Un rapporto che appare, se guardato attraverso la complessa lente della storia, molto diverso rispetto all’accoglienza cristiana verso poveri e diseredati; e più vicino invece al moltiplicarsi, in età moderna, «di processi di esclusione ed eliminazione di ciò che appariva inassimilabile: il ribelle politico, l’eretico pertinace, il musulmano, l’indio cannibale e immorale».
Immigrati, esuli, vagabondi e accattoni: le figure ai margini della società hanno sempre attirato l’attenzione di chi governa. Quali sono state in passato le principali figure “disturbanti”, e che tipo di minaccia rappresentavano? Chi erano, insomma, gli “immigrati”, i “clandestini” della modernità e quale il giudizio sociale verso di essi?
L’elenco non può che essere superficiale. Bisognerebbe seguire il filo delle parole: i greci si distinguevano dai barbari, i romani graduavano la distinzione tra cittadini e non, nel Medioevo si distingueva tra cristiani e infedeli, con la scoperta dell’America apparvero i pagani e i selvaggi. Le migrazioni erano stagionali – transumanze di greggi, discese dalle montagne d’inverno per lavorare qua e là e poi tornare a casa. Divennero definitive in momenti di grandi sconvolgimenti, come le invasioni barbariche e l’applicazione della regola del “cuius regio eius religio”. Le invasioni barbariche fecero saltare il modello di integrazione dell’impero romano che era stato straordinariamente efficace. Ne fondarono altri, a seconda dei rapporti di forza e di cultura con le precedenti popolazioni e con i poteri civili e religiosi esistenti: fusione o netta divisione e imposizione di nuovi poteri e nuove norme.
Nel quadro dell’Europa cristiana medievale i fenomeni di movimenti di individui e di gruppi sono numerosi: ricordiamo le immigrazioni medievali dalle campagne feudali nelle città, incoraggiate da una normativa che liberava dalla servitù (“l’aria della città rende liberi”). E ricordiamo d’altra parte le espulsioni dei nemici politici sconfitti come strumento della lotta delle “parti” di guelfi e ghibellini. Allora il pericolo veniva da dentro: da fuori veniva il commercio e la ricchezza nelle città medievali e per questo la città conosce in origine una struttura divisa per luoghi d’origine: c’è il fondaco dei tedeschi a Venezia, c’è il quartiere dei Lombardi a Bruges e a Parigi, ci sono i luoghi di devozione distinti per origini, come le confraternite dei vari gruppi di diversa provenienza (San Giovanni dei Fiorentini a Roma). I sistemi di accoglienza dei viandanti, dei pellegrini e in generale degli itineranti per affari e per devozione portarono all’erezione di ospedali lungo le vie di maggior comunicazione e stimolarono la nascita di ordini religiosi e confraternite specializzate nell’ospitare e curare. Il bacio di San Francesco al lebbroso è il segno della fraternità cristiana verso la figura estrema del male come pericolo e come maledizione.
Quando la città diviene invece simbolo di protezione, contro un esterno minaccioso?
Le carestie e le grandi epidemie del ‘300 segnano una svolta. Da fuori viene la morte. Perciò la città si organizza in funzione del controllo dei forestieri: quarantene nei porti, regolamenti di sanità, ispezioni delle merci danno vita ad un diverso rapporto con chi viene da fuori. Si ha la trasformazione del povero da figura di Cristo a minaccia per l’ordine e per le proprietà dei cittadini: le folle di mendicanti che lasciano le campagne dove si muore di fame per la carestia o per le guerre e cercano rifugio in città dove il sistema annonario garantisce la sopravvivenza. Queste folle fanno paura e nei loro confronti nasce il progetto di creare istituzioni dove rinchiuderli. Lo stesso progetto di chiusura investe la presenza degli ebrei, coi quali sono interdetti rigorosamente gli scambi matrimoniali e i rapporti di convivialità. Anche gli ebrei portano con sé l’attività finanziaria di cui si alimenta l’economia delle città. Ma i privilegi che sono loro concessi da principi e sovrani scatenano la propaganda dei predicatori francescani che fanno ricadere sulla loro presenza la colpa delle epidemie. Così si arriva alle espulsioni generalizzate dagli stati cristiani o, in alternativa, ai provvedimenti di isolamento della loro presenza nei ghetti, a partire da quello veneziano del 1425. L’arrivo degli zingari nelle città italiane data da questo periodo e comincia allora la lunga storia dei loro rapporti con le leggi e la mentalità degli abitanti stanziali. La soglia della differenza religiosa resta a lungo quella fondamentale: opera nei confronti di mussulmani, ebrei, eretici, produce la nascita della caccia alle streghe e agli eretici, porta dopo la Riforma protestante alla tendenziale chiusura delle frontiere verso i paesi di altra religione. I mercanti e i viaggiatori che tornavano da paesi non cattolici negli stati italiani dovevano passare attraverso un esame dell’Inquisizione.
