Il coraggio dell’accoglienza
Carlos Thiebaut 17 November 2009

Questo articolo è una versione ridotta del testo che l’autore, professore di filosofia all’Università Carlos III di Madrid, ha letto il 23 gennaio 2009 a Genova, nell’ambito di un incontro organizzato da Resetdoc.

A Rafael del Águila, in memoriam

Quando si acuiscono dei conflitti che hanno almeno in parte, se non del tutto, una componente religiosa, parlare di tolleranza sembra una mera dichiarazione di intenti che stride contro la storia e il presente che stiamo vivendo. Un presente martoriato dalle guerre che sembra focalizzarsi più sulle ragioni politiche, sul calcolo delle probabilità e su una gestione utilitaristica della vittoria e della sconfitta, piuttosto che su un atteggiamento morale orientato alla tolleranza. C’è di più: in tempi di crisi economica, quando le nostre nazioni europee, per proteggere se stesse, chiudono le frontiere giungendo persino ad espellere immigrati legali e clandestini, parlare di accoglienza può risultare amaramente ironico. Nel migliore dei casi, chiunque continuerà a parlare di tolleranza ed accoglienza verrà considerato un ingenuo, e verrà ancor più frequentemente accusato dai cinici di perpetuare un’immagine falsa della realtà della nostra società e delle nostre politiche, attraverso le parole che la filosofia rivolge inutilmente al mondo.

Pensare, in tempi bui, richiede sobrietà e coraggio, e ci obbliga a resistere alla nostra cattiva coscienza, con cui parliamo del nostro tempo contro la coscienza che il tempo ha di se stesso. La filosofia ha sempre avuto un carattere non tanto atemporale quanto intempestivo. Parlare del presente contro se stesso è una delle sue caratteristiche. Senza spingerci troppo lontano ne abbiamo testimonianza in Grecia, nel Rinascimento, nell’Illuminismo e in tutta l’Età Moderna. Un’altra caratteristica della filosofia è che ci spinge a pensare a noi stessi contro noi stessi. Riflettere oggi sulla tolleranza e sull’accoglienza è forse il modo più radicale e più urgente di pensarci contro noi stessi.

Non si tratta di prefigurare un altro mondo, un mondo futuro, possibile o impossibile, ma di ripensare a questo mondo e a questo presente. Significa pensare ad un presente e ad un “noi” intolleranti, o vicini a diventarlo, e ad un presente e a un “noi” poco inclini all’accoglienza. Per ripensare noi stessi è necessaria una condizione fondamentale: dobbiamo porci al di fuori della realtà e della nostra condizione. Dobbiamo essere coscienti e disposti a sentire e sperimentare il disorientamento ed il disaccordo. E’ necessario avvertire nel profondo di noi stessi ciò che le guerre attuali hanno di inaccettabile per sentire le ingiustizie perpetuate dalle nostre istituzioni e dalle nostre politiche come quelle in materia di immigrazione. E per fare ciò, è necessario guardare a noi stessi, alla nostra condizione ed ai vari modelli della nostra società e delle nostre politiche da una certa distanza. E’ necessario sentirci e vivere come se fossimo estranei e stranieri a noi stessi per imparare ad essere tolleranti. E’ proprio questo processo di estraniamento a costituire il nucleo della tolleranza e, anche se può sembrare paradossale, per essere accoglienti dobbiamo essere stranieri in casa nostra.

