente il potenziale di leadership delle donne e l’idea che esse possono diventare ciò che vogliono. Per una ragazza afgana, pachistana o bengalese la vera barriera è a livello di aspirazioni: non riesce a sognare di diventare qualcuno di diverso da ciò che è stato sua madre. C’è bisogno di istituzioni centrate sulle donne e la nostra scelta è stata di rivolgerci a famiglie che non hanno mai mandato le loro figlie all’università. Purtroppo, spesso l’istruzione femminile è spiegata esclusivamente come qualcosa che la donna deve fare perché beneficia altri, per esempio i suoi figli. Ma molto raramente parliamo di istruzione delle donne in termini di diritto umano.

Un’università per sole donne nel ventunesimo secolo può sembrare un passo indietro nella storia dell’emancipazione, non crede?

Non è un ritorno al Medioevo, piuttosto un riconoscimento di quanto poco siamo cambiati da allora. Magari è un fatto triste, ma resta pur sempre un fatto che le donne sono ancora soggette alla violenza. Come suggerisce uno studio di Amartya Sen, per esempio, nella sola India 37 milioni di ragazze mancano all’appello a causa di infanticidi o mortalità infantile. Quindi affermare per principio che la modernità richiede istituzioni miste significa negare la realtà dei fatti. Se la nostra istituzione non fosse stata solo femminile, le otto studentesse dell’Afghanistan che abbiamo non sarebbero mai potute venire. E ciò non riguarda solo le ragazze islamiche. Avere una figlia in un campus residenziale misto è inimmaginabile anche per una famiglia conservatrice del Nepal o dell’India.

In alcuni Paesi islamici dell’Asia l’istruzione femminile viene trascurata, quando non condannata da vari elementi della società. Quanto supporto ha trovato il progetto della Asian University for Women in questi Paesi?

Psicologicamente, recarsi altrove per studiare è un lungo viaggio per una ragazza che viene da un Paese conservatore. Eppure in Afghanistan, per esempio, abbiamo condotto una campagna senza incontrare alcuna resistenza, il governo e le Ong ci hanno aiutato. Soprattutto, le studentesse e le loro famiglie sono state ricettive e alla fine duecento ragazze afgane hanno fatto domanda per entrare.

Anche il Bangladesh è un paese musulmano, qual è la condizione dell’istruzione femminile?

Il governo si sta dedicando molto all’istruzione delle donne. Qualche anno fa ha adottato un programma per portare tutte le bambine a scuola elementare. Ne esiste uno anche per le allieve degli istituti superiori, per cui se hanno una frequenza del 70 per cento, le loro famiglie ricevono incentivi economici. Il risultato è che oggi nelle elementari le iscrizioni sono vicine al 100 per cento e il 45 per cento delle ragazze frequenta le scuole superiori. Negli ultimi vent’anni la mentalità della società ha subito un profondo cambiamento. Oggi probabilmente il Bangladesh è l’unico Paese musulmano al mondo ad avere così tante donne impiegate nel settore formale (ovvero contrattualizzato, nda). Ce ne sono tre milioni solo nel settore tessile. Per una combinazione di fattori, tra cui i programmi di microfinanza – che hanno organizzato 15 milioni di povere – oggi queste donne sono le prime nella storia della loro famiglia ad avere un salario e ciò contribuisce a dar loro un potere diverso.

Alcuni studiosi vedono nelle donne il principale motore per eliminare la povertà nei paesi in via di sviluppo. E’ un punto di vista che condivide?

Questo ragionamento non vale solo per i paesi in via di sviluppo, ma anche per quelli sviluppati. Pensiamo al Giappone: se non lascerà diventare le donne una parte attiva della sua forza lavoro, sarà costretto a far entrare una quantità enorme di immigrati. E’ un discorso che vale ovunque, perché se neghi a metà della tua popolazione l’opportunità di contribuire all’economia, ti privi di metà del talento disponibile e naturalmente l’economia ne sarà gravemente colpita.

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