Quando si passa dal criterio religioso a quello basato sull’appartenenza nazionale?
Possiamo fissare nella nuova realtà dello Stato territoriale moderno con il suo corpo di amministratori e di soldati la trasformazione dei confini naturali o culturali in frontiere statali. Da questo momento immigrazione ed emigrazione sono governate da leggi, l’emigrante e l’immigrato sono figure sociali individuate e controllate, così come si ispezionano le loro merci e si tende a fissare la popolazione nei luoghi dove abita e a incrementarne il numero come potenziale forza bellica, a ispezionarne e studiarne forme di esistenza con visite periodiche di commissari civili e/o religiosi. La raccolta delle tasse e il controllo della fedeltà religiosa e politica si esercitano su di un territorio ben definito. Lo Stato ha un solo re una sola legge una sola fede: chi non l’accetta deve andarsene.
Anche per questo rinchiudersi degli orizzonti, il ‘600 è il secolo dominato dalla diffusione di paure nei confronti di presenze straniere: ladri e mendicanti, finti poveri, organizzati in bande con un sistema di comunicazione basato sul gergo (la “lingua zerga” studiata da Piero Camporesi).
L’ospedale si trasforma in istituzione di contenimento carcerario e di allontanamento dalla vista, di rieducazione e di lavoro forzato. I malati mentali sono una figura estrema dell’esclusione. La produzione di istituti di separazione e di controllo conosce una stagione intensa. La città vede una separazione di quartieri: a carattere religioso in Olanda e in Germania, a carattere socio-politico nei paesi dominati da una sola ortodossia. Al posto del pluralismo etnico e della divisione per mestieri si sostituisce una geografia della differenza, coi quartieri alti e i ghetti. La preoccupazione per la sicurezza porta alla nascita della polizia come istituzione di controllo dei marginali (celebre quella creata in Francia sotto Luigi XIV). In Inghilterra coll’affluire nelle nuove città industriali delle masse dei diseredati dalle campagne si accentua il timore sociale per il pericolo delle nuove classi di proletari come classi pericolose.
Quali sono state le politiche sociali verso queste persone in epoca medioevale e moderna e in che modo esse riflettevano l’ideologia e il modo di fare politica di chi deteneva il potere? Perché il pendolo si è spostato ora sul tentativo di integrarli, ora su quello di emarginarli ancora di più, rendendoli inoffensivi e soprattutto invisibili?
Con grande approssimazione si può dire che nel Medioevo ha dominato il principio dell’aiuto misericordioso verso poveri e diseredati considerati come una presenza ineliminabile e voluta da Dio. Nell’età moderna i conflitti tra gli stati e tra le chiese hanno avuto un riflesso nel moltiplicarsi dei processi di esclusione ed eliminazione di ciò che appariva inassimilabile (il ribelle politico, l’eretico pertinace, il mussulmano, l’indio cannibale e immorale) e più ancora nella costruzione di grandi realtà di omologazione del diverso: ospizi, istituti per minori e per convertiti, missioni. Fondamentale fra tutte la scuola che, con l’aiuto dell’alfabetizzazione e con l’insegnamento delle regole sociali, raggiunge anche illetterati , gente del popolo, indios americani.
