Questo testo è la prefazione del libro di Giancarlo Bosetti “Cattiva Maestra. La rabbia di Oriana Fallaci e suo contagio”, pubblicato da Marsilio nel novembre del 2005.
In questa storia c’è un prima e un dopo 11 settembre 2001. Prima, il genere che ha dato il successo mondiale a Oriana Fallaci è stato quello del new journalism, lo stesso di Tom Wolfe, Truman Capote, Norman Mailer. L’hanno definito anche giornalismo «soggettivo». E la Signora – che chiamerò così, come nei suoi libri mostra di gradire – lo interpreta in modo molto originale, spinge l’uso della prima persona fino a una piena identificazione dei lettori con l’autrice, offrendo loro la propria intimità, nella gioia e nel dolore. Il suo virtuosismo le ha aperto le porte della popolarità, come di solito accade solo con la televisione e per pochi rarissimi casi di giornalisti e scrittori amati da milioni di persone. Andiamo a rileggere le sue corrispondenze dal Vietnam nel 1968, in cui un ragazzo americano racconta la morte del suo amico Bob «tagliato in mezzo» da una esplosione accanto a lui e le confida la sua felicità e insieme vergogna per essere sopravvissuto. Oppure la descrizione del volto di un vietcong morto. Da quel volto la abilissima sceneggiatura del pezzo fa passare la storia di un popolo che non conosceva la pace. O ancora, durante la guerra del Golfo del 1991, il celebre reportage sul rifornimento in volo dei Phantom americani. Il lettore era lì con lei, in quella scomoda posizione, su un aereo da rifornimento con la «proboscide» fuori, e di là dal vetro un pilota sconosciuto ti guardava negli occhi e ti chiedeva «Chi sei? Che vuoi?». Sono stati incontri memorabili – per tanti, per tantissimi lettori – con una scrittura che ha la virtù essenziale di sedurre e trattenere.
Come ha commentato un esperto giornalista, capace di ironia sul mestiere e sui suoi colleghi: se non si ha questa dote è del tutto inutile lamentarsi del fatto che qualcuno ce l’abbia come se fosse un’ingiustizia, così come è inutile recriminare se i diari di guerra di un nostro avo in Crimea hanno avuto meno fortuna dei diari di Tolstoj. Sempre Crimea era, ma diverso l’autore. Chiamiamolo «fattore Crimea-Tolstoj». Sulle virtù letterarie della Signora si continuerà a discutere ed il campo è libero per tutti, qualunque cosa ne pensino, invidiosi e non, critici letterari, storici dell’editoria, ammiratori. Ma questo sarebbe propriamente un tema che non mi riguarda. Se mi riguarda, è perché c’è invece un «dopo 11 settembre». Dopo quell’evento la Signora ha abbandonato i suoi precedenti progetti letterari, il suo romanzo, il suo «bambino», per dedicarsi con l’anima e con il corpo a una personale campagna contro il terrorismo, che è di fatto fondamentalmente una dichiarazione di guerra contro i musulmani in quanto tali, contro l’Islam in quanto tale, contro una religione in quanto tale. Contro il Nemico, il Drago, il Mostro.
Ha aperto questa campagna con il suo capitale di popolarità e con tutte le sue virtù di scrittrice in una impresa che io ritengo triste, insolente e complice della pigrizia mentale, che sempre alimenta gli stereotipi. I suoi libri, i suoi articoli, le sue interviste di questi anni contengono una miscela di ingredienti che corrisponde approssimativamente alla lista completa delle astrattezze e degli errori che andrebbero evitati se si vuole davvero sconfiggere il terrorismo jihadista, se lo si vuole indebolire, se si vogliono isolare quelle canaglie che lo alimentano. Si tratta degli stessi errori che possono produrre il risultato opposto, nuovi conflitti più gravi ed estesi, nuova violenza: quel genere di catastrofi che appartengono alla categoria delle profezie che si autoavverano. Se sarò riuscito a spiegare a qualcuno come e perché nei rapporti tra religioni, culture, razze sia facoltà di noi esseri umani far in modo che le previsioni più nefaste si realizzino e come e perché sia anche nostra facoltà impedirlo, proverò la gioia di sentirmi utile.
