Il ruolo della religione nei nuovi media arabi
Patricia Kubala 19 June 2007

Quest’articolo è l’intervento che l’autrice ha tenuto in occasione della conferenza “Al Jazeera and the New Arab Media”, organizzata dal Center for Middle East Studies, dell’Università di Santa Barbara lo scorso maggio.

La rappresentazione degli islamismi sulla tv di stato egiziana

Nel 1993, Lila Abu-Lughod dava alle stampe il suo più importante saggio: Finding a Place for Islam: Egyptian Television Serials and the National Interest (“Alla ricerca di un posto per l’Islam: le serie tv egiziane e l’interesse nazionale”), ove si analizzano le rappresentazioni degli islamisti, e dell’ideologia socio-politica islamista, nelle tv egiziane a controllo statale. Rimarcando un silenzio generale, nei programmi tv egiziani, quanto al movimento islamista quale moderna alternativa al dominante paradigma del nazionalismo arabo secolare, Abu-Lughod avanza l’idea che tale esclusione si iscriva in una più generale strategia di separazione dei programmi religiosi da quelli popolari; una strategia volta a enfatizzare l’irrilevanza della religione nei settori pubblici dello sviluppo politico ed economico, del progresso e della responsabilità sociale. Tale silenzio sulla presenza islamista in Egitto, sostiene Abu-Lughod, non è mai stato spezzato se non dal dileggio; e, dopo la pubblicazione del suo saggio, diversi intellettuali hanno pubblicato studi in lingua inglese incentrati sull’immagine negativa – e spesso sprezzante – che la tv e i film egiziani danno degli attivisti islamisti. In tali produzioni, difatti, l’islamista viene tradizionalmente rappresentato come personaggio ipocrita, corrotto, inetto; spesso un pagliaccio. Che, per di più, tracima intolleranza, frustrazione sessuale, sterilità, e non tiene in alcun conto il migliore interesse della nazione.

I nuovi media islamici

Quindici anni dopo, i media egiziani controllati dallo Stato ancora tentano di mantenere tale separazione, e la negazione – ben pubblicizzata – del permesso di indossare il velo alle presentatrici nei loro canali è emblematica di questa perdurante strategia. Va da sé, tuttavia, che l’Islam odierno abbia trovato non uno ma molti posti per sé, giacché l’avvento dei programmi tv satellitari transnazionali nel mondo arabo è stato accompagnato da un boom delle produzioni televisive commerciali e private dedicate all’Islam. Alcuni di questi programmi vengono trasmessi su canali satellitari di varietà, come Dream, o di informazione, vedi Al Jazeera; altri su canali dedicati esplicitamente all’Islam come Iqra, del network Art (Arab radio and television). La scelta tra i vari generi di programmi è notevole. Si va dai dibattiti, nei canali dedicati all’informazione, sul ruolo dell’islamismo nella politica araba e nella vita sociale, ai numerosi programmi che ospitano gli sceicchi, i quali soddisfano le richieste, da parte dell’audience, di fatwe, ossia pareri giuridici non vincolanti, su specifiche questioni attinenti le esperienze della vita di tutti i giorni e le pratiche rituali. Diversi predicatori popolari, come Amr Khaled e il dottor Abla Al-Kahlawy, hanno i propri programmi nei quali spiegano il Corano, la vita del Profeta e dei suoi seguaci e il loro valore nella vita di tutti giorni e del Ventunesimo secolo, il tutto attraverso un linguaggio semplice e informale. Anche altri programmi hanno adottato il format dei talk-show, e trattano dei temi d’attualità con cui deve confrontarsi la ummah arabo-musulmana, ma anche la comunità transnazionale. Non basta. Altri canali e programmi, difatti, sono dedicati all’insegnamento dei principi della recitazione coranica. E, da ultimo, occorre ricordare la sparuta – ma in costante crescita – categoria di programmi culturali e d’intrattenimento rispondenti ai dettami islamici: dalle classiche opere teatrali ai clip musicali, ai programmi di moda e costume.