Come si forma secondo lei la fenomenologia del capro espiatorio e quali sono state nella storia moderna e contemporanea, le paure che hanno generato la caccia al diverso? Sono state soprattutto di ordine economico-sociale (es: scarsità di risorse) o piuttosto psicologico-identitario?
Credo che bisognerebbe sciogliere il disegno generico della paura del diverso come reazione istintiva in un’analisi di momenti specifici. Scopriremmo così che molto spesso quelle paure sono state instillate e diffuse ad arte: nel ‘300 fu il re di Francia Filippo il Bello ad architettare accuse mostruose contro chi ostacolava le sue ambizioni (papa Bonifacio VIII, per esempio) o poteva essere depredato (i Templari, gli ebrei). Nel secolo successivo, i predicatori francescani che scatenarono pogrom antiebraici lo fecero per impiantare i Monti di pietà e fare concorrenza alla finanza dei banchi ebraici. E la capacità dei predicatori di suscitare movimenti violenti fu all’origine del terribile massacro degli ebrei di Lisbona, che costrinse perfino il re ad abbandonare la città divenuta incontrollabile.
La costruzione del “capro espiatorio” è qualcosa che è in agguato dentro di noi, ma richiede un investimento speciale da parte di poteri e forze organizzate per avere successo. Una condizione essenziale del successo è una compattezza statale e istituzionale molto alta: il nazionalismo francese e quello tedesco riuscirono a utilizzare il capro espiatorio ebraico già predisposto dalla storia precedente e a farlo diventare l’antisemitismo popolare di cui abbiamo visto i terribili frutti grazie all’esistenza di una forte identità nazionale, alla frustrazione della guerra perduta, alla paura dell’inflazione, alla minaccia del comunismo. L’esperimento non riuscì in Italia, o almeno non completamente perchè qui individualismo, localismo, cosmopolitismo tradizionali e le reti di solidarietà di una società contadina non fecero attecchire l’infezione.
L’Italia è, infatti, un paese che ha, in qualche modo, una tradizione di tolleranza. Come mai allora la solidarietà verso chi arriva o è diverso oggi è sempre meno un valore condiviso? Sia nella società, come nella politica?
L’insicurezza economica nata dal passaggio da una fase industriale a una fase post-industriale, la fragilità delle istituzioni fondamentali come l’altra faccia di un “miracolo” frutto di un selvaggio individualismo non assistito da un adeguato innalzamento del livello culturale e della coscienza civile, sono le pre-condizioni su cui si è innestata da un lato la manifesta inesistenza di un adeguato progetto politico dietro le vacue esortazioni alla solidarietà che sono venute da sinistra e dall’altro la campagna terroristica delle destre. E tuttavia è presto per ritenere saldato il modello del regime reazionario di massa di tipo fascista. Vedremo quanto gli apprendisti stregoni della destra saranno capaci di sfruttare questo argomento propagandistico in un paese che ha bisogno di lavoro sottocosto per reggere concorrenze agguerrite in tempi di calo dei consumi.
Le recenti disposizioni adottate dal governo contro l’immigrazione caratterizzano la clandestinità, condizione di tragica necessità, come una vera e propria una colpa. Guardando questo neo-moralismo con sguardo storico, secondo lei è possibile scorgere un ritorno di vecchie ideologie del passato, in cui povertà e nomadismo erano considerate peccati dell’individuo o castighi divini?
L’ostilità verso i nomadi è antica e radicata: di nuovo c’è che la crescita dei livelli di consumo e di ricchezza e il dileguarsi delle memorie degli emigranti nostrani hanno aumentato la distanza nei confronti degli zingari e cancellato tolleranza e solidarietà per i più poveri. Chi attenta alla sicurezza della proprietà suscita reazioni violentissime. L’episodio di Cerreto Guidi mostra che si arriva a gettare bombe molotov coperti dall’omertà generalizzata in un paese dove finora non erano mai venute meno forme di solidarietà sociale e di coscienza politica di sinistra. Gli zingari che si aggiravano per le campagne un tempo trovavano porte aperte e niente da rubare, oggi trovano case dove basta un pensionato per garantire la presenza di danaro. Ma devono anche fare i conti col volto feroce dell’odio per i ladri.
