Una risposta legittima, ma che spaventa per la sua violenza e che è destinata ad allontanare ancora di più il sogno della pace in Medio Oriente. Così la grande stampa indipendente anglosassone ha osservato l’evoluzione dell’attacco militare con cui il governo israeliano ha reagito alla rottura della tregua da parte del movimento palestinese Hamas, che dopo sei mesi ha ricominciato a lanciare razzi verso il sud di Israele. E’ stata concorde, ad esempio, l’analisi di New York Times, Washington Post, The Economist e Financial Times. “Il problema è che probabilmente Israele non può far smettere i lanci di razzi solo tramite mezzi militari”, ha scritto il Washington Post il 4 gennaio, e il suo punto di vista riecheggiava quello del New York Times, che il 30 dicembre aveva riassunto così la sua situazione: “Israele deve difendersi, e Hamas porta la responsabilità per aver interrotto la tregua. Eppure temiamo che la risposta di Israele probabilmente non riuscirà a indebolire sostanzialmente il gruppo militante palestinese, o ad avvicinare ciò di cui hanno bisogno tutti gli israeliani e tutti i palestinesi: un accordo di pace durevole e la soluzione dei due Stati”.
Le colpe dell’attuale situazione non appartengono solo al cinismo e alla testardaggine di Hamas – osservava il Nyt – ma anche all’atteggiamento di Israele, che “non ha mai mantenuto il suo impegno ad alleggerire il suo embargo punitivo su Gaza”. E se il governo Olmert “ha fallito nel fermare le colonie e nel non fornire al presidente palestinese Mahmoud Abbas il sostegno di cui aveva bisogno”, per il New York Times “nessuno, nemmeno l’amministrazione Bush, ha fatto uno sforzo serio” per estendere il cessate il fuoco. Quel giorno il quotidiano newyorkese giudicava un attacco via terra, o una qualsiasi azione militare prolungata, “disastrosa per Israele”, perché avrebbe portato a una ancora maggiore “instabilità regionale”. Identica la posizione del Financial Times, che il 4 gennaio ha definito “un pericoloso azzardo” l’invasione via terra, e “sproporzionato” l’attacco in generale. The Economist ha ammesso che “Israele è stata provocata”, ma ha anche segnalato che, “come in Libano nel 2006, potrebbe risultarle difficile mettere fine a questa guerra, e anche giustificarla”: “Israele non dovrebbe essere sorpresa dal torrente di indignazione che ha provocato in tutto il mondo – ha commentato il settimanale britannico – Non solo perché è raro che la gente parteggi per gli F-16. In generale, una guerra deve passare tre test per essere giustificata. Un paese deve prima aver esaurito tutti gli altri mezzi di autodifesa. L’attacco dovrebbe essere proporzionato all’obiettivo. E deve avere una possibilità ragionevole di raggiungere il suo obiettivo”. “In tutti e tre questi test, Israele si ritrova su un terreno più sdrucciolevole di quanto voglia ammettere”, ha aggiunto The Economist, non risolvendo l’interrogativo: qual è stato esattamente l’obiettivo di Israele? Fermare i missili, dare una lezione a Hamas, o distruggere Hamas?
Gli ultimi fuochi dell’unilateralismo e il ruolo dell’Iran
La sproporzionalità dell’attacco è riecheggiata anche in un editoriale del 6 gennaio del francese Le Monde, che commentando la strategia israeliana ha pronunciato quella parola che ha segnato gli anni di George W. Bush e che, con la vittoria di Barack Obama alle presidenziali americane, si credeva ormai nel cestino delle relazioni internazionali: unilateralismo. Non è invece un attacco né sproporzionato né inutile per quei commentatori che, in questi anni, hanno sempre sposato senza remore la parte israeliana. Come il filosofo francese André Glucksmann, che in un articolo apparso sul quotidiano francese Le Monde ha criticato “l’ipocrisia della sproporzione” (“Ogni conflitto, che covi sotto la cenere o in piena eruzione, è per sua natura ‘sproporzionato’. Se i contendenti si mettessero d’accordo sull’impiego dei loro mezzi e sugli scopi rivendicati, non sarebbero più avversari. Non è un’idea ‘spropositata’ voler assicurare la propria sopravvivenza”). Solidarietà al governo israeliano è arrivata anche, sul New York Times, dal neoconservatore William Kristol, direttore di The Weekly Standard, che il 5 gennaio, come molti commentatori di destra, ha letto il conflitto soprattutto in termini di politica estera. Tralasciando le implicazioni palestinesi del conflitto (le ragioni della popolarità di Hamas, e il ruolo della politica israeliana nella vittoria elettorale del movimento radicale), Kristol si è concentrato soprattutto sull’equazione Hamas = Iran: “Una disfatta di Hamas a Gaza sarebbe una vera sconfitta anche per l’Iran, e potrebbe anche influenzare positivamente le elezioni iraniane di giugno. La volontà di Israele di combattere aumenta le possibilità che possano non farlo gli Stati Uniti”.
