“La Democrazia è un ideale della vita umana come la libertà e il diritto. Ora per ottenerli dobbiamo sacrificare le nostre giovani vite. Lo sciopero della fame è la scelta di chi non ha scelta. Stiamo combattendo per la vita con il coraggio di morire. Caro padre, cara madre, non siate tristi, che non vi si spezzi il cuore mentre diciamo addio alla vita. Abbiamo una sola speranza, che questo permetta a tutti di vivere in modo migliore. Abbiamo una sola preghiera: non dimenticate che non è assolutamente la morte quello per cui stiamo lottando. La democrazia non è un affare che riguarda poche persone. La battaglia democratica non può essere vinta da una sola generazione…". Così recita uno stralcio del Manifesto degli studenti di Piazza Tienanmen.
A vent’anni di distanza dal massacro, avvenuto nella notte fra il 3 e il 4 giugno di quel 1989, ora che il Regno di Mezzo è diventato un gigante economico, temuto e al tempo stesso guardato con ammirazione da oriente e occidente, si sente spesso fra i leader politici la frase: "Su Tienanmen è tempo di voltare pagina". E i primi a tentare di voltare pagina sono stati i leader cinesi. Sebbene la transizione della Repubblica Popolare Cinese da un’economia pianificata alla cosiddetta “economia socialista di mercato” abbia avuto inizio alla fine del 1978, con la demaoizzazione che ridisegnò progressivamente la traiettoria di sviluppo precedentemente adottata – basandosi su elementi di apertura verso l’estero e crescente internazionalizzazione, valorizzazione delle specificità geografiche e socio-culturali regionali e progressiva liberalizzazione economica, benché non accompagnata da aperture rilevanti in ambito politico – è dopo Tienanmen che si realizza una potente accelerazione delle riforme economiche.
Deng Xiaoping, proclamando che "essere ricchi è glorioso", ha tentato di adoperare il desiderio di ricchezza e il consumismo come "oppio del popolo" cinese. Molte volte negli anni successivi a quel 1989 lui stesso, poi Jiang Zemin e Hu Jintao, hanno spiegato che il benessere degli anni recenti è giunto "grazie" all’opera del Partito che ha fermato la rivolta sociale dei "controrivoluzionari" al suo nascere. Il massacro è stato "il male minore" per "l’enorme bene" seguito. Di certo, il percorso di crescita economica verificatosi in Cina ripropone il quesito: “Il successo economico necessita della democrazia?”. Si tratta di una domanda cruciale che ricorda la nota disputa che vide protagonisti in Italia, tra gli altri, Luigi Einaudi e Benedetto Croce su liberismo e liberalismo. La storia del pensiero politico è ricca di argomenti a favore e contro il nesso tra libertà politica (stato di diritto) e libertà economica (mercato).
In realtà, il teorema che ha dominato la filosofia politica degli ultimi vent’anni del XX secolo è stato ispirata dalla prospettiva che, sebbene tra democrazia e libertà economica non ci fosse un legame logico, l’esperienza storica mostrava che paesi politicamente repressi, alla lunga, qualora avessero ampliato i margini della libertà sul fronte economico, sarebbero stati costretti ad allargare le maglie della repressione politica fino ad esplodere o a collassare, in forza della spinta interna proveniente dall’inedita presenza di una classe borghese, imprenditoriale, capitalista. Tale teorema sembra però essere messo in discussione proprio da casi come quello cinese, dove ad uno sviluppo economico senza precedenti non si è accompagnato un altrettanto importante sviluppo democratico.
I numeri che descrivono la Cina sono davvero impressionanti: una popolazione di 1,2 miliardi di persone e una crescita media del PIL, negli ultimi dieci anni, pari al 10%, con un massimo storico toccato nel 2007 dell’11,8%. Nessun paese al mondo e in primis l’Unione Europea, nano politico ma gigante economico, poteva rimanere indifferente di fronte a quei numeri. Dopo aver adottato una serie di misure restrittive, tra cui l’embargo alla vendita di armi alla Cina a seguito dei raccapriccianti fatti di Piazza Tienanmen, l’UE, al centro dei processi di globalizzazione e in piena fase di allargamento ricomincia, pian piano a dialogare con l’impero cinese, sebbene si tratti per lo più di dialogo economico. E a quanto pare, il dialogo ha prodotto risultati importanti.
La Cina è oggi il mercato che cresce più rapidamente al mondo in termini di importazioni dall’UE: nel 2008, le esportazioni commerciali europee verso la Cina sono state pari a quasi 78,4 miliardi di euro, realizzando un incremento del 9% rispetto all’anno precedente e, se consideriamo il periodo 2004-2008, l’incremento complessivo è stato del 65%. Negli ultimi cinque anni, le importazioni cinesi verso l’UE sono cresciute mediamente del 18% all’anno e una leggera flessione si è registrata solo nel 2008, a causa della crisi economica mondiale. Nel 2008 le importazioni di beni dalla Cina ha raggiunto i 248 miliardi di euro. Sono numeri che fanno riflettere, soprattutto in virtù del fatto che, fino a vent’anni fa gli scambi commerciali fra Europa e Cina, erano praticamente nulli.
Il 30 gennaio scorso il Premier cinese Wen Jiabao in visita ufficiale presso l’UE ha incontrato il Presidente Barroso: i leader hanno affermato il loro impegno reciproco a sviluppare ulteriormente la partnership UE–Cina in tutti i settori strategici e ad approfondire il dialogo per una migliore comprensione reciproca basata sui principi di eguaglianza e rispetto reciproco e in grado di condurre ad una appropriata gestione delle differenze. Sviluppo economico non significa sviluppo democratico e sviluppo sociale, così come il dialogo economico non è dialogo interculturale. Tuttavia l’apertura cinese, anche se principalmente dettata dall’interesse economico, è comunque un’“apertura” che, inevitabilmente, travalica la sfera meramente economica e tocca quella culturale, sociale, perché dà la possibilità agli individui di rapportarsi, anche se in maniera limitata, con altre realtà, con altre culture, di conoscere e quindi di contaminarsi. La contaminazione dunque come via di accesso verso la libertà.
L’autrice è Economista – Esperto in Strategie Internazionali e U.E.