Una delle caratteristiche salienti dei nuovi media islamici è la sempre più massiccia presenza di presentatrici e performer che indossano il velo. Negli anni ’80 e ’90, i principali protagonisti del risveglio dell’Islam caldeggiavano il pentimento e l’uscita di scena di tutte le star televisive e dello spettacolo, ingiungendo al grande pubblico di stare alla larga dall’intrattenimento tv popolare e mainstream. In questi ultimi anni, per contro, si è assistito al ritorno in auge del velo tra star e conduttrici tv che, non essendo uscite di scena, hanno mantenuto il proprio lavoro, nonché alla ricomparsa, nelle tv satellitari, di diverse star che si erano ufficialmente ritirate. E che, abbigliate secondo le prescrizioni dell’Islam, presentano talk show, recitano nelle serie tv e cantano nei video musicali. Similmente, diversi telepredicatori attivi sui canali satellitari godono di notevole popolarità e promuovono le discipline umanistiche quali aspetto rilevante della civiltà e dottrina pedagogica e morale dell’Islam, incoraggiando i giovani a impiegare le proprie doti artistiche produttivamente, ponendole al servizio della ummah musulmana.

I video musicali e i programmi dedicati alle fatwe

Desidero ora focalizzare l’attenzione su alcune delle questioni sollevate dalla proliferazione di dibattiti e rappresentazioni dell’Islam e dell’islamismo nell’universo delle tv satellitari. Intendo in particolare soffermarmi su due generi cui ancora non si è accennato, nell’odierno dibattito sui “nuovi media arabi”. Generi che, a mio parere, sono oltremodo emblematici del nuovo universo satellitare arabo: i video musicali e i programmi dedicati alle fatwe. E che mi interessano in modo particolare anzitutto perché la loro presenza sta assumendo proporzioni davvero notevoli: l’ultima volta che mi sono recata al Cairo, sono riuscita a contare circa quindici canali dedicati esclusivamente ai video musicali sul satellite egiziano Nile Sat. Video musicali che, d’altronde, sono frequentemente trasmessi anche sui canali di varietà. Quanto ai programmi dedicati alle fatwe, anche la loro presenza è oramai dilagante sia sui canali di varietà, sia su quelli dedicati all’Islam.

In secondo luogo, va rimarcato che i due generi succitati hanno fornito l’oggetto di numerose diatribe sulla stampa panaraba. E che, infine, essi puntano a un approccio alternativo alla sfera pubblica, che in qualche modo si distanzi da quello in genere associato ai dibattiti sui canali di informazione satellitari arabi come Al Jazeera e Al Arabiyah. L’idea che Habermas avanza di sfera pubblica si basa sulla partecipazioni di attori raziocinanti a un confronto razionale, e sulla teoria consensuale della verità. Numerosi intellettuali hanno mosso proficue critiche ai postulati di Habermas riguardo la struttura della sfera pubblica, i suoi potenziali attori e le modalità della loro partecipazione. La maggior parte di essi, tuttavia, tende – come Habermas – a definire la sfera pubblica quale spazio discorsivo e di discussione, dibattito e delibera. Tale è il caso di numerosi intellettuali dei media arabi; Marc Lynch, ad esempio, nel suo libro Voices of the New Arab Public: Iraq, Al Jazeera and Middle East Politics Today (Columbia University Press 2006), scrive: “C’è una nuova sfera pubblica araba. “Nuova” in ragione degli onnipresenti talk show politici, i quali trasformano le stazioni tv satellitari in un vettore, moderno quanto autentico, di dibattito pubblico. “Araba” in forza di un’identità collettiva e condivisa grazie alla quale oratori e auditori si sentono di partecipare a un unico, comune progetto politico. “Pubblica” in virtù dei dibattiti e contenziosi che si svolgono con e dinanzi a un pubblico auto-determinatosi e orientato verso la determinazione dei succitati interessi comuni”.