Le parole di Tariq Ramadan
Completamente opposta la visione del filosofo musulmano europeo Tariq Ramadan, che intervenendo sul quotidiano italiano Il Riformista ha dato vita, il 2 gennaio, ad un interessante botta e risposta con il direttore del giornale in questione, Antonio Polito. Ramadan ha criticato “la sproporzionalità della ‘reazione israeliana’”, ha parlato dei “genocidi di Gaza”, e ha attaccato duramente la politica dello stato israeliano: “Sono ormai decenni, da ben prima della conquista del potere da parte di Hamas, che la dignità dei palestinesi viene calpestata ed i loro diritti legittimi negati. I rappresentanti palestinesi non hanno ottenuto nulla per il loro popolo. I governi israeliani, di destra e sinistra, prendono tempo, mentono, giustiziano sommariamente gli oppositori, non danno pressoché alcun peso alle morti di civili palestinesi (nient’altro che danni collaterali alla sicurezza di Israele) e continuano ad autorizzare gli insediamenti di coloni, spingendo sempre più in là la politica del ‘fatto compiuto’. Un gran numero di esperti, fra cui il relatore speciale delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Richard Falk, affermano che la politica israeliana non rispetta le convenzioni di Ginevra e che, di fatto, sta rendendo impossibile la soluzione dei due Stati. Il governo israeliano ha deciso di costruire un muro che imprigiona la popolazione della Cisgiordania (facendosi beffa delle decisioni dell’Assemblea delle Nazioni Unite), obbligando inoltre gli abitanti di Gaza a dover sopportare un assedio e un embargo che hanno dato origine a una situazione di fame, mancanza di medicinali e cure mediche, disoccupazione di massa e condizioni di vita quotidiana miserabili e senza speranze”.
Polito ha replicato rimproverando a Ramadan di non aver mai citato Hamas nel suo articolo, gli ha ricordato che “la Striscia non è oggi sotto il tallone dell’occupazione israeliana, come vorrebbe farci credere”, e ha definito il suo articolo “carico di odio”: “Per lui la politica di volta in volta seguita dai diversi governi che si sono succeduti in Israele è ‘Israele’. Che abbiano firmato accordi di pace o che si siano affidati alla guerra, come pure è accaduto in questi tormentati sessant’anni, i governi israeliani sono tutti uguali. Rabin o Netaniahu, per lui pari sono. E sono pari perché appartengono alla medesima entità sionista. Ciò che è inumano e barbaro è dunque il sionismo in sé. Ramadan fa un discorso antisionista, che a ogni curva logica rischia di slittare in razzismo antisemita. L’unico freno che potrebbe evitargli questa deriva sarebbe un esplicito e formale riconoscimento del diritto all’esistenza e alla sicurezza di Israele. Questo elemento, nel discorso di Ramadan non c’è”.
I dubbi di Michael Walzer
Meno certezze, rispetto a quelle di Glucksmann e Ramadan, sono affiorate nei ragionamenti del filosofo americano Michael Walzer, che, intervistato il 30 dicembre da Il Corriere della Sera, ha definito Hamas “una forza terrorista” legata all’Iran, un movimento che “non provvede ai palestinesi, non dà loro speranza, crea anzi scontento, eppure rimane al potere come ci è rimasto l’Hezbollah”, ma dall’altra parte ha ammesso di non capire la strategia israeliana: “Che cosa succederebbe se arrivasse a fare mille morti palestinesi, e Hamas continuasse a lanciare i missili? Forse, anziché qualche giorno di devastazione, era meglio un ricorso graduale alla forza sorretto da costanti inviti a cessare il fuoco”. “Per risolvere la questione israelo-palestinese – ha concluso l’autore di Just and Un just Wars – ci vuole il contributo della Siria e dell’Iran”.
Vicini per sempre
E ora? Tutti guardano al presidente eletto americano Barack Obama, nella speranza che tiri fuori il coniglio dal cilindro. Non sarà per nulla facile, però. Finita la guerra, comunque vada, prima o poi Israele dovrà sedersi a un tavolo con il nemico, anche perché – come ha ricordato The Economist – “i palestinesi che sta bombardando oggi saranno per sempre i suoi vicini”. Ha scritto Adriano Sofri, intellettuale italiano, su La Repubblica: “I bambini e i ragazzi di Gaza che sopravviveranno ai bombardamenti non avranno un futuro ragionevole e gandhiano. I carri armati dovranno decidere che cosa fare quando si troveranno davanti una folla di bambini. Poi, comunque vada, dovranno chiedersi ancora una volta come tornare indietro”.