«Le nostre vie nella Chiesa sono state totalmente differenti. Lui ed io rappresentiamo due modi di essere cattolici, una nel senso della curia romana, una nel senso del Concilio Vaticano II…», così Hans Küng parla di Joseph Ratzinger nell’intervista a Giancarlo Bosetti. A volte sembra che i due grandi vecchi della teologia internazionale, il papa e il ribelle, siano rimasti gli unici nella Chiesa a occuparsi ancora del Concilio Vaticano II, come i duellanti del film, mentre nel resto della comunità ecclesiale, appiattita su un grigio presente, la disputa suscita indifferenza. Küng tira in ballo il Concilio per rivendicarne il carattere di “rivoluzione tradita”, al pari di tante altre nella storia. Ratzinger, oggi papa Benedetto XVI, per correggere, attenuare, limitare. Quasi che ancora oggi, a quasi cinquant’anni dalla convocazione dell’assise conciliare ad opera di Giovanni XXIII, il Concilio continui a fare paura, a scuotere le fondamenta della Chiesa nel suo rapporto con il mondo moderno portando il popolo di Dio su strade che le più alte gerarchie considerano evidentemente pericolose.
L’allora cardinale Ratzinger cominciò a mettere in discussione le conclusioni del Concilio nel 1986, da prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, nel famoso libro-intervista con Vittorio Messori. «È incontestabile che gli ultimi vent’anni siano stati decisamente sfavorevoli alla Chiesa cattolica», affermava il panzer-kardinal senza prudenze diplomatiche. «I risultati che hanno seguito il Concilio sembrano crudelmente opposti alle attese di tutti, a cominciare da quelle di papa Giovanni XXIII e poi di Paolo VI». Aggiungeva, con una punta di sarcasmo: «Il cardinal Julius Döpfner diceva che la Chiesa del dopo Concilio è un grande cantiere. Ma uno spirito critico ha aggiunto che è un cantiere dove è andato perduto il progetto e ciascuno continua a fabbricare secondo il suo gusto. Il risultato è evidente». Fino a concludere: «Il Vaticano II è una realtà da accettare in pieno. A condizione che non sia considerato come un punto di partenza dal quale allontanarsi correndo, bensì come una base sulla quale saldamente costruire… Non c’è una Chiesa “pre” e una “post” conciliare: il Concilio non intendeva affatto introdurre una divisione del tempo della Chiesa».
Ecco fissato una volta per tutte il fronte su cui duellare. Il Concilio è stato un punto di arrivo o un punto di partenza? È stato una reale cesura nella storia della Chiesa o va riportato nell’alveo della Ecclesia societas perfecta che non si può riformare e che va mai messa in discussione? Ha fondato, dopo la lunga fase della cristianità occidentale, un modo diverso di tramandare la fede di generazione in generazione e di vivere la spiritualità? Venti anni dopo la sua clamorosa intervista Ratzinger è tornato sul tema a lui caro con un lungo, importante discorso pronunciato in occasione dei quarant’anni dalla conclusione del Concilio, il 22 dicembre 2005. «Perché la ricezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile?», si è chiesto papa Benedetto XVI. E così si è risposto: «I problemi sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. Da una parte, l’ermeneutica della discontinuità e della rottura. Essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass media e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa che il Signore ci ha donato. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato e porta frutti».
Il Concilio, o una visione distorta del Concilio, come origine di tutti i mali, di tutte le incertezze: causa di quel relativismo etico che per la Chiesa ratzingeriana è il nemico da sconfiggere. Si potrebbe obiettare a questa visione che negli ultimi anni non è stata certo la visione progressista del Concilio a godere di buona stampa e di agguerrite lobby curiali, anche di stampo laico, pronte a omaggiarla. Anzi, il Concilio e i suoi difensori, sempre più intimiditi a colpi di repressioni ecclesiastiche e di campagne stampa, sono finiti via via sul banco degli imputati, all’interno e all’esterno della Chiesa. Movimenti ecclesiali aggressivi come Comunione e liberazione in Italia sono quasi arrivati a contestarne la legittimità. Personaggi di cultura laica come Marcello Pera o Ernesto Galli della Loggia hanno puntato il dito sulla Chiesa conciliare e sulla sua assurda pretesa di offrire al mondo la medicina della misericordia piuttosto che quella della condanna utilizzata a piene mani nei secoli precedenti.
