“Ora l’opposizione è impotente, ma questo è solo l’inizio”
23 October 2007

Maureen Aung-Thwin, crede che la rivoluzione sia fallita?

Assolutamente no. Siamo soltanto all’inizio, il vero inizio.

Che cosa la induce a crederlo? È ottimista?

Sono sempre ottimista, svolgendo un lavoro come questo. Sono ottimista perché la Storia non va in direzione di dittature più repressive. Ed è impossibile, nel Ventunesimo secolo, isolare completamente un’intera popolazione dal resto del mondo. La Corea del Nord rappresenta un’eccezione, forse… Ma anche lì si sta iniziando a capire che c’è bisogno del mondo esterno. Quantomeno per il fabbisogno energetico, alimentare, e così via. La Birmania, però, non ha è mai stato un Paese chiuso come la Corea del Nord. Da sempre, al contrario, la popolazione è abituata a un’estrema apertura. Dopo la Seconda Guerra mondiale, la Birmania era considerata una delle prime “tigri asiatiche”, nonché l’unico Paese il grado di trainare lo sviluppo economico del sud-est del continente. Avevamo le migliori università. I giovani venivano a studiare a Rangoon da tutta la regione. In virtù di questo passato, e nonostante i 45 anni di regime militare, la popolazione non è mai stata totalmente isolata. Ma a essere diverso è anche il carattere dei birmani. Certo, nessuno negli ultimi venti anni si era ribellato e aveva deciso di marciare per le strade in modo tanto fragoroso. Questa è stata la prima, vera uscita allo scoperto. Ma è importante che siano stati i monaci a scendere nelle piazze e guidare le dimostrazioni.

La giunta militare è in grado di avviare riforme democratiche, o possiamo soltanto sperare nell’opposizione per qualche cambiamento?

In questo momento l’opposizione è sottoposta a un’enorme tensione. È stata messa al tappeto. Il regime birmano non era mai stato a tal punto repressivo. Le autorità hanno sostanzialmente imposto il coprifuoco notturno su tutte le città, le strade sono presidiate giorno e notte e chiunque può essere arrestato. Più o meno quello che avveniva nella Germania nazista. La situazione non è mai stata così drammatica. È per tali motivi che, in questo momento, l’opposizione non ha alcuna possibilità. Certo, se riuscissero a salire al potere, o almeno a condividerne la gestione, tenterebbero di introdurre riforme democratiche. E sono anche convinta che, tra i funzionari più giovani della giunta, più d’uno sia consapevole della necessità di un cambiamento. Ma nessuno osa muovere all’attacco del generale Than Shwe. Tutti hanno paura di schierarsi contro di lui in questo momento, anche se, tra le fila del regime, c’è chi è rimasto sdegnato dinanzi alla repressione dei monaci. Perché quasi tutti sono buddisti, in Birmania, e perpetrare una violenza del genere significa assicurarsi un posto all’inferno.

Lei è ottimista, dunque, pensando non ai mesi ma agli anni futuri.

Sì, non credo che la vicenda possa risolversi nel giro di qualche mese. Tutto dipende dai futuri passi della comunità internazionale, ma soprattutto di quegli organismi che, per così dire, prendono il regime birmano sul serio, ossia le Nazioni unite o l’Asean (l’Associazione delle nazioni dell’Asia sud-orientale). È qui che le autorità militari si sentono sottoposte a maggiori pressioni.

Cosa può dirci della giunta militare? Che tipo di regime è? Cosa pensano, cosa fanno?

