“O amore simile al tempio di fuoco! Tu che hai indossato una forma e un corpo, Tu che hai saccheggiato la carovana del cuore, donaci un istante di pace. E’ nel fuoco e nell’ardore che scorre la mia notte, fino all’alba. O gloria e fortuna mia! Per il viso del sole luminoso io giro intorno al suo volto simile alla luna brillante, e saluto, senza proferire parola.”
Rumi, Diwan Shams Tabrizi
Che il sufismo rappresenti una visione rivoluzionaria dell’Islam fu chiaro sin dall’VIII secolo d.c., quando il misticismo musulmano, come quello incarnato da Mansur al-Hallaj, dichiarava che non era importante recarsi alla Mecca o compiere tutte le liturgie prescritte per essere un buon musulmano e trovare Dio, perché Dio si trovava nel cuore di ogni fedele. Con la frase ana’l haqq, “io sono la verità”, il pensiero sufi sovvertiva l’ordine e l’autorità costituita, liberando così i musulmani da qualsiasi figura mediatrice tra il divino e l’umano e soprattutto apriva la possibilità per il fedele di potersi unire a Dio divenendo tutt’uno con Esso.
In Iran, prima della rivoluzione islamica del 1979, coloro che si dichiaravano musulmani sufi erano circa 100.000; oggi, a distanza di trent’anni, sono divenuti quasi 5 milioni. Il fatto che proprio il sufismo abbia subito un’impennata nella sua popolarità durante il governo dell’unica repubblica islamica al mondo e che soprattutto sia divenuto popolare presso i più giovani e le donne è certamente indicativo; gli anni che hanno seguito la rivoluzione iraniana furono caratterizzati dalla rigidità nella pratica religiosa ortodossa e nell’istituzionalizzazione di questa: basti pensare all’obbligo di urlare Allahu Akbar! (Dio è grande) dai tetti delle case in determinate ricorrenze, così come l’obbligo di velarsi, di mantenere separate le sfere d’interazione tra i sessi ecc.
Lo spazio pubblico, immediatamente dopo la rivoluzione, fu dominato dal colore nero e dalla rigidità nell’applicazione del controllo sulla moralità, soprattutto quella femminile: nero era il colore dei lunghi chador indossati dalle guardiane della rivoluzione, così come nero era il colore delle bandiere che avvolgevano i corpi dei giovanissimi martiri iraniani nella guerra contro l’Iraq. Furono proibiti la musica e il canto, le feste, e furono censurati i prodotti che arrivavano dall’Occidente, influenzando con queste scelte soprattutto i giovani iraniani. La religione, divenuta strumento di governo, divenne dunque aliena alla vita spirituale del popolo, che andò cercando alternative all’Islam politico dell’Ayatollah Khomeini.
L’Iran è oggi il paese con il maggior numero di sufi di tutto il Medio Oriente: viaggiando attraverso i villaggi, fuori dalle grandi città, è possibile incontrare gruppi di donne sufi che come i dervisci, nonostante sia ancora oggi proibito, danzano e cantano per le strade fino a raggiungere una sorta di trance; i loro veli sono bianchi, i loro abiti leggeri. Le donne derviscio spesso diventano i punti di riferimento dell’intera comunità, acquisendo importanza non soltanto dal punto di vista spirituale, ma divenendo delle vere e proprie autorità locali, a dispetto di leggi governative discriminatorie nei loro confronti. Nelle grandi città iraniane il sufismo è espresso nei salotti della borghesia media urbana; riuniti per suonare gli strumenti tradizionali come il ney, il liuto, il tar, uomini e donne, ma soprattutto giovani, danzano e cantano, riprendendo le poesie del poeta Rumi e cercando il contatto diretto con il divino. Per i giovani il sufismo sembra essere uno strumento per rimanere musulmani e al contempo prendere le distanze dall’Islam politico e di stato; per alcune donne l’essere sufi significa ritrovare un’autenticità culturale “persiana” libera, da un lato, dalle restrizioni dell’ortodossia al governo e, dall’altro, dall’influenza culturale occidentale.
Se per i sufi le religioni – come diceva anche Hallaj – “sono ramificazioni di un Principio Unico”, la riproposta del sufismo nell’Iran del presente rientra perfettamente in quel filone di “riproposta della tradizione” che ha investito buona parte del mondo moderno; esso infatti si serve della tradizione come garante di autenticità, proponendo al contempo un modello culturale totalmente nuovo e pienamente inserito nel sistema-mondo di cui l’Iran fa parte: contrariamente all’accusa di fondamentalismo e di chiusura di cui la nazione iraniana è stata tacciata sulla scia di una più vasta accusa a tutto il mondo musulmano, la versione sufi dell’Islam in questi anni sembra invece ribadire un messaggio di apertura, pace e fratellanza tra le religioni che ha origine proprio all’interno dell’Islam stesso; d’altra parte il sufismo nella capitale appare anche come una sorta di tendenza alla moda, e non è privo di una certa spettacolarizzazione della sua pratica. Si tratta in particolare dell’esibizione di musiche e danze che culminano in stati di trance, a cui molti, anche non adepti, assistono con piacere e divertimento.
In Iran ad ogni proibizione corrisponde un’eccezione. Così in una nazione composta per il settanta per cento da giovani al di sotto dei 25 anni, la musica proibita è in realtà tollerata sottoforma di una pratica religiosa “alternativa” come il sufismo, che in modo del tutto moderno rappresenta una nuova maniera di essere iraniani, e soprattutto, musulmani in Iran.