“Sono soltanto quattordici chilometri – scherza il mio amico marocchino Rachid -, invece di vedere la luce dall’altra parte, nella bella Europa, sono nato a Tangeri, la porta dell’Africa!”. La frustrazione o la delusione di Rachid non è individuale, è un sentimento condiviso da milioni di arabi, soprattutto quelli residenti nella riva sud del Mediterraneo. Oggi esiste una vera depressione collettiva: tutti vogliono partire a loro rischio e pericolo, consapevoli di poter lasciare la pelle nel ‘Mare Nostrum’.
Se raggiungere la fortezza Europa è pieno di ostacoli, anche spostarsi da un paese arabo all’altro non è facile. Molto spesso si richiede il visto di ingresso, mettendo nel conto anche controlli severissimi e a volte trattamenti umilianti. Forse il caso più grottesco e drammatico è quello delle famiglie che vivono nelle zone di frontiera. Fra l’Algeria e il Marocco, ad esempio, le frontiere sono chiuse dall’inizio degli anni Novanta. Un cittadino marocchino o algerino di Ouajda o di Maghnia, per visitare un parente che abita dall’altra parte ma a distanza di qualche metro, è costretto a raggiungere gli aeroporti internazionali di Casablanca o di Algeri, e poi prendere altri mezzi di trasporti per arrivare a destinazione. È un viaggio costoso e assurdo.
Non posso nascondere la mia invidia ogni volta che attraverso lo spazio Schengen: passo da un paese all’altro senza dover mostrare nessun documento. Le frontiere tra la Francia e l’Italia, o tra la Francia e la Germania, non esistono più. Da qui viene spontaneo porre la seguente ed insistente domanda: perché gli arabi hanno fallito nel dare vita all’unione araba, mentre i loro vicini europei, nonostante la pesantissima eredità della seconda guerra mondiale, sono riusciti a creare l’Ue? Occorre ricordare che l’unica esperienza di un’unione è quella tra l’Egitto di Nasser e la Siria, che risale al 1958, e purtroppo è durata soltanto tre anni. La Lega Araba, fondata nel lontano 1945, è rimasta un organo inutile non solo per la soluzione dei grandi problemi politici (come l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein nel 1990 o la vicenda del Sahara occidentale), ma anche per quanto riguarda il rafforzamento dello scambio commerciale tra i suoi membri, che rimane bassissimo.
È davvero difficile digerire questo gravissimo ritardo, vista la grande omogeneità fra i popoli arabi: stessa lingua, appartenenza all’Islam (per lo più sunnita), memoria condivisa delle colonizzazioni (francese nel Maghreb ed inglese nel Mashreq), il comune destino, ecc. Inoltre ci sono notevoli risorse umane e naturali (come il petrolio), da sfruttare per un progetto strategico e vitale. Oggi i governi arabi non intendono sopprimere e nemmeno aprire le loro frontiere nazionali ai fratelli vicini, anzi intensificano i contatti diplomatici per stabilire frontiere certe. Negli ultimi anni abbiamo assistito a dei festeggiamenti in Siria e in Giordania dopo la firma di un accordo bilaterale che ha messo fine alle rivendicazioni territoriali. La stessa situazione si è verificata tra lo Yemen e l’Arabia Saudita.
Il nocciolo del problema non sono i popoli arabi, ma i loro leader. Qui serve la psicologia, e non la sociologia politica, per capire che gli umori e le simpatie dei dirigenti sono alla base della politica estera. Basta vedere il leader libico Gheddafi. Gli interessi dei popoli, invece, non hanno nessuna importanza. Così torniamo sempre allo stesso punto di partenza: il deficit democratico nel mondo arabo. I capi arabi (molti dei quali sono arrivati al potere su carri armati o grazie ad elezioni truccate) si sentono padroni, e non cittadini al servizio della collettività. Considerano i propri paesi come case di proprietà. Non sono soggetti a nessun controllo perché detengono tutti i poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario e mediatico. In attesa di vedere un giorno l’Ua, l’Unione araba, i cittadini arabi continuano a guardare l’Ue con un po’ di invidia e tanta speranza.
Scrittore e antropologo italo-algerino, Amara Lakhous vive a Roma.