È un regime molto ambiguo. La gran parte del mondo ne sa poco o nulla. Non si conoscono gli individui che ne fanno parte, né le loro famiglie. Ignoriamo anche i loro nomi. Ci è nota soltanto, in genere, l’identità di pochi dignitari. Nel nostro caso, il leader supremo è il personaggio–chiave in tutta la vicenda. Ma il regime non è guidato da una persona soltanto, né da uno sparuto drappello di militari. Sono almeno una trentina, gli alti funzionari del regime, sebbene quasi tutti esercitino poco o nessun potere. Essi fingono, dunque, di essere un collettivo; il che ostacola qualsiasi ribellione perché, in questo momento, i subalterni traggono i maggiori vantaggi in assoluto. I proventi del petrolio e del gas naturale fruttano alla Birmania circa 2,6 miliardi di dollari Usa all’anno. È una cifra enorme. Al contempo, però, si è reso necessario un aumento dei prezzi del carburante, dall’oggi all’indomani, perché i leader al potere non sono in grado di gestire l’economia del Paese. Un Paese ricco, ricchissimo; ma con una buona fetta di popolazione che soffre la fame, o appena sopravvive.

Ho letto di recente un articolo, apparso sulla rivista Foreign Affairs, in cui la Birmania viene dipinta come una seria minaccia alla sicurezza dei Paesi vicini. Si parlava dell’Hiv e, se non sbaglio, anche di…

…droga, traffici illeciti, profughi. Ma le malattie infettive costituiscono probabilmente una delle piaghe più dannose che si propagano dal Paese, assieme al traffico di esseri umani. Anche la droga rappresenta un enorme problema, che si assomma al virus dell’Hiv. Non mi riferisco soltanto all’eroina, ma anche alle meta-anfetamine, le cosiddette “pasticche”. Un problema che si è diffuso dalla Birmania sino ad affliggere la Thailandia, la quale oggi conta il record di tossicodipendenti. I militari sono in combutta, infatti, con alcuni produttori e “signori della droga”.

Perché la rivolta si è scatenata soltanto ora?

Quando il governo del proprio Paese si basa sulla paura, e si passa la gran parte del tempo a tentare di sopravvivere, è assai difficile che ci si domandi: “Accidenti, perché non ho potuto votare?”, o che si pensi: “Dannazione, non posso eleggere i parlamentari”. Gli studenti che agitarono la ribellione del 1988, recentemente tornati in libertà dopo tanti anni passati in prigione, hanno poco a poco ripreso a manifestare e dire la loro sulle questioni economiche. Il regime non si è opposto ai loro ordinati cortei di protesta. Le loro non erano folle straripanti in marcia, certo, ma hanno saputo catturare una notevole attenzione. E hanno persino raccolto 500 mila firme da inviare al Segretario generale delle Nazioni Unite. Hanno così dato vita a quella che, ai miei occhi, rappresenta una forma di protesta meno violenta e più sicura. Ma non appena i monaci si sono uniti alle dimostrazioni, tutti sono stati rinchiusi in prigione. Oramai sono dentro quasi tutti i leader della rivolta del 1988. Li stanno torturando. Il mio più grande timore è che molti di loro non ne usciranno vivi.

L’opposizione è unita? E ha un programma politico?

Sì, l’opposizione è unita. Lo è almeno contro il regime militare tuttora al potere. L’unione dell’opposizione si esprime a diversi livelli, dato che tra le sue fila compaiono deputati eletti, reduci dalle elezioni del 1990, leader etnici che attualmente onorano il cessate–il–fuoco e altri che proseguono ancora la lotta armata, dissidenti che vivono all’estero e attivisti ormai divenuti apolitici. Tutti, però, condividono alcuni ideali di fondo. In particolare, tutti desiderano porre fine al regime militare. E, purtroppo, in questo momento non possono fare alcunché.

Le sanzioni internazionali possono sortire qualche effetto?

Certamente. Non solo, a mio parere, possono sortire effetti positivi, ma occorre fare di tutto per mantenerle in vigore, poiché rappresentano la leva più efficace a nostra disposizione. C’è chi sostiene che, a meno che tutti i Paesi del mondo non sanzionino la Birmania, ogni tentativo sarà vano. Tutto dipende, però, da chi impone le sanzioni. Si sente dire: “L’America non è che un Paese”. In realtà, soltanto le sanzioni dell’America possono realmente danneggiare la Birmania. Gli Stati Uniti rappresentano anche un mercato strategico per i Paesi in via di sviluppo, e un attore internazionale di primo piano. Diversi Paesi tengono a non indispettire l’America, e potrebbero dunque associarsi ad alcune sue iniziative. Gli Usa giocano in tutta questa vicenda un ruolo ben più importante, per dire, di Tahiti.