Non sono d’accordo con molti commentatori i quali hanno sostenuto che non serva discutere le tesi della Signora, perché si tratta di stati d’animo e non di veri argomenti. Non sono d’accordo perché la rabbia e l’orgoglio sono cattivi consiglieri, suggeriscono cattivi argomenti, non sono senza conseguenze. Molto spesso individuano e colpiscono bersagli sbagliati, allargano i conflitti, ne aprono di nuovi, spengono il senso della moderazione che quasi sempre è fattore decisivo per trovare soluzioni nei casi difficili. La rabbia e l’orgoglio spingono, prima ancora che a errori pratici, a errori della conoscenza, a confusioni cognitive, ti mostrano un Nemico anche quando c’è soltanto una tremenda difficoltà. Ti fanno attribuire al Nemico, che spesso c’è, complici e alleati che non ci sono. I libri della Trilogia sono espressione autentica di una forma di pensiero «negativo», di un modo di ragionare che riesce a inquadrare un problema solo nella cornice di un contrasto, di una polarizzazione forte, esasperata, che non lascia scampo, o con noi o con loro: qualunque idea, obiezione, fatto può portare «acque al mulino» o di qua o di là, e «a chi giova?» e «a chi nuoce?». È una forma di relativismo assoluto, onnivoro, che riporta tutto al conflitto e in funzione del conflitto. Bisognerà allora negare l’evidenza, che i numeri arabi sono arabi e che Aristotele arriva ai cristiani attraverso le traduzioni arabe.
Questo morbo è in realtà una vecchia conoscenza, che chiamavamo Ideologia e che festeggia il suo ritorno in grande stile, sotto le vesti dell’Identità. Dunque i libri della Signora non sono un fenomeno isolato e il loro successo segnala non solo il perdurante «effetto Crimea-Tolstoj» (beato chi ce l’ha), ma anche una forma epidemica. La polarizzazione amico-nemico è l’essenza specifica della politica secondo Carl Schmitt, ma si tratta per l’appunto di un’idea affacciatasi in tempi (1927) di forte e disastroso conflitto ideologico. Suggerisco di continuare a pensare che la politica abbia nella sua essenza specifica anche il compito di risolvere problemi. E di guardare perciò all’aumento di intensità dei contrasti politici, morali, di identità, in Italia, in Europa, in America, ovunque, come a un contagio che andrebbe tenuto sotto controllo, come a una infiammazione da raffreddare con impacchi di ghiaccio. E coltivando la conoscenza appropriata dei fatti. Il pensare-per-nemici – così lo voglio chiamare ¬– può lasciare del tutto indifferente chi ne sia fuori, può far ridere chi non sia dentro il cerchio di quella che Pascal chiamava Illusio, così come chi non è innamorato trova eccessivi, scriteriati o ridicoli i comportamenti di chi è travolto da una vicenda d’amore. Li trova eccessivi solo chi ne è «fuori», perché chi vi è «dentro» ne percepisce la realtà nei minimi dettagli e ne vive tutta la insuperabile evidenza. Lo stesso vale anche per una vicenda maligna di odio e rancore. Lo sprofondare nel sentimento di odio ha molte somiglianze con lo sprofondare nel sentimento di amore, cambia la interpretazione del mondo. Quando si ha in testa un Nemico tanto forte da meritare la maiuscola, sembra che quasi tutto (il male) si possa spiegare a partire da lui.
Non ho voluto concedere terreno né alla indifferenza né a un pensiero «negativo» opposto. Nel leggere i libri della Signora dedicati al Nemico ho tentato un esercizio di simpatia, una simpatia, diciamo così, metodologica; ho cercato per quanto potevo di entrare nel suo stato d’animo, nella sua Illusio, e soprattutto in quello dei suoi lettori. Non volevo solo mettere a verbale il mio no all’«orianismo», aggiungendolo al no di tanti altri. Volevo capire meglio l’aria di famiglia che esso ha con uno dei problemi maggiori e più insidiosi del nostro tempo.