Vi sono forse due casi in cui i “numeri” descrivono le situazioni più di quanto non riescano le parole: l’uno è riferibile alle questioni di “denaro”, quando si vuole evidenziarne l’“eccesso” e il “difetto”; l’altro è quello riferibile a situazioni di guerre e di conflitti armati, dove il numero dei morti diviene l’indicatore più incisivo. E, per ironia della sorte, fra business della guerra (dunque denaro), numero di morti, e interventi post-bellici (dunque ancora denaro accompagnato questa volta da azioni umanitarie), viene a crearsi un loop. Se infatti è vero quanto riportato nel preambolo della Costituzione dell’Unesco («Poiché le guerre iniziano nelle menti degli uomini è nelle menti degli uomini che le difese della pace devono essere costruite»), è vero anche che il business della guerra, o meglio la sete di denaro che ad esso sottende, gioca un ruolo potentissimo nel forgiare le umane menti.
Nell’ultimo decennio, i conflitti di natura etnica, religiosa, politica e più prettamente “economica” – per il possesso di risorse naturali e territoriali – hanno visto una escalation di dimensione globale. La storia recente dimostra inoltre chiaramente che i conflitti armati che si generano in una determinata parte del mondo non rimangono confinati ad essa, ma tendono a ripercuotersi sul resto del mondo, tendono a propagarsi attraverso modalità che potremmo definire proprie della “globalizzazione economica”. Studi condotti dimostrano inoltre che, effettivamente, la “guerra genera guerra” e soprattutto che i paesi in cui il conflitto si protrae per lungo tempo cadono in quella che viene chiamata la “trappola del conflitto”, un circolo vizioso che consiste nel creare condizioni che di fatto conducono al perpetuarsi della guerra su quel territorio. Si consideri che almeno il 73% del miliardo di persone appartenenti alle popolazioni più povere abitano o hanno abitato in paesi e territori segnati dalla “trappola del conflitto”.
Iniziamo dunque a dare qualche numero, tenendo ben presente che i “numeri” delle guerre sono in divenire e comunque imprecisi; tuttavia, ci avvarremo di quanto diceva Keynes: «Meglio indicare cifre vagamente esatte che offrire stime precise totalmente errate». Secondo il Rapporto Sipri 2010 (Stockholm International Peace Research Institute), nel 2009 i maggiori conflitti in corso erano pari a 17, così dislocati: 3 in Medio Oriente, 7 in Asia, 4 in Africa, e 2 in America Centrale e 1 negli Usa (il Sipri include nell’elenco la guerra condotta dagli Stati Uniti al di fuori del proprio territorio, in Afghanistan). E, sempre secondo questi dati, nonostante la crisi finanziaria internazionale, la spesa militare mondiale ha raggiunto nel 2009 i 1.234 miliardi di euro, mostrando una crescita, in termini reali, del 6% rispetto al 2008 e del 49% rispetto al 2000. La spesa militare assorbe ben il 2,7% del Pil mondiale: l’Italia si colloca al decimo posto con circa 30 miliardi di Euro all’anno e al sesto come spesa pro-capite. Nell’insieme, i primi dieci Stati raggiungono il 75% della cifra complessiva. Al primo posto vi sono gli Stati Uniti con una spesa che ammonta al 43% del totale, poi la Cina (82 miliardi di euro), Francia (52,3), Gran Bretagna (47,7), Russia (43,6) e Giappone (41,7). E ancora: Germania (37,3), Arabia Saudita (33,8) e India (29,7).
E il numero di morti? Secondo diverse fonti, tra cui PeaceReporter, a partire dall’inizio dei diversi conflitti al 2009, i numeri, ne citiamo alcuni, sono i seguenti: in Somalia dal 2001 vi sono stati circa mezzo milione di morti, calcolando anche le vittime per carestia e malattie generate dal conflitto; in Sudan, dal 2003 il bilancio è di 300.000 morti. In Congo, dove il conflitto è durato dal 1997 al 2002 vi sono stati oltre 3,5 milioni di morti (circa 500 mila uccisi nei combattimenti, circa 3 milioni morti per le carestie provocate dalla guerra). Vi sono poi i conflitti che non tutti riconoscono come tali: è il caso della guerra in Cecenia con circa 250.000 ceceni uccisi dal 1994 ad oggi, vale a dire un quarto della popolazione originaria della repubblica caucasica.
Le risorse finanziarie impiegate per intraprendere guerre e conflitti armati non sono tra l’altro nemmeno comparabili con l’ammontare necessario per ripristinare situazioni di normalità una volta finita la guerra. Tanto per citare ancora qualche dato, questa volta certo poiché verificato, sempre secondo lo “Stockholm International Peace Research Institute”, nel 2006, il contributo delle Nazioni Unite a programmi di sviluppo economico, sociale ed umanitario nei Paesi più poveri del mondo, attraverso le e Agenzie, ammonta a 10,5 miliardi di dollari, quando, nel 2005, la spesa militare a livello mondiale ha raggiunto la cifra di 1,1 miliardi di dollari. Eppure il ruolo delle Nazioni Unite è quanto mai essenziale e necessario sebbene risulti evidente la necessità di una ridefinizione della struttura e dei meccanismi di funzionamento di questo organismo, inclusa la ridefinizione dei rapporti con le altre istituzioni internazionali e in particolare con gli Stati membri, per quanto concerne i contributi finanziari. Le Nazioni Unite, in seguito alla mancata contribuzione degli Stati Membri – un gran numero di Paesi non ha mantenuto l’ impegno di destinare lo 0,7% del PIL alle Nazioni Unite per lo sviluppo internazionale e l’aiuto umanitario – sono costrette a cercare fonti di finanziamento alternative.
“L’elefante nella stanza” è una espressione idiomatica inglese per indicare una verità evidente che viene ignorata o di cui si fa finta di non accorgersi. Nel 2000 le Nazioni Unite decisero di affrontare le sfide per lo sviluppo più urgenti e di fissare una serie di obiettivi da raggiungere entro il 2015 (Obiettivi di Sviluppo del Millennio), fra i quali sradicare la fame e la povertà, assicurare un grado di istruzione elementare universale, arrestare la diffusione di malattie quali l’Hiv/Aids ed altre malattie. Anche se sono stati compiuti dei progressi, appare oggi evidente che questi obiettivi non verranno raggiunti o per lo meno non nel periodo che era stato stabilito, in gran parte a causa della mancanze di risorse economiche. Sono stati compiuti sforzi, tenute conferenze, costituite organizzazioni e sottoscritti documenti di indirizzo, con, insieme alla diffusione della conoscenza, l’obiettivo di individuare fonti innovative per finanziare lo sviluppo. Ma forse vi è una voce nel bilancio, quella che assorbe il 2,7% del PIL mondiale, che andrebbe rivista e reindirizzata e che potrebbe costituire un’ingente risorsa finanziaria: quell’elefante nella stanza che oggi è la “spesa militare”.
Economista – Esperto in Strategie Internazionali e U.E.