Cosa può insegnarci tutto ciò riguardo alla Cina?

Che va monitorata molto attentamente, e che occorre mettere in discussione il suo presunto atteggiamento “neutrale” e la tattica che esso nasconde. Dicono i leader di Pechino: “Non interferiamo nelle questioni private degli altri Paesi”, sebbene la Cina abbia fatto l’esatto contrario, ieri in Africa e oggi in Birmania. I cinesi stanno acquistando tutte le risorse naturali, e oggi il regime repressivo dipende dal loro portafogli. La Cina è un Paese estremamente potente, ecco quel che abbiamo appreso. E perché un regime o una dittatura che può ricevere da quest’ultimo sovvenzioni per milioni di dollari dovrebbe rivolgersi alla Banca Mondiale, e piegarsi alle sue rigorose condizioni di prestito? Ma dalla Cina abbiamo appreso anche un’altra lezione. Il Paese si accinge a diventare una superpotenza, e ha particolarmente a cuore anche l’immagine e la fiducia che ispira nel mondo. Soprattutto in ragione delle Olimpiadi che si terranno a Pechino il prossimo agosto. I cinesi sono perfettamente consapevoli della posta in gioco, e tremano all’idea che il loro debutto sulla scena internazionale possa essere guastato da cattive relazioni pubbliche e cortei di protesta. Ebbene, la Birmania sarà uno dei loro grattacapi. Le Olimpiadi verranno inaugurate, infatti, l’8 agosto 2008, a venti anni esatti di distanza dalla storica ribellione birmana.

I negoziati a sei possono essere di qualche utilità, come nel caso della Corea del Nord?

Certamente sì. Se, con esemplare abilità, la Cina ha potuto raggiungere quell’accordo, dovrebbe almeno tentare qualcosa di simile con la Birmania. La Cina vede un alleato automatico nella Corea del Nord e, a mio parere, un alleato informale nella Birmania. Quest’ultima è a tutti gli effetti suo Stato–cliente, su cui esercita un’enorme influenza. Ebbene, in questo momento la Cina ha un grosso incentivo, perché se contribuirà ad avviare la trasformazione della Birmania, le sue Olimpiadi potranno svolgersi senza intoppi.

E l’Europa, che ruolo può giocare?

L’Europa può giocare un ruolo enorme. La Birmania fa parte dell’Asean. E in sostanza, da quando è divenuta membro di questa organizzazione, nel 1997, ha tenuto l’intero gruppo regionale (che osserva il principio dell’unanimità) a mo’ di ostaggio. In ogni singolo vertice, infatti, compreso il summit con i maggiori partner commerciali nell’Unione europea, l’ordine del giorno è puntualmente offuscato dalla questione birmana. Diversi Paesi europei disertano questi incontri se sanno che anche la Birmania è presente, né invitano tutti i Paesi asiatici se quest’ultima insiste nel voler partecipare. Il regime è un po’ una palla al piede per tutti quanti, come vede. Più gli europei si dimostreranno forti e compatti, dunque, meglio sarà (dopo la recente sollevazione, per inciso, l’Europa appare improvvisamente più forte e consapevole della gravità della situazione e della necessità di imporre sanzioni più mirate). In passato, gli europei hanno varato provvedimenti assai deboli, quasi insignificanti. Oggi, invece, per la prima volta Francia e Germania parlano seriamente di sanzioni. Soprattutto la Francia, con Sarkozy che ventila il ritiro della Total dalla Birmania. Una minaccia durata meno di un giorno, certo. Ma almeno qualcuno ha iniziato ad alzare la voce.

Traduzione di Enrico Del Sero

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