Mentre preparavo mentalmente il mio contributo a questa tavola rotonda su “Revival religiosi e Società Aperta”, mi sono trovato a reagire alle parole del titolo e ho deciso immediatamente che avrei concentrato il mio intervento, molto breve e molto schematico, su quella che io percepisco essere la situazione “a casa”, nelle democrazie occidentali dove sono cresciuto e dove lavoro come filosofo politico.
Credo, infatti, che il modo migliore di servire la causa del dialogo di civiltà e disinnescare il rischio di finire nel noto clash – quello scontro di civiltà che Edward Said ha giustamente ribattezzato “scontro dell’ignoranza” – sia per ciascuno di noi quello di valutare in maniera critica cosa sta accadendo a casa propria, piuttosto che pontificare su cosa gli altri dovrebbero o non dovrebbero fare in casa loro. Così, in chiusura, riassumerò brevemente alcuni dei pensieri più interessanti offerti recentemente da importanti filosofi politici sul tema della religione e politica.
Lasciatemi iniziare, comunque, affrontando la nozione stessa di revival religioso o meglio della crescita, ancora una volta, nelle società occidentali, della domanda di un ruolo pubblico per la religione e delle sfide che questo risveglio e questa deprivatizzazione pongono alla nostra comprensione di come dovrebbero apparire arrangiamenti sociali corretti, o una società aperta. La prima cosa di cui, a mio parere, dovremmo essere consapevoli è che la ricerca religiosa che noi sentiamo aver ripreso vigore è sempre esistita nelle società occidentali. Le sue manifestazioni esterne possono essere state diverse, ma la fede religiosa non è mai diminuita persino nei paesi occidentali secolari.
Più verosimilmente abbiamo ignorato questo fatto basilare perché siamo stati accecati da un’altra ancora delle ideologie che sono pericolosamente circolate nel XX secolo, l’ideologia della secolarizzazione, ovvero l’idea che il progresso e la modernizzazione porteranno quasi naturalmente alla scomparsa del fenomeno religioso sradicando il bisogno strutturalmente indotto della sua funzione compensatoria e consolatoria. Questo fraintendimento, dal quale ci hanno messo in guardia eminenti sociologi come Peter Berger, Adam Seligman e Josè Casanova e filosofi come Charles Taylor, ci porta a fraintendere non solo la natura del fenomeno religioso, ma anche la natura della società. Perché il “fenomeno religioso”, come magistralmente illustrato da Durkheim, è parte integrante del tessuto stesso della società in quanto tale, per cui esso funziona sia come un elemento idealizzante che come un elemento integrante. Perciò il termine revival dovrebbe essere preso con una certa cautela per evitare di restare intrappolati nel ritratto del contrario di una “secolarizzazione” che, in primo luogo, non è mai esistita, almeno non come descritta nei libri di testo.
In secondo luogo, dobbiamo sciogliere in maniera più precisa il nostro secondo termine: la società aperta. Perché, in un certo senso, non c’è nulla di più chiuso della società aperta. L’espressione venne coniata all’epoca della Guerra Fredda. Essa racchiude ambizioni filosofiche ma non è completamente libera dai riflessi di quell’orizzonte. La società aperta si oppone alla società pianificata, dove lo Stato cerca di modellare ogni sfera della società e della cultura. Laddove la società pianificata ruota attorno allo Stato, la società aperta ruota attorno al mercato. È una società secolare, che è devota alla scienza e alla ragione, e che diffida profondamente di tutto ciò che non può essere affrontato nei termini della scienza e della ragione. Essa rifugge l’oppressione e le regolamentazioni ma confina l’orizzonte del desiderabile a una prosperità quanto più generale e durevole possibile. Perciò è una società chiusa per coloro che percepiscono l’orizzonte della prosperità per tutti come riduttivo, è una società le cui istituzioni parlano una lingua straniera per il cittadino della fede, è una società il cui codice pubblico fa sentire i credenti, al massimo, tollerati e visti dall’alto in basso come residui del passato.
Per correggere questa cecità, Jürgen Habermas ha adottato l’espressione società post-secolare e John Rawls ha coniato il termine liberalismo politico. Ma entrambi sono ideati per segnalare una discontinuità rispetto a concetti di democrazia e di politica liberale che in passato avevano dato per scontata l’idea di secolarizzazione. E ambedue gli autori si chiedono se l’interpretazione classica della laicità fornita dalla teoria politica liberale non sia eccessivamente restrittiva. Rawls descrive il suo liberalismo politico come “profondamente differente dal liberalismo dell’Illuminismo, che storicamente attaccò la Cristianità ortodossa”. Egli prende esplicitamente le distanze da un’interpretazione restrittiva del suo concetto di ragione pubblica e di “ragionevolezza”: sulla base di una cosiddetta “visione ampia” della ragione pubblica, in qualsiasi momento i cittadini possono portare legittimamente le loro convinzioni più profonde, ispirate dalla religione, nell’arena pubblica a condizione che, qualora volessero formalizzare la loro proposta in una risoluzione o in uno statuto, queste ragioni, inizialmente religiose, siano sostituite da altre ragioni, secolari, pienamente condivisibili da cittadini che sono non-credenti.