L’estraniamento e l’aspirazione alla pace

In prima battuta suggerirò quale è la causa principale in grado di generare l’esperienza del disorientamento e dell’estraniamento: si tratta della percezione che il nostro mondo e la nostra condizione danneggiano noi stessi e chi ci è caro. Ogni volta che viviamo o assistiamo a qualcosa che rientra nella categoria del danno ci sentiamo disorientati, estraniati al nostro vivere, sentiamo una ferita che si sarebbe potuta evitare e che dovrebbe essere evitata. Rifiutiamo, dunque, la ferita e quanto l’ha resa possibile. Lo rifiutiamo. Quel rifiuto è ciò che costituisce il nostro estraniamento. Forse la guerra, con i suoi disastri e le sofferenze delle sue vittime, è sempre stata l’emblema principale del danno, inteso come qualcosa che si potrebbe evitare e che andrebbe evitato. La guerra, che sembra trovare la sua giustificazione nella ferrea necessità della sopravvivenza o della legittima risposta all’aggressione altrui, può, come sappiamo, essere evitata. Chi la inizia o chi la incoraggia la considera sempre necessaria e inevitabile. Chi la subisce, invece, sa quanto questo sia falso e quanto sia possibile evitarla, utilizzando altri metodi, quali quelli della politica e del dialogo.

A maggior ragione, se siamo vittime o testimoni della sofferenza, del dolore e della morte delle popolazioni che la subiscono, sappiamo che dobbiamo evitarla. L’orrore della guerra contiene questa doppia negazione: ciò che sarebbe potuto non essere e ciò che sarebbe dovuto non essere. La guerra, come simbolo del danno, è anche il primo simbolo di quello che chiamiamo estraniamento e disorientamento. Il rifiuto della guerra, delle ferite e della morte che potrebbero e dovrebbero essere evitate, è alla base della ricerca della pace, della ricerca di una forma di vita sociale che possa evitare quella ferita e quello estraniamento. Il pensiero che emerge dall’estraniamento, dalla ferita e dal danno, vuole suturare e ri-fare il mondo in modo tale che queste esperienze non si ripetano. Estraniandosi dalle ferite del presente, il pensiero si propone di rifare il presente ed impone, in un mondo spaccato e lacerato nel quale ci sentiamo alienati, la ricerca delle condizioni per curare le ferite del danno e la necessità di rendere il mondo diverso da quello che è. Questo è ciò che chiamiamo pace. Il mondo della guerra, il mondo dello stato di natura, come lo definivano Hobbes e Kant, poiché ci danneggia e ci induce una prima forma di estraniamento, reclama da sé l’aspirazione alla pace.

Quella parte di noi che è alla ricerca della pace civile, reagisce contro la parte che ha indotto o ha vissuto lo stato di natura. La guerra come forma di danno è la prima esperienza in cui ci estraniamo: subiamo la ferita di quel danno, rifiutiamo le sue cause e facciamo in modo, molto spesso inutilmente, che quel danno non si ripeta. «Mai più!» Gridiamo. La tolleranza è una forma di quel «mai più!» in cui c’è più risolutezza che speranza, più rabbia che consolazione. Il processo storico che ha determinato l’affermazione della tolleranza, dopo i secoli oscuri della prima modernità europea, può essere interpretato alla luce della disperazione prodotta dall’inutilità delle guerre di religione, intese come l’espressione di uno stato di natura in cui le differenze tra le mie e le tue idee rappresentano motivo sufficiente, o semplice pretesto, per eliminare l’altro o per giustificare la sua voglia di eliminare me. La tolleranza nasce e si afferma pienamente solo se percepiamo l’inutilità di un conflitto volto all’eliminazione dell’altro. Dopo la pace sentiremo l’esigenza di garantire la tolleranza come un’istituzione, che tuteli diritti quali la libertà di culto e di idee, e sia un limite al potere di fronte alla libertà di coscienza dell’individuo. Potremo stabilire attraverso il diritto e la politica, un sistema o una prassi che ripeta con un altro linguaggio, l’inutilità della violenza come modo di articolare socialmente le differenze. Per differenze si intendono le nostre convinzioni filosofiche e le dottrine con cui interpretiamo il mondo, tra cui, quelle religiose.