È su tale idea di una sfera pubblica definita dal dibattito che poggia il postulato di Lynch per cui, ad esempio, la presenza islamista, specie nelle sue espressioni più radicali, occupa in realtà un ruolo piuttosto marginale nella nuova sfera pubblica araba. Vale la pena di approfondire questo approccio alternativo alla sfera pubblica. Un approccio che ci aiuta a riflettere sul ruolo che rivestono i due generi di cui sopra – i programmi dedicati rispettivamente alle fatwe e ai video musicali – e altri non immediatamente riconducibili a un modello di “dibattito” e che tuttavia ci sembrano costitutivi dei nuovi media satellitari arabi: le immagini, su Al Jazeera, delle sofferenze dei civili in Palestina e in Iraq, i messaggi video scrupolosamente confezionati da Al Qaeda e altri gruppi islamisti che predicano la violenza, le informali lezioni sulla vita del Profeta impartite dal professor Amr Khaled, e la presenza di attrici e presentatrici che indossano il velo.

Tale visione alternativa della sfera pubblica, promossa da intellettuali come Nilüfer Göle e Alev Çinar – i cui studi si concentrano soprattutto su questioni come la sessualità, la modernità e l’islamismo in Turchia – disegna la stessa quale spazio fondato sulla rappresentazione, l’esibizione e la messa in scena della soggettività, piuttosto che sull’argomentazione discorsiva e il dibattito. In un articolo intitolato “Islam in Public: New Visibilities and New Imaginaries”, (“L’Islam in pubblico: nuova visibilità e nuovi immaginari”), Göle scrive: “Nei contesti non occidentali, la sfera pubblica fa da sfondo alla performance didattica del soggetto contemporaneo, in cui gli aspetti non verbali, corporei e impliciti degli immaginari sociali vengono elaborati consapevolmente quanto esplicitamente. Poiché la sfera pubblica fa da sfondo a una performance vera e propria, piuttosto che a un’astratta cornice per le pratiche testuali e discorsive, l’aspetto visivo nella creazione di significati e nella costruzione di immaginari sociali assume importanza capitale. Gli immaginari sociali sono veicolati dalle immagini. Il corpo, in quanto registro sensoriale ed emotivo, connette le pratiche non-verbali implicite e gli atteggiamenti appresi (quel che si definisce l’habitus) alla visibilità pubblica e al pensiero consapevole. La visibilità pubblica si rifà alle tecniche di decodifica a ritroso, ossia alla trasformazione di pratiche implicite in prassi visibili e percepibili”.

Vale la pena di notare come Göle, pur privilegiando chiaramente la vista e l’immagine, suggerisca a conclusione del passo succitato che anche i suoni sono costitutivi della sfera pubblica. Tale descrizione alternativa della sfera pubblica quale spazio della rappresentazione e della pratica sociale concreta e visibile ci aiuta a comprendere come mai il governo egiziano, ad esempio, abbia fatto di tutto per controllare non solo i dibattiti, ma anche le rappresentazioni dell’Islam e dell’islamismo proposti dai media controllati dallo Stato. In realtà, le diatribe sulla pubblica e simbolica esibizione dell’Islam hanno costituito una delle principali preoccupazioni per i nazionalisti che, all’inizio del secolo scorso, mettevano in circolazione immagini di progresso e modernità mirate a escludere concettualizzazioni islamiche quali l’identità comunitaria e personale dalla sfera pubblica.

Walter Armbrust e Alev Çinar, ad esempio, hanno analizzato le immagini della spiaggia quale spazio emblematico della vita moderna e borghese, che occhieggiava dalle riviste popolari della metà del Ventesimo secolo, in tale contesto. Come fa notare Talal Asad in Formations of the Secular (Stanford University Press 2003), ove asserisce che “L’introduzione di nuove forme di dialogo potrebbe tradursi nella disgregazione di presupposti assodati su cui poggiano i dibattiti nella sfera pubblica”, così, a rigor di logica, l’esibizione di nuove immagini, e di nuove rappresentazioni simboliche, scardinerebbe le odierne pratiche sociali e identità performative. Non sorprende, dunque, che le diatribe attorno alla rappresentazione simbolica abbiano rappresentato uno degli aspetti più salienti degli scontri tra governi secolari, come la Turchia e l’Egitto, sin dall’ondata islamista degli anni ’70. Di qui la forza dirompente del velo in contesti caratterizzati dalla laicità-modernità: l’Università, il Parlamento, i media. Di qui anche i ripetuti attacchi, da parte di popolari predicatori islamisti, contro l’industria dell’intrattenimento secolare e le sue star.

