Non c’è integrazione senza lavoro
Emanuela Scridel 9 February 2010

Se è vero che “la povertà e l’esclusione di un individuo contribuiscono alla povertà della società intera”, i recenti fatti di Rosarno ci hanno reso “tutti” più poveri. “Tutti noi”, s’intende, “noi cittadini a pieno titolo” di un’Europa che ha da poco proclamato il 2010 l’“Anno Europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale”. E, soprattutto, tali fatti inducono a una riflessione sull’atteggiamento che il nostro Paese intende assumere nei confronti di coloro che, provenienti da Paesi in cui le umiliazioni e le privazioni annientano la “persona” e dove la sopravvivenza è un fatto puramente casuale, “insistono” sul “nostro suolo”, quello italiano e che, come spesso accade per coloro che sono assuefatti ad essere umiliati, continuano ad esserlo. E purtroppo, in questo caso, non è nemmeno possibile assurgere alla giustificazione della diversità culturale, perché queste persone, questi immigrati, non hanno avuto la possibilità di esprimere la loro cultura, poiché troppo impegnati a sopravvivere. L’unica dimensione “culturale” che può essere ravvisata è quella che afferisce all’atteggiamento degli autoctoni nei confronti “dell’altro”.

In una realtà come quella odierna, intrisa di pluralismi e di diversità, la popolazione “autoctona” pare abbia sentito il bisogno – motivato forse dalla “paura” che talvolta ci sorprende quando “vediamo” la realtà e l’orrore delle condizioni in cui “l’altro” vive, quasi che a venirne a contatto potessimo rimanerne contaminati – di affermare la propria estraneità dall’“altro”, il nuovo venuto, l’immigrato. Ma il contatto è di fatto già avvenuto, poiché esso è immediato, inconsapevole, è parte integrante del nostro vivere quotidiano. E avviene talvolta, soprattutto in realtà urbane di dimensioni contenute, come nel caso dell’Italia, che, coloro che vi abitano da lungo tempo, magari da decenni, considerino quella realtà come qualcosa di proprio. In quanto cittadini che si sono insediati su quel territorio molto tempo fa e che hanno contribuito, magari con fatica, alla sua “costruzione” imponendosi essi stessi il rispetto di regole che salvaguardassero quel bene “comune e individuale” al tempo stesso, si dimostrino poco inclini a cedere “spazi” ai nuovi venuti, a coloro che vengono da fuori, a coloro che a quella costruzione non hanno contribuito, agli immigrati. Ma la realtà non è statica, essa evolve ed è in continuo divenire e quegli immigrati sono parte del divenire, contribuendo essi stessi ogni giorno alla crescita di quella realtà.

E’ vero che in Italia il fenomeno migratorio ha avuto inizio soltanto verso la metà degli anni ’80, dunque molti anni dopo rispetto a quanto verificatosi nei paesi dell’Europa del Nord, meta di immigrazione internazionale fin dagli anni ’50, in corrispondenza tanto degli anni della ricostruzione postbellica quanto dell’inizio del boom economico degli anni ’60. L’Italia, tradizionalmente paese di emigrazione, si è trovata a gestire un flusso migratorio in entrata, assolutamente imprevisto e “spontaneo” – nel senso che non era stato generato da politiche di incentivazione promosse dai nostri governi – e, a differenza di quanto avvenuto negli altri Paesi europei, non vi erano regolamentazioni specifiche sul tema. La prima legge sull’immigrazione risale al 1990 (legge Martelli), seguita poi da un’ulteriore legge nel 1998 (legge Turco-Napolitano), sostituita dall’attuale del 2002 (legge Bossi-Fini).

Secondo fonti Eurostat, gli stranieri – intesi come cittadini che non hanno la cittadinanza del paese in cui risiedono – rappresentano il 6,2% della popolazione dell’Unione Europea. In cifre assolute, ciò significa che, al primo gennaio 2008 erano pari a 30,8 milioni, di cui 11,3 milioni provenienti da paesi extracomunitari (6 milioni dai altri paesi europei, 4,7 milioni dall’Africa, 3,7 milioni dall’Asia e di 3,2 milioni dall’America). In Italia, stando alle fonti ISTAT, nel 2008, il numero degli immigrati (UE e non) presenti in Italia é aumentato del 13,4%, per un totale di 3.891.295 unità al primo gennaio 2009. Il numero maggiore di stranieri proviene dalla Romania (18,2%) e dall’Albania (11,7%). Seguono quelli provenienti dal Marocco (+10,3%) e da paesi asiatici come Cina, India e Bangladesh (+18,6%). Le cifre sono altisonanti e riflettono una ricollocazione geografica della popolazione mondiale in funzione tanto dei nuovi assetti geo-politici globali, quanto del permanere delle aree di crisi, quanto dell’acuirsi della scarsità di risorse in alcune regioni del mondo.

L’analisi del fenomeno migratorio e la sua gestione appaiono dunque estremamente complessi. Una prima considerazione può essere quella relativa alle dinamiche economico-sociali che lo sottendono. Le ragioni che spingono gli individui ad emigrare, talvolta a fuggire, dal proprio Paese, sono molteplici, ma quella fondamentale è la ricerca di contesti di vita che diano dignità alla persona in quanto tale e fondamentalmente la possibilità di un lavoro. La dimensione economica e sociale gioca peraltro un ruolo essenziale nel processo di integrazione. La possibilità di svolgere un lavoro dignitoso in un contesto sociale rispettoso risulta uno dei vettori fondamentali attraverso i quali si attua l’inserimento degli immigrati nella società. Lavorare significa interagire in un determinato contesto, essere parte di un ambiente culturale e sociale. Il mancato inserimento nel mondo del lavoro o l’uscita prolungata da esso danno luogo a fenomeni di marginalità e di disagio sociale, che divengono condizioni favorevoli anche per il sorgere della conflittualità identitaria di tipo culturale o religioso. L’integrazione economica risulta dunque essenziale per l’integrazione sociale.

L’Unione europea è una delle regioni più ricche al mondo. Tuttavia il 17% degli europei dispone ancora di risorse limitate e non riesce a soddisfare le proprie necessità primarie. La povertà e l’emarginazione sociale sono dunque presenti anche in Europa. Il fatto che l’Unione Europea abbia incentrato il 2010 sulla lotta alla povertà e all’esclusione sociale denota la presa di coscienza dell’esistenza di dinamiche economiche e sociali, spesso negative, che sottendono il manifestarsi, seppur con modalità diverse a seconda del contesto in cui emergono, un disagio sociale che è sempre più forte.

Economista – Esperto in Strategie Internazionali e U.E.

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