Obama ce la sta mettendo tutta per piacere all’elettorato ebraico negli Stati Uniti. Ha condannato le parole e si è totalmente dissociato dalle dichiarazioni razziste e antisemite di Louis Farrakhan (il discusso religioso musulmano, leader della Nation of Islam, amico del mentore di Obama, il reverendo Jeremiah Wright, ndr) e durante il recente incontro con la comunità ebraica di Cleveland, in Ohio, ha detto di essere un convinto sostenitore dello Stato di Israele la cui sicurezza non è negoziabile, e che essere pro Israele non significa essere Pro Likud, essere per la pace non significa andare contro lo Stato di Israele, riportando in vita un vecchio paradigma, ormai superato, che vedrebbe la comunità ebraica americana divisa tra chi appoggia il partito conservatore e chi il partito laburista israeliano. Infine, ha ribadito che è pronto a parlare con Hamas a condizione che riconosca lo Stato d’Israele.
Grazie alla retorica dell’inclusione e al suo naturale carisma, non vi è dubbio che Obama abbia guadagnato qualche punto nella classifica di gradimento di alcuni esponenti, anche influenti, della comunità ebraica: Jonatahan S. Tobin, direttore del “Philadelphia Jewish Exponent’s” ha pubblicato un editoriale, ripreso da “The Jewish Press” (il più diffuso settimanale ebraico negli Usa), in cui ritiene più che soddisfacente la posizione presa dal senatore dell’Illinois in occasione dell’incontro in Ohio. Altri considerano le ultime affermazioni di Obama come una “sterzata” troppo brusca verso quella lobby ebraica duramente criticata da Jonh J. Mearsheimer e Stephen M. Walt nel loro libro “The Israel Lobby”. Tra i delusi c’è il rabbino Michael Lerner, direttore di Tikkun magazine, mensile della sinistra liberal, che dopo aver fatto scorrere fiumi di inchiostro sul fenomeno “O”, arrivando a definirlo un’anima gemella, sembra fare un passo indietro e precisa che Tikkun non appoggerà Obama, come non ha mai appoggiato nessun candidato, e che riconosce nel senatore afro-americano un politico consumato, le cui posizioni in politica estera non coincidono con quelle della testata.
Neanche l’atteso discorso sulla questione razziale, pronunciato il 18 marzo a Philadelphia, ha messo d’accordo il mondo ebraico statunitense. Obama ha preferito non affrontare il tema in modo diretto, ma ha utilizzato i mass media, presenti in grandi numeri per l’occasione, per condannare con maggiore precisione e chiarezza le parole del suo parroco Jerermiah Wright. Mentre il Presidente dell’Anti Defamation League, Abraham Foxman, ha ritenuto le dichiarazioni del senatore “rassicuranti”, la Zionist Organization of America ha in programma di chiedere a Obama e alla sua famiglia di allontanarsi dalla parocchia in cui il reverendo Wright esercitava le funzioni. Tutto da rifare per il junior senator che non riesce ad affascinare fino in fondo l’elettorato ebraico che, in ogni caso, non manca di corteggiare alla prima buona occasione. Per la festa di Purim, Obama ha voluto ricordare l’importanza storica di questa giornata, cara soprattutto agli ebrei della diaspora, e che, in realtà non si riduce ad un Halloween ebraico, come, invece, ha dichiarato il candidato repubblicano McCain: “Questa ricorrenza è strettamente legata alla determinazione che Israele rimanga un luogo sicuro e vitale – ha spiegato Obama -, che l’anti-semitismo venga combattuto ovunque si manifesti e che la comunità ebraica americana continui a giocare un ruolo attivo e vitale nella vita del nostro Paese”.
Il giornalista Daniel Treiman, nel blog di Forward, uno dei quotidiani più autorevoli, ha notato che Obama è uno dei pochissimi ad aver inviato gli auguri per la festa di Purim. Nessun candidato o membro del Congresso americano lo aveva fatto in maniera così esplicita. Nonostante queste accortezze, almeno in politica estera, il binomio “change”/“unity” non convince, soprattutto se applicato a questioni come il conflitto israeliano-palestinese. Forward ha pubblicato un sondaggio in cui risulta che dei 74 superdelegati ebrei che parteciperanno alla convention di Denver di fine agosto, 12 hanno dichiarato di votare per il senatore dell’Illinois, 36 per la Clinton mentre 26 sono ancora indecisi (il numero totale dei superdelegati che fanno parte del Democratic National Committee è 795). L’elettorato ebraico, dunque, appare distante e poco convinto del programma e delle parole di Obama. Ma in questa campagna ricca di colpi di scena nulla deve essere dato per scontato. I giochi, tra Obama e Hillary, sono ancora decisamente aperti.