Quanto all’ideologia religiosa della povertà come castigo divino, questa in un paese cattolico non ha radici. Semmai può venire dal mondo cattolico una risposta alla ferocia di un governo dei ricchi e degli sbirri: e l’episodio di qualche tempo fa relativo al settimanale Famiglia cristiana conferma quello che già con alcuni episodi e con qualche personaggio della Chiesa (penso per esempio al cardinale di Milano Tettamanzi) si era già visto: una reazione di quel tanto di religioso che abita nel fondo dell’Italia cattolica e che ben capisce quanto di violentemente anticristiano ci sia nei provvedimenti governativi. Volontariato sociale, parrocchie, associazionismo sono alcune delle riserve di energia che hanno permesso un approccio ai problemi dell’immigrazione e della devianza di tipo non esclusivamente poliziesco e carcerario. Il decreto sulla sicurezza, poi, è talmente assurdo e contraddittorio che ben presto qualcuno proverà a dirlo, nonostante l’assordante silenzio della cosiddetta opposizione che non ha in generale niente da dire su questi temi (per non dire che molti uomini del centro-sinistra e molte amministrazioni locali sono scesi in gara con la destra mostrandosi scioccamente ancora più chiusi e duri dei loro apparenti avversari).
Un tema di grande importanza simbolica è stata, ad esempio, la battaglia contro i rom. Come lei ha scritto, la diversità – e non solo quella rom – non è percepita come un valore, al contrario. Guardando anche al passato, è possibile dire che le civiltà che hanno avuto maggiore vitalità sono quelle che hanno integrato la diversità? Oppure uno sfilacciamento identitario mina in qualche modo la civiltà stesse? Quale l’equilibrio “immunitario” tra apertura e chiusura alla diversità?
Le nostre società europee appaiono bloccate rigidamente nei loro assetti sociali dove una minoranza di ricchissimi e una classe media impoverita si allontanano vertiginosamente tra di loro e condividono la stessa mancanza di solidarietà nei confronti dei meno fortunati. Sono società culturalmente poco creative, ripetitive, capaci solo di sfruttare il patrimonio delle creazioni storiche e artistiche del passato come un investimento azionario: non parliamo dell’Italia dove si dilapida il paesaggio e le risorse naturali e si manda a fondo la grande risorsa costituita dalla ricerca e dall’università. In generale spira in Europa un vento di conservazione e di paura. Il fenomeno dell’odio verso i rom è la punta estrema di questo sentimento di paura che è un iceberg nascosto e pericoloso. Esiste un’altra via nei confronti delle folle che cercano di entrare nel recinto europeo che non sia quella dello sfruttamento cieco mascherato da difesa dell’ “identità”? Vedremo se ci sarà una risposta e quale sarà. Una cosa è chiara: per affrontare questo problema sarebbe necessaria una crescita delle istituzioni sociali e delle garanzie individuali tale da elevare il nostro attuale standard: basti pensare alle scuole, alla sanità, alla tutela del territorio. Abbiamo bisogno come il pane di una politica che guardi al futuro, che investa nella ricerca, che aggredisca le corporazioni e dia solidità e speranza alle generazioni giovani invece di costringerle a emigrare o a sperimentare un lavoro liquido, sfuggente, isolante e non solidale.
Al di là dello sfruttamento politico delle paure derivate da massiccia immigrazione e globalizzazione senza regole, non si può negare che entrambi questi fenomeni pongono drammatici problemi di ordine economico e culturale. Non crede che una posizione di totale chiusura alla globalizzazione (e alla diversità a tutti i costi) sia speculare ad una apertura incondizionata?