Il pop islamico

Tale descrizione alternativa della sfera pubblica quale spazio per la rappresentazione e la pratica sociale concreta e visibile, dunque, ci aiuta a riflettere sulle significative rappresentazioni o pubbliche esibizioni dell’Islam sulle tv satellitari che non rientrano nel modello “deliberativo”, e che però chiaramente stimolano e danno vita alle esperienze delle diverse audience dei nuovi media satellitari arabi. Da dieci anni a questa parte, come appena rilevato, l’espansione della produzione e ricezione via satellite nel mondo arabo ha dato vita a nuovi spazi consacrati alla pratica e all’espressione pubblica dell’Islam e dell’islamismo, e i programmi dedicati alle fatwe e ai video musicali costituiscono l’emblema di due generi che proliferano nello spazio pubblico inaugurato dalla tv satellitare. Il pop islamico – che Martin Stokes ha ribattezzato “Green pop” – si è affermato nel mondo arabo grazie ai video musicali di Sami Yusuf, giovane artista musulmano di origini azere e passaporto britannico. Il suo primo album, al-Muallim (The Teacher), con ovvio riferimento al Profeta Maometto, è uscito nel 2003. Un video del brano che dà il titolo all’album è stato girato in Egitto, e poi trasmesso per la prima volta su Melody, stazione tv satellitare dedicata alla musica e di proprietà egiziana, durante il Ramadan 2004.

In quello stesso periodo, Sami Yusuf appariva nello show tv del popolarissimo Amr Khaled, egiziano, tra le nuove reclute dei telepredicatori che esortano i giovani a foggiare un’arte rispondente ai dettami dell’Islam. Yusuf ha riscosso un successo folgorante nei centri urbani egiziani e del mondo arabo. A osannarlo, un’audience estremamente variegata, i cui membri non necessariamente si identificano con l’islamismo, ma che ha salutato la sua musica come felice alternativa alla sempre più scandalosa offerta di programmi musicali rivolti ai giovani nella gran parte dei canali tv arabi. Pare che in molti siano rimasti colpiti, guardando il video musicale, dalla rappresentazione della fervente devozione islamica unita alle immagini di un giovane appartenente all’alta borghesia e decisamente sofisticato, cosmopolita e al passo coi tempi. Un ragazzo le cui attività quotidiane, le interazioni sociali a livello famigliare e con gli altri membri della comunità, e anche la sua professione di fotografo sono mirate a servire Dio secondo gli insegnamenti del Profeta. La devozione religiosa, l’arte e gli orpelli tecnologici della modernità convergono, in questo video, per forgiare l’immagine di un Islam che anima e contribuisce proficuamente alla vita sociale nella sfera pubblica, pur restando in armonia con il mondo moderno.

Si direbbe che il video di Yusuf, cui hanno fatto seguito diversi altri clip sia del suo primo album che del secondo, My Ummah, uscito nell’autunno 2005, abbia dato vita a un nuovo trend tra i cantanti pop, quasi a dimostrare che, una volta assodata l’esistenza di un mercato per l’entertainment culturale compatibile con l’Islam, altri siano stati ispirati dal suo successo (o, forse più cinicamente, abbiano deciso di farlo fruttare). Sono sempre più numerosi i video musicali in stile “valori e famiglia” proposti sui canali satellitari in questi ultimi anni, assieme a quelli ispirati a temi esplicitamente islamici. Questi ultimi, in particolare, vengono trasmessi non soltanto durante il mese di Ramadan o in occasione delle principali festività religiose, bensì tutto l’anno. E i produttori islamisti mostrano entusiasmo per la creazione di simili programmi culturali e d’intrattenimento. Desidero soffermarmi, in particolare, su un video musicale aspramente criticato e additato da molti quale esempio di palese speculazione e sfruttamento, a fini esclusivamente commerciali, dell’ondata di successo del pop islamico.