La riflessione sull’Altro

Prima di questa fase di istituzionalizzazione, però abbiamo dovuto sperimentare l’estraniamento ed il disorientamento di fronte a una vita sociale che ha prodotto dei danni. La specificità del danno deriva dal fatto di non prendere in considerazione l’Altro, di vederlo diverso, come se quella differenza fosse la causa del conflitto e dovesse necessariamente generare guerra e danno. E chi è l’Altro, qualcuno che vediamo diverso e spesso distante? La riflessione sull’Altro ha permeato di sé buona parte del pensiero filosofico della seconda metà del XX secolo. Levinas, Arendt, Derrida, Rawls e Habermas, con contributi che riflettono programmi teorici spesso molto divergenti tra di loro, hanno approfondito quell’intuizione che ha prodotto un cambiamento radicale nella filosofia occidentale. Si tratta dello spostamento, sotto diversi punti di vista, dalla prospettiva in prima persona, quella in cui diciamo e pensiamo “io” o “noi”, alla prospettiva in seconda persona, quella in cui diciamo e pensiamo “tu” o “voi”. Nel XX secolo – con le riflessioni di Levinas sul nazismo, di Arendt sui totalitarismi, di Rawls su Hiroshima – la prospettiva in seconda persona ha acquisito la forza colossale che le ha consentito di considerare i danni dalla prospettiva delle vittime invece che da quella degli spettatori o di coloro che li hanno commessi.

E’ un cambiamento che modifica e rinforza la nostra idea su ciò che è un danno, su che cosa si dovrebbe sempre evitare. Noi non possiamo, né moralmente né culturalmente, vedere i conflitti e le guerre senza chiederci chi li subisce e chi li patisce. Il nostro sguardo, come disse Susan Sontag poco prima di morire, non può staccarsi dalla pena e dal dolore altrui. Il fratello, il vicino, ci sembra quasi da subito, un altro, qualcuno che proprio per la sua differenza rispetto a ciò a cui teniamo, ci mette in discussione, ci interroga. Vediamo il fratello che è diventato un altro, che ormai non pensa come noi, come se fosse una minaccia, o un tradimento che suscita in noi la violenza, l’odio, il desiderio di sterminio. L’amara lezione di quello scontro è, una volta passato l’insopportabile, eterno tempo di violenza, la sua assoluta inutilità. Se, un po’ alla volta, lentamente, impariamo che la strada dello scontro fratricida è inutile, l’esistenza dell’altro, la forzata coesistenza con lui susciterà una riflessione che va verso noi stessi, verso il nostro centro. Il suo diritto mi mette davanti alla responsabilità di dover pensare e vivere dal mio punto di vista. Accettare chi pensa in modo differente e conferirgli il diritto alla sua diversità fa ricadere su chi ora lo accetta il peso di emulare il suo coraggio e la sua forza. Il riconoscimento dell’altro, della differenza dell’altro, è il motore che muove la mia autonomia. Non vedo soltanto l’altro, il fratello che è già diverso; vedo me stesso attraverso i suoi occhi. Vedo la mia identità così diversa come vedo la sua differenza.

Questo processo oltre all’accettazione e al riconoscimento dello stesso peso dell’autonomia – tollerare e sopportare il peso dell’altro, ma anche il peso della nostra autonomia – stimola un’altra forma di estraniamento. Quando Montaigne si occupa della diversità dei costumi fra società diverse e interviene, come punto di partenza, sul grado di estraneità che alcune di esse ci provocano, immediatamente si auto-estrania, e percepisce quanto sia strana – e molte volte banale – la forma stessa della nostra vita. Quell’auto-estraneità è la base della tolleranza, è il movimento che rende possibile la sua nascita e, a sua volta, è il suo effetto più immediato. Che l’altro esista e che in lui ci si riconosca, introduce un seme di alterità in noi stessi. Di fronte all’altro che riusciamo ad accettare, a riconoscere, noi stessi diventiamo, in parte, altri rispetto a noi stessi.

