I copti da Nasser a Mubarak
Giuseppe Scattolin con Khalid Chaouki 12 May 2008

Chi sono gli egiziani di religione copta e quanto rappresentano?

I copti rappresentano la popolazione più antica dell’Egitto contemporaneo perché sono i discendenti degli egiziani antichi, e la stessa lingua copta è una lingua antichissima. Una storia che la maggioranza dei musulmani non conosce. Ma oggi rappresentano meno del 10% dell’intera popolazione, 6-7 milioni al massimo.

In che misura i copti d’Egitto si sentono parte integrante dell’Egitto?

L’Egitto ha una lunga storia e fin dall’arrivo dei musulmani la comunità cristiana copta si è sentita in qualche modo estraniata dal proprio Paese con l’applicazione della teoria dei Dimmi secondo la Sharia islamica, ossia la regolamentazione specifica per gli abitanti non musulmani in una nazione islamica. E ancora oggi, a distanza di 14 secoli dall’arrivo dell’Islam, la comunità cristiana si sente isolata e non riconosciuta e questo fattore influisce moltissimo nei rapporti tra cristiani e musulmani in Egitto.

E nella storia moderna dell’Egitto, vi sono stati dei miglioramenti nella considerazione di questa minoranza cristiana?

E’ interessante rilevare che durante il periodo vicino alla rivoluzione di Nasser i copti d’Egitto si sono sentiti maggiormente partecipi al destino della loro nazione, per via del movimento nazionalista arabo che metteva al centro il carattere arabo con un approccio assolutamente laico. Nella stessa direzione pure il partito Baath di Saddam Hussein o il periodo di governo di Anwar Saadat in Egitto, in un primo momento, adottarono un approccio laico e riconoscente verso il ruolo delle comunità arabe cristiane.

E poi?

Con il fallimento di un certo nazionalismo arabo laico e l’avvio della cosiddetta Sahwa Islamiyya (Risveglio islamico) grazie al movimento dei Fratelli Musulmani di Hassan al-Banna, anche i nazionalisti dovettero fare i conti con i gruppi estremisti, tentando talvolta di seguirli sul loro terreno e quindi invocando elementi di appartenenza religiosa all’Islam nei loro discorsi e programmi, come fece Saddam nell’ultimo periodo del suo governo. In questo modo si è tornati alla discriminazione tra i cittadini su base religiosa.

Secondo lei, di chi sono le responsabilità di questo trattamento differenziato?

Io punto molto sul fattore culturale. Il problema vero oggi è rappresentato dalla modernità. In Europa la modernità ha rappresentato una rivoluzione fondamentale per quanto riguarda i diritti fondamentali, le libertà personali e lo sviluppo della società civile. Oggi il mondo islamico sta facendo i conti con la modernità ed è una sfida comune anche ad altre civiltà, come quella cinese. Il mondo islamico deve fare un lavoro culturale profondo sulla propria identità tramite un ritorno al vero Ijtihad, alla riscoperta del misticismo e di una lettura spirituale e non solo in chiave legislativa delle proprie fonti. Il vero problema è la chiusura in se stessi per difendersi dalla globalizzazione.

In questo processo, qual è il ruolo della comunità copta?

Anche il mondo copto è in posizione di autodifesa e c’è il rischio forte che la tradizione oggi non riesca ad andare incontro alle sfide contemporanee, e a trasmettere la propria storia millenaria alle nuove generazioni, nonostante il grande sforzo attuato in questi anni della Chiesa copta di stare più vicina alle sue comunità in Egitto e in tutto il mondo. Ecco perché propongo un nuovo dialogo tra musulmani e cristiani basato sull’incontro intorno ai valori comuni e per il bene comune dell’uomo. Credo che 14 secoli di conflitti e diatribe tra le due religioni siano ormai sufficienti. Ora, dobbiamo essere capaci di voltare pagina.

Una sfida importante, ma non sembra così semplice. Un dialogo a partire da cosa?

Un dialogo a partire dalla spiritualità comune per elaborare una proposta seria a difesa innanzitutto della persona umana e i valori di base che condividono ebrei, cristiani e musulmani. Si dovrebbe capire che solo tutti insieme potremo realmente tutelare i nostri giovani dal pericolo del fondamentalismo, in cui trovano rifugio per reagire alla globalizzazione. Una sfida che riguarda tutti gli egiziani, musulmani e cristiani insieme.

In questo dialogo tra le spiritualità, qual è il suo bilancio attuale?

Al Cairo, in quanto Pisai, abbiamo un piccolo centro di studio e riflessione con numerosi amici musulmani, ma la verità è che trovo poco sostegno da entrambe le comunità cristiane e musulmane. Mi fa sperare solo l’afflusso di tanti giovani egiziani musulmani che sono desiderosi di dialogare conoscendo a fondo la religione dell’altro e facendo ricerche sul cristianesimo, così come io in passato e tuttora studio la religione islamica. Si può dialogare solo se si parte dal desiderio di conoscersi profondamente e la via spirituale ne è il mezzo più utile.

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