Prendiamo il video di Haytham Sa‘id Humma Malhum Bina Ya Layl (“Cosa c’è tra noi e loro?”), uscito nel 2005 e diretto da Sharif Sabry, che promuove e dirige anche i video di una delle più controverse cantanti pop dell’ultima generazione, Ruby. Che, con il suo modo di ballare, l’abbigliamento provocante e i testi volgarmente allusivi delle sue canzoni ha scandalizzato molti e disgustato altrettanti dal “cattivo gusto e degradazione dei valori morali”. Nel video musicale – che dà immagine a una tipica canzone d’amore pop araba, senza alcun riferimento ai valori islamici né della famiglia – si vede il cantante che si diverte, sul famoso ponte Qasr al-Nil, al Cairo, assieme alla sua dolce metà, coperta da un velo decisamente fashion. Mentre qualcuno ha salutato tutto ciò come un felice approccio alla realtà della cultura giovanile nel Cairo del Ventunesimo secolo, dove la maggioranza delle giovani porta il velo, e molte lo indossano seguendo l’ultima moda e nella maniera più trendy, altri hanno stigmatizzato l’immagine di una giovane velata che, di notte, bisboccia con il suo fidanzato sopra un ponte in quanto assolutamente anti-islamica, rattristandosi per quello che, ai loro occhi, costituisce lo svuotamento delle virtù etiche e spirituali associate al velo, che si vede ridotto a banale orpello modaiolo. Ho citato questo video proprio perché emblematico, a mio parere, del genere di diatribe che fanno esplodere le nuove esibizioni simboliche dell’Islam nella sfera pubblica.

Ancora due parole sui programmi dedicate alle fatwe, nei quali una personalità religiosa islamica, che non necessariamente gode dell’autorità conferitole da un’istituzione, emette un parere giuridico su questioni di pratica rituale o relativamente alle interazioni nella vita sociale di tutti i giorni. La struttura di tali programmi segue, in genere, un format preciso: la personalità religiosa risponde alle telefonate o alle e-mail attraverso cui il singolo spettatore rivolge la propria domanda. Il fatto, però, che tali domande siano poste in uno spazio pubblico veicola l’idea che esse riguardino non soltanto il singolo che chiede, bensì la comunità musulmana nel suo insieme. Molte di esse toccano temi come la sessualità, il corpo, e i rapporti con l’altro sesso. Quanto alle risposte, sono – non stupisce – spesso considerate controverse, a prescindere dall’autorità istituzionale dell’individuo che emette la fatwa. Il Gran Mufti d’Egitto, Ali ‘Gumaa, ad esempio, ha emesso lo scorso anno una serie di fatwe controverse e un’altra, più di recente, sulla liceità della ricostruzione dell’imene. A mio parere, tali fatwe sono così controverse proprio perché è invalso l’assunto che quanto suggerito debba essere preso sul serio dai tanti che “non sanno come va il mondo”, e che le rappresentazioni della shari‘a islamica espresse da tali personalità religiose debbano tradursi in pratica sociale performativa. Così, gli oppositori di determinate fatwe condannano con particolare veemenza una pratica che, a loro dire, offusca l’immagine della nazione, distorce il volto dell’Islam, induce la popolazione a un’erronea visione della propria religione, e via dicendo.

Mi preme, da ultimo, sottolineare che non è mia convinzione che le due diverse concettualizzazioni della sfera pubblica oggi delineate si escludano a vicenda. In realtà, credo che le diatribe sulle esibizioni simboliche dell’Islam nella sfera pubblica illustrino come, molto spesso, i due fenomeni siano intimamente connessi. Direi che, molto spesso, gli attuali dibattiti sul ruolo della religione nella vita sociale e politica di tutto il mondo arabo vanno ricondotti alla rappresentazione e all’esibizione della religione nella sfera pubblica, e al modo in cui tali rappresentazioni sono costitutive della prassi politica e sociale quotidiana. Così, non si dovrebbe analizzare l’impatto dei nuovi media arabi guardando esclusivamente alla modalità in cui i dibattiti da essi ospitati abbiano o meno trasformato particolari istituzioni socio-politiche, ma anche rapportandoli al modo in cui la produzione e ricezione delle rappresentazioni simboliche nei nuovi media sono costitutive di soggettività e pratiche sociali concretamente espletate. Grazie.

Traduzione di Enrico Del Sero

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