Il nuovo “Altro” e l’accoglienza

Nello stesso periodo storico in cui si costruisce la modernità, compare la figura di un altro ancora più estraneo, più straniero: colui che abita i continenti recentemente scoperti – America, Asia, Africa, Oceania – Questo nuovo “altro” si pone in modi diversi e, nei secoli, subisce forme brutali di dominazione e sfruttamento occidentali che ben conosciamo come le diverse forme di schiavitù. Se il rifiuto della violenza interna al proprio ambito europeo mette in moto il movimento della tolleranza, allora il rifiuto della violenza esterna, nel mondo allargato, metterà in moto il movimento dell’accoglienza. La scoperta di questo altro, lo straniero, fa sorgere una dinamica del riconoscimento diversa. Se il processo della tolleranza si realizza in un sistema di diritti – quelli che hanno al centro la libertà di coscienza – quello dell’accoglienza si inserirà in una prospettiva cosmopolita.

Questa visione cosmopolita indica, fiduciosa, il possibile cammino dello sviluppo morale della specie umana. La globalizzazione positiva, per chiamarla così, a cui si riferisce Kant in Per la Pace Perpetua, ha avuto nonostante tutto importanti conferme, quale la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani promulgata quasi sessant’anni fa. Ma ha anche subìto – e continua a subire – mistificazioni non meno importanti. Non possiamo pensare alla globalizzazione solo come fenomeno positivo dimenticando ciò che di negativo ha avuto e ha ancora nelle vite di molti membri della nostra specie, cosa che lo stesso Kant riconosce quando dice che le violazioni del diritto in qualsiasi parte del mondo si ripercuotono su tutti noi. E’ all’interno di questo contesto della globalizzazione, negativo e non solo positivo, che bisogna ripensare oggi all’accoglienza.

Essere ospitali nei confronti dell’altro significa accettarlo, aprirgli le porte di casa nostra. Siamo ospitali con chi viene a trovarci o ha bisogno del nostro aiuto. Siamo ospitali con chi non è “dei nostri”. Non siamo ospitali con la nostra famiglia e non siamo, come popolo, ospitali con i nostri concittadini. Anzi. Con questo ultimi facciamo valere altri diritti e altri obblighi. Chi ci fa visita ha uno status particolare. Non può pretendere l’accoglienza perché è un visitatore, uno straniero. Magari è solo di passaggio o, forse, farà ritorno in patria. Ma, fintanto che rimane, e pertanto non è più “in visita” – perché è diventato parte della nostra famiglia o della nostra città – verrà riconosciuto non attraverso la lente dell’accoglienza, ma dei diritti e doveri condivisi, di compartecipazione politica.

Una grammatica dell’accoglienza

In buona sostanza: l’accoglienza è un meccanismo provvisorio, transitorio. Ma è un meccanismo che si presta a fraintendimenti. Che succede quando il visitatore vuole perpetrare il suo status, non accetta di far parte della nostra famiglia o della nostra nazione e ciononostante pretende che si sia ospitali nei suoi confronti? In Europa tocchiamo con mano questa situazione quando gruppi di immigranti non sono disposti ad accettare gli elementi della nostra cultura che riteniamo fondamentali per l’integrazione sociale e politica. Cosa succederebbe se qualcuno ci chiedesse asilo ma al contempo volesse rimanere stabilmente a casa nostra senza però accettarne le regole? Ancora una volta non possiamo farci prendere dall’inebriante illusione di poter trovare una risposta unica, definitiva. Credo, invece, che si debba procedere con estrema cautela e buon senso. Perché potremmo interpretare come invasione ciò che è una semplice, ragionevole (nel senso che è accettabile per entrambi) constatazione di una differenza cui possiamo far fronte. Potremmo interpretare come rifiuto a formare parte della nostra famiglia – per usare la stessa metafora – ciò che è, al contrario, una richiesta di accettazione di un’identità culturale diversa.