Rawls ci mette in guardia anche dal confondere “ragione pubblica” e “ragione secolare”. Quando arriva il momento di preparare una legge, anche ai cittadini che abbracciano convinzioni secolari comprensive, che vanno dal razionalismo illuminista al comunismo – e che in passato hanno generato forme di fondamentalismo non meno oppressive di quelle basate sulla religione – viene chiesto di trasformare le loro ragioni ultime in “penultime”, in ragioni condivisibili anche da coloro che non aderiscono alle loro ideologie. Essendo neutrale dal punto di vista religioso ma non secolarista in maniera militante, la ragione pubblica appare, quindi, equidistante da tutte le forme di ragione che partono da assunti comprensivi controversi, siano questi religiosi o secolari. Il suo standard interno è la “ragionevolezza”, distinta dalla razionalità e intesa come la capacità di riconoscere il dato di fatto del pluralismo, la parzialità della propria posizione e di entrare in una giusta cooperazione con gli altri, una cooperazione fondata su principi che possono essere condivisi da tutti.
Anche Habermas insiste sul fatto che all’interno della sfera pubblica non istituzionale non ci possono essere restrizioni al tipo di ragioni che vengono invocate. Tuttavia egli esprime maggiore preoccupazione di Rawls riguardo a quello che definisce un onere ermeneutico addizionale, un onere di traduzione che grava sul cittadino credente per il fatto che la moneta corrente utilizzata dalla politica democratica può solo essere quella di ragioni neutrali dal punto di vista religioso. Questa preoccupazione porta Habermas a formulare una proposta che non si trova nell’opera di Rawls: l’onere addizionale della traduzione dovrebbe essere condiviso – in modi che da un punto di vista istituzionale restano ancora da definire – tra i cittadini che sono credenti e i cittadini che non lo sono. Questo per garantire che i cittadini credenti che per ragioni indipendenti dalla loro volontà trovassero impossibile “tradurre” le ragioni legate alla loro fede in ragioni neutrali dal punto di vista religioso non siano privati dell’influenza politica.
Questo è tuttavia solo l’inizio del dibattito. Charles Taylor, per esempio, nei suoi scritti intitolati Una modernità cattolica? e Le varie forme della religione oggi parla di una “lobotomia spirituale” che verrebbe imposta al cittadino cristiano, che non si identifica con l’idea di una “prosperità umana che non riconosce alcun fine valido aldilà di questo”, qualora l’orizzonte dell’umanesimo moderno venisse assunto come esclusivo. Questa forma di umanesimo anti-trascendente dei “valori politici condivisi” rischia di apparire al cittadino credente come “un’esclusione gratuita della religione in nome di un credo metafisico rivale, e non semplicemente come la protezione e il controllo dei confini di una sfera pubblica condivisa e indipendente”.
Walzer propone una flessibilizzazione della linea che separa politica e religione. A volte, le ragioni della giustizia e il principio dell’uguaglianza superano in grado le ragioni in favore di una rigida applicazione della separazione intesa come neutralità, come, per esempio, quando in una vena compensatoria lo Stato stabilisce quote per gruppi svantaggiati che hanno sofferto di discriminazioni in passato e che sono sistematicamente sotto-rappresentati in certe posizioni. Secondo Walzer, in altre occasioni, lo Stato può sospendere la propria neutralità in senso più stretto per ragioni pragmatiche, senza che questo valga, in realtà, come una violazione del principio. Per esempio, qualora si desiderasse istituire una vacanza settimanale, non ci sarebbe alcun bisogno di estrarre il giorno: il principio della separazione viene solo applicato in modo flessibile, non violato, se lo Stato sceglie la domenica adottando la tradizione della maggioranza dei suoi cittadini. La separazione verrebbe violata solo nel caso in cui la legge impedisse ai credenti di altre religioni di celebrare le proprie festività negli altri giorni.
È solo l’inizio del dibattito, ma è un chiaro sintomo del fatto che la nostra comprensione della separazione tra politica e religione è attualmente soggetta a una riconsiderazione, non nella sua idea fondamentale ma rispetto al modo in cui essa è stata applicata finora.
Alessandro Ferrara è professore di filosofia politica all’Università di Roma Tor Vergata.
Questo testo è la trascrizione dell’intervento tenuto dall’autore alla tavola rotonda organizzata da Reset Dialogues on Civilizations “Il risveglio della religione e la società aperta”, che si è svolta nell’ambito della Giornata mondiale della filosofia dell’Unesco (Rabat – Marocco, 16 novembre 2006). All’incontro hanno partecipato il ministro dell’Interno Giuliano Amato, i filosofi Abdou Filali-Ansary (Marocco), Fred Dallmayr (Usa), Sadik Al Azm (Siria), Sebastiano Maffettone e Alessandro Ferrara (Italia), il direttore di Reset Giancarlo Bosetti e l’amministratore delegato di Reset DoC Nina zu Fürstenberg.
Traduzione di Martina Toti