Potere e paradosso della rivoluzione
Seyla Benhabib 13 October 2011

Dal punto di vista di quello che Immanuel Kant chiamava l’“entusiasmo” di fronte alla rivoluzione, esprimendo al contempo gioia e apprensione, proverò a situare le trasformazioni che stanno investendo il mondo arabo nel contesto dei più ampi conflitti verificatisi in Europa e Nord America e avanzerò considerazioni più filosofiche sulle rivoluzioni.

Le folle coraggiose nelle piazze dello Yemen, di Bengasi e della Tunisia hanno conquistato i nostri cuori e le nostre menti. Ai primi di marzo 2011 coloro che seguivano internet possono aver visto la foto di un manifestante egiziano con un cartello sul quale si leggeva “L’Egitto sostiene i lavoratori del Wisconsin. Un solo mondo, un unico dolore” e il popolo del Wisconsin rispose con un “Grazie, vi amiamo e ci congratuliamo per la vostra vittoria”. Naturalmente, vi sono delle forti differenze tra le proteste in Wisconsin e le rivoluzioni in Tunisia ed Egitto dal momento che si stanno battendo per diversi obiettivi: le prime stanno resistendo al crescente addomesticamento e all’umiliazione dei cittadini negli Stati Uniti, convertiti in “corpi docili” nell’accezione foucaultiana dalle devastazioni del capitalismo globale e finanziario americano che li ha afflitti negli ultimi venti anni.

I rivoluzionari arabi stanno combattendo per le libertà democratiche e per entrare a far parte del mondo contemporaneo dopo decadi di bugie, isolamento e inganno. Ma in entrambi i casi sono state suscitate delle speranze di trasformazione; gli ordinamenti politici ed economici si sono mostrati fragili e suscettibili di cambiamento. Anche di recente molti commentatori politici hanno detto che le opzioni politiche, non solo nel mondo arabo ma in generale in quello musulmano, con la Turchia come considerevole eccezione, sono limitate alle autocrazie corrotte, la cui autorità è ritornata o ai colpi di stato militari come in Egitto e in Libia o alle dinastie reali, come nel caso delle famiglie dinastiche in Arabia Saudita. In opposizione a queste autocrazie c’era il “fondamentalismo islamico”, una categoria generale che ha contribuito a oscurare tanto la storia quanto la politica di queste comunità. Penso che si tratti di una categoria di analisi estremamente inutile che dobbiamo sostituire con descrizioni politiche differenziate e più vicine alla realtà.

Ciò che nessun commentatore ha realmente previsto è stato l’emergere di un movimento di resistenza democratico e di massa, il quale è abbastanza moderno nel suo modo di concepire la politica. Così come in America i seguaci di Martin Luther King venivano istruiti nelle chiese nere degli Sud, il movimento di emancipazione araba ha guadagnato la sua forza dalla tradizione islamica della Shahada, che significa essere allo stesso tempo un martire e un testimone davanti a Dio.

Non c’è una necessaria incompatibilità tra la politica e la fede religiosa in questi movimenti e la loro aspirazione modernista. Perché sono moderni? Innanzitutto perché, con tutti i loro paradossi e confusioni, puntano alle riforme costituzionali e ai diritti umani, in secondo luogo perché vogliono sbarazzarsi del capitalismo corrotto di élite quali le famiglie di Mubarak, Ben Ali e Gheddafi. In Egitto c’è stata indignazione e delusione contro la privatizzazione delle risorse del Paese (petrolio, linee telefoniche) posta in essere da Mubarak e dalla sua famiglia.

Alcuni dei giovani di questi Paesi che si trovavano in prima linea nelle rivoluzioni sono stati essi stessi studenti e lavoratori in Europa, Australia, Canada, USA. I loro genitori e parenti possono essere stati lavoratori stranieri in questi Paesi così come nei ricchi Paesi del Golfo. Questi giovani hanno conosciuto molto bene ciò che si trova oltre i loro confini e si sono rivoltati per entrare a far parte del mondo contemporaneo. Molto è stato detto sui media transnazionali e i cosiddetti social media in queste rivoluzioni. Io credo che in realtà noi non sappiamo abbastanza sull’azione di organizzazione politica che sta dietro a queste trasformazioni.

In Egitto c’era anche un nucleo organizzato di militanti che veniva addestrato alle tattiche di disobbedienza civile, e almeno all’inizio delle manifestazioni sapeva come evitare la violenza. Un dettaglio empirico interessante che è stato portato alla mia attenzione da un saggio sociologico del mio collega di Yale Jeff Alexander è che in una popolazione di 80 milioni di persone c’erano apparentemente 20 milioni di computer. L’Egitto è un Paese incredibilmente “connesso” e ha anche ospitato la convention annuale di Wikipedia pochi anni fa. Il regime di Mubarak, malgrado sia arrivato al capolinea, ha fornito al Paese l’accesso ai media transnazionali. Questo discorso però non vale per la Tunisia.