Dobbiamo, ancora una volta, analizzare caso per caso e contesto per contesto e, forse accontentarci di formulare una grammatica di base dell’accoglienza. Una grammatica che potrebbe contenere questi principi: dobbiamo accettare ed accogliere chiunque non impedisca o mutili la nostra natura di esseri ospitali, che basano sul concetto di accoglienza la possibilità di creare una società cosmopolita. Tale principio è meramente formale. Ciò che ci mette a disagio sono i casi specifici (il velo islamico, il crocifisso cristiano) che possiamo interpretare, ragionevolmente, solo all’interno di contesti culturali e sociali specifici. Ad esempio, il velo islamico nelle scuole pubbliche ha un senso diverso in Francia – dove vige una forte tradizione laica nell’insegnamento pubblico – o in Spagna, dove questa prospettiva è più duttile e meno militante. Il velo islamico ha significati diversi a seconda dei contesti specifici così come assume significati diversi per le singole donne che lo usano. E così va detto che i limiti dell’accoglienza dipendono, almeno concettualmente, da quanto possiamo definire forme invasive o offensive o dannose, della richiesta di accoglienza. Portare un simbolo religioso può in alcuni casi, risultare offensivo; in altre circostanze può essere semplicemente un segno identificativo.

Ancora una volta, la semantica morale di ciò che ci colpisce – ovvero quanto percepiamo come danno – definisce i limiti che definiscono a loro volta l’applicazione dei nostri principi. Forse, dalla prospettiva filosofica non possiamo dire molto di più; ciò non toglie che come cittadini, che ci confrontiamo giorno per giorno con tutto ciò, molto resta ancora da dire. Ma, al di là dei suoi limiti, la filosofia può averci aiutato, forse, a focalizzare con maggior chiarezza i problemi.

Tolleranza e accoglienza

La tolleranza, si diceva, è nata come movimento di accettazione dell’altro in quanto diverso; ma si trattava di un diverso prossimo: un fratello, un vicino. Ora la tolleranza ci sembra problematica perché si riferisce all’immigrante, allo straniero: all’immigrante che vive fra noi, che vive in altre società e rivendica i propri stili di vita, il suo modo d’essere e di comportarsi e che noi consideriamo lontanissimi. La tolleranza, il problema tolleranza, ha permeato di sé l’accoglienza; l’accoglienza, il problema accoglienza, si è trasformato nel terreno in cui nasce la paradossale domanda di tolleranza. O, per dir meglio, la tolleranza – l’accettare la differenza dell’altro nello stesso spazio politico – è diventata problematica perché non sappiamo come gestire le richieste di accoglienza. L’altro, il fratello, il vicino, è diventato diverso da quando ha assunto le sembianze dello straniero. Così le nostre nazioni, i nostri territori si sono trasformati in luoghi del bisogno, della necessità, della tolleranza e dell’accoglienza, come dimostra la crescente immigrazione. Ma, al tempo stesso, la terra intera è terreno degli stessi bisogni, come simboleggia la figura scioccante e tremendamente nitida dei rifugiati e la non meno scioccante immagine delle vittime della guerra.

L’accoglienza rifiuta, da parte sua, che un popolo possa invadere altri popoli e renderli schiavi, come hanno fatto gli europei nei secoli scorsi. L’obiettivo è vivere il mondo in modo cosmopolita; essere cittadini del mondo riduce l’importanza dei diversi modi che abbiamo di viverlo e esalta la dimensione di spazio condiviso. Se la tradizione democratica ha nella tolleranza e nell’accoglienza uno dei suoi principi più radicati, possiamo concludere suggerendo che la democrazia è la forma politica di quanto ho definito auto-estraneità. Forse non è solo questo (visto che è anche la messa in pratica solidale e positiva delle nostre ragioni, delle nostre decisioni e delle nostre azioni). E tuttavia non va dimenticato che è anche questo: una pratica che afferma e dubita al tempo stesso, che impara e rifiuta quanto dava per certo, che ci rende profondamente ingenui rispetto a quanto siamo diventati. Concepire la democrazia in questi termini ha in tempi bui, credo, un enorme vantaggio. Significa non dare niente per scontato, né garantito per sempre. Neanche la democrazia stessa.

SUPPORT OUR WORK

 

Please consider giving a tax-free donation to Reset this year

Any amount will help show your support for our activities

In Europe and elsewhere
(Reset DOC)


In the US
(Reset Dialogues)


x