«Il relativismo», denunciò l’allora presidente del Senato Pera il 12 maggio 2004 in una lectio all’università Lateranense, «è penetrato nella teologia cristiana e da lì, sotterraneamente, si è diffuso anche tra i credenti. Ma il cristiano debole, come il pensatore debole, alla fine diventa un cristiano arrendevole». Alla ideologia degli anni immediatamente successivi al Concilio, ’68 e dintorni, quando andava di moda il Cristo senza la Chiesa, si è sostituita, spesso con la benedizione delle più alte gerarchie ecclesiastiche, con un rovesciamento spettacolare, la riduzione del Cristianesimo a ideologia dell’Occidente. I teo-con, gli atei devoti, i vip convertiti in mondovisione si entusiasmano ora per una Chiesa senza Cristo. Sono in perenne adorazione di una Chiesa senza santità, senza beatitudini, senza Magnificat, senza speranza per i poveri e i deboli, per gli umili e per gli affaticati di cuore. Amano una Chiesa garante dell’ordine, della tradizione, dell’identità occidentale e soprattutto del loro benessere. Una Chiesa senza resurrezione, dunque atea. La Chiesa di cui scrive Galli della Loggia sul “Corriere”: dopo il discorso al convegno della Chiesa italiana di Verona del papa dell’ottobre 2006 sottolineò che Benedetto XVI «poteva, che so, insistere sul tema della pace, parlare degli immigrati, della condizione degli anziani, del ruolo delle donne e del laicato nella Chiesa. Non lo ha fatto». Vero, purtroppo, anche se al professor Galli della Loggia che in quell’occasione se ne rallegrò viene poi da chiedere: senza quelle parole, pace, perdono, ascolto, accoglienza, conversione, che cosa resta del cristianesimo?
Ma la vera obiezione che si può fare contro la debolezza di analisi dei nemici del Concilio, o dei sostenitori dell’ermeneutica “buona” contro quella “cattiva”, è un’altra. Non esiste una parte del cattolicesimo rimasta indenne dalla “rivoluzione copernicana” che coinvolse la Chiesa cattolica, come la chiamò il domenicano Dominique Chenu, o la “nuova Pentecoste”, secondo l’espressione di papa Giovanni. Tutto ormai è intrecciato: liturgia, rapporto con il mondo, rapporto con la morale individuale e collettiva, pratica religiosa, libertà di coscienza. Neppure il più clericale e reazionario dei movimenti può prescindere da questi temi. Neppure il popolo di Dio che si organizza tra i devoti di padre Pio, tra i pellegrini del circuito Lourdes-Fatima-Medjugorje. Il popolo cresciuto nei ventisette anni di pontificato di papa Wojtyla, tra i mega-raduni di massa, le grandi kermesse, i meeting come unica modalità espressiva dei “nuovi cattolici”, con tutto ciò che ne consegue: l’appiattimento della fede sull’emozione, il senso di appartenenza a una comunità che prevale sul cammino personale, la pastorale che diventa pura organizzazione, chiamata a tappare il tempo tra un grande evento e l’altro. Ma anche questi fenomeni, piaccia o non piaccia, non ci sarebbero stati senza il Concilio. Non si possono separare da un presunto fiume buono della Tradizione, che non è mai esistito e in ogni caso sarebbe anti-storico.
Sullo spirito del Concilio, il vento della novità che continua a soffiare, si combatte una battaglia che ha diviso la Chiesa fin dall’inizio. Tra chi vede la fede cristiana come un patrimonio intangibile e la Chiesa come un’istituzione immutabile, assoluta, senza possibilità di cambiamento. E chi, al contrario, vede la comunità dei credenti dentro, e non separata dalla storia degli uomini, come recita l’incipit della Costituzione conciliare “Gaudium et Spes” («Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore»), il popolo di Dio inserito nel cammino dell’uomo con tutte le grandezze e le miserie, i dubbi, le inquietudini, le cadute e i risollevamenti. Da un lato il primato della dottrina che non si discute ma si abbraccia in tutto e per tutto, senza possibilità di discernimento, dall’altro il primato dell’interiorità, che non è un cedimento al pensiero debole perché non richiede meno rigore intellettuale e morale, anzi. Negli anni del Concilio si trattava di prendere atto che la cristianità era finita e che da quel momento in poi il cristianesimo sarebbe sopravvissuto solo «in spirito e verità». Oggi la sfida è diversa: si tratta da un lato di evitare che il cattolicesimo diventi la setta dei salvati, dall’altro che la differenza cristiana, lo scandalo della croce e la speranza della resurrezione, si disperda nel frullatore mediatico, nel mercato delle opinioni dove tutte sono buone e nessuna lo è davvero.
Per farlo, bisogna tornare al primato della coscienza. La coscienza, la grande dimenticata in questi tempi ipocriti, è la parola che il Concilio ha fatto tornare di moda in una Chiesa abituata da secoli a fermarsi alla lettera del magistero e delle Scritture. La coscienza che non si arruola in nessun fondamentalismo, neppure quelli dei nuovi movimenti cristiani, in nessuna dottrina perfetta, in nessuna società fondata su un presunto diritto naturale, è la pietra di inciampo di qualsiasi ritorno al passato. Perché è libera e, come lo spirito, soffia dove vuole. I prossimi anni, passata questa stagione di inverno ecclesiale, diranno se anche il vento del Concilio tornerà a farlo.
Marco Damilano, giornalista dell’Espresso, è l’autore di “Il partito di Dio. La nuova galassia dei cattolici italiani” (Einaudi 2006).