Ho finora espresso entusiasmo per queste trasformazioni, ma ora vorrei esporre alcune apprensioni nei termini delle quattro ben note tipologie di riflessione sulla rivoluzione. Primo, sappiamo dalla critica della rivoluzione francese di Edmund Burke che presumibilmente ogni intervento violento nell’evoluzione provvidenziale della storia è suscettibile di produrre uno scatenamento di violenza e contro-violenza che i rivoluzionari stessi non riescono a controllare. Finora sia l’Egitto che la Tunisia hanno evitato questo destino – Libia, Yemen e Siria, invece, potrebbero seguire il paradigma burkiano.

Secondo, lo stesso Hegel, influenzato da ciò che vide avvenire nella Francia giacobina, ha formulato un’altra significativa critica delle logiche rivoluzionarie; in particolare nella mente di Hegel c’era l’esempio di Robespierre, la cui “repubblica della virtù” si trasformò in una “repubblica del terrore”.

Questa dinamica si scatena quando le forze sociali contendenti pretendono di parlare in nome della “volontà universale” del popolo che esse sole asseriscono di rappresentare, ma, sostiene Hegel, quando la polvere si posa sulla rivoluzione e un solo gruppo particolare emerge pretendendo di rappresentare la volontà generale, esso finisce con l’esprimere solo la particolare egemonia di quel gruppo e la sua visione e scatena terrore, esclusione e la marginalizzazione degli altri.

Una dinamica di questo tipo si sta dispiegando in Tunisia tra forze islamiche e secolari riguardante i ruoli della sharia e della legge e i diritti delle donne, il consumo di alcol negli spazi pubblici, etc. In Egitto le forze sociali della rivolta non hanno in realtà un loro partito; la forza egemonica è quella militare e la Fratellanza musulmana, che originariamente non era a capo della rivoluzione, sta conseguendo ora qualche successo elettorale. Il referendum sulla costituzione è stato precipitoso e le persone sono ancora nelle strade ma finora neanche l’Egitto è stato trasformato in una repubblica della virtù o del terrore.

Le ultime due tipologie derivano dalle teorie di Hannah Arendt: osservando i rivoluzionari in Tunisia, Egitto e in misura minore in Bahrain non si può evitare di richiamare l’espressione della Arendt che la tradizione rivoluzionaria è come una Fata Morgana nel deserto che appare sempre nella maniera più inaspettata. Non si può assolutamente predire quando verrà e ci sorprende sempre con la sua spontaneità. Questo spirito rivoluzionario è stato portato in vita con il simbolismo e l’attualità della pubblica piazza. Il popolo egiziano si è autorappresentato in piazza Tahrir; ha organizzato uno spazio libero, in opposizione tanto al presente regime quanto in anticipazione di quello che sarebbe venuto, con le persone coinvolte in grandi atti di generosità, nel procacciamento del cibo, nelle cure mediche, nello svago e anche nella pulizia della piazza stessa. Quale altro atto riesce a esprimere meglio la presa di possesso di uno spazio pubblico di questo semplice gesto di pulirlo come se fosse casa propria? Era chiaramente un momento totalmente arendtiano di potere comunicativo raggiunto per mezzo dell’autorganizzazione.

L’ultima tipologia, sempre nello spirito della Arendt, richiama alla mente alcune delle preoccupazioni di Hegel e Burke. Potrebbe essere chiamato il “Paradosso degli inizi rivoluzionari”. Il potere rivoluzionario che distrugge il vecchio ordine deve farlo in nome di un altro, più alto tipo di autorità. Ma da dove deriva questa autorità? In particolare le rivoluzioni moderne, da quelle francese e americana, non hanno fonti trascendenti di autorità ma vedono l’autorità fondata sulla volontà del popolo, e la esercitano in accordo con una visione secolarizzata della legge naturale. In tutte le rivoluzioni arabe, vediamo dispiegarsi questo paradosso dell’autorità rivoluzionaria; qualcuno vuole fare appello alla sharia come autorità trascendente oltre la politica, stabilendo perciò un elemento esterno alla politica per ottenere una sorta di legittimazione cosicché la rivoluzione possa stabilizzarsi. Altri vedono quella militare come un tipo di forza trascendente. Altri ancora, e non sappiamo se siano in maggioranza, stanno provando a stabilizzare la politica per mezzo di una nuova costituzione e nuove elezioni. L’ultima è la sola via politica per stabilizzare l’instabilità delle rivoluzioni, ma il processo è ancora ampiamente aperto.

Traduzione di Salvatore Corasaniti

 

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