È ovvio che non esiste nemmeno sul piano teorico la possibilità dell’apertura incondizionata. Esiste la realtà di un paese senza istituzioni capaci di un controllo legale dei flussi di popolazione e quella di un’economia che ha bisogno come il pane di forza lavoro senza diritti. Il nostro paese ama la trasgressione e la furbizia, premia chi dichiara il falso e chi riesce a farla in barba alla legge, esalta il successo raggiunto con qualsiasi mezzo, concepisce la libertà solo come libertà dalla legge non nel rispetto della legge. L’Italia non ha maturato nella sua breve storia un vero rispetto per i diritti individuali: ideologie apparentemente conflittuali (cattolicesimo e comunismo) hanno consolidato questi atteggiamenti diffusi. E questo spiega forse perchè oggi un’opposizione introvabile evita di contrastare decisamente le misure liberticide e dimostra la sua esistenza solo pigolando la sua disponibilità a “dialogare” col governo. Intanto le corporazioni forti del paese – magistratura, polizie – danno chiari segni di aver capito chi ha vinto e in quale direzione stiamo andando.
La battaglia contro gli immigrati viene condotta nel nome del “valori cristiani” ed “europei”. Da storico, secondo lei c’è stata, e quando, un periodo in cui il profilo della “civiltà” europea era chiaramente distinguibile? E comunque: esiste, secondo lei, un patrimonio culturale e morale specificamente europeo da preservare?
La storia dell’idea di Europa mostra che essa coincide a lungo con quella di cristianità. I suoi confini sono segnati nel Medioevo dall’avanzata araba in Africa e in Spagna, dal tentativo di riconquistare al cristianesimo i “luoghi santi” in Palestina e dalla lotta armata della “reconquista” nella penisola iberica. La caduta di Costantinopoli e l’avanzata dei Turchi che dominano le coste del Mediterraneo, conquistano l’Ungheria e i Balcani e minacciano Vienna sono le cause che stimolano alleanze e accordi tra stati europei e alimentano l’idea di una comune appartenenza europea e cristiana, fatta di regole politiche e di cultura. L’espansione nel mondo extraeuropeo con la nascita dei grandi imperi coloniali esalta l’idea di una superiorità e di una universalità dei valori europei di cultura e di civiltà. L’Illuminismo, la Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese portano alle idee di tolleranza e di libertà sancite coi codici napoleonici. Ma le divisioni interne restano fortissime: sono di tipo religioso, culturale, civile. E il progetto di impero europeo di Napoleone naufraga nel trionfo del nazionalismo aggressivo dell’800 che porterà al disastro delle guerre mondiali e alla fine del dominio europeo sul mondo.
Il patrimonio che l’Europa ha creato esiste: è raccolto nelle dichiarazioni settecentesche dei diritti dell’individuo e del cittadino e nelle lotte per estendere quei diritti alle classi popolari e ai popoli delle colonie. Cosmopolitismo e rispetto delle differenze sono i frutti della sua storia, che ha raccolto e trasmesso il patrimonio culturale del mondo antico integrandolo con le culture germaniche e slave e con l’insegnamento morale del cristianesimo come religione della fraternità fra uomini tutti uguali perchè figli dello stesso Dio. Ma anche in quest’ultimo caso la presunta unità della civiltà europea figlia del cristianesimo si scioglie subito nelle diverse interpretazioni del cristianesimo che hanno portato alla difficile affermazione della libertà religiosa attraverso l’esperienza di terribili guerre di religione e spaventose costruzioni giuridiche e civili dell’intolleranza.
In conclusione: la politica usa con facilità stereotipi e cliché, cavalcandoli per i propri fini. Ma esiste un modo per comunicare con chiarezza la complessità che il tema della diversità culturale, e con esso quello dell’immigrazione, porta con sé? Oppure siamo condannati alla semplificazione?
In realtà la politica sta complicando il problema con effetti tragicomici: colpisce gli immigrati ma anche chi affitta a immigrati, colpisce il mendicante seduto sul marciapiede e il bambino rom ma anche i quartieri che confinano con gli orrendi campi per zingari o con le baracche sotto i ponti. È una politica improvvisata e di breve respiro. L’unica forza che per ora sembra possibile opporle è il “quarto potere”, l’informazione. Inseguire le false notizie, decifrare i messaggi pubblicitari, denunciare chi profitta e si arricchisce nell’illegalità, smascherare i finti successi del governo e le ipocrisie della cosiddetta opposizione. Questa è, insomma, l’occasione perchè cresca in Italia l’informazione come esercizio di diritti democratici.