Il ricordo dell’operazione Piombo Fuso, la più grande offensiva contro i territori palestinesi dal 1967, è destinato a condizionare inevitabilmente il voto dei cittadini arabi, attualmente circa il 20% dell’intera popolazione in Israele. In che modo si orienteranno questi elettori, che al momento possono contare su un solo ministro in parlamento? Le contraddizioni che coinvolgono la rappresentanza politica di questa componente dell’elettorato si sono riaperte il dodici gennaio, quando il Central Elections Committee, con un provvedimento riconosciuto e approvato dai partiti maggiori – Likud, Kadima e Labor – ha escluso dalla corsa elettorale due partiti arabi, il Balad e la United Arab List – Ta’al, in base ad accuse di connivenze terroristiche e al mancato riconoscimento di Israele come stato ebraico. Il ventuno gennaio la Corte Suprema di Giustizia ha revocato l’esclusione accogliendo il ricorso in appello dei due partiti. In base a quanto riportato dalle principali testate israeliane, la Corte avrebbe giudicato il provvedimento antidemocratico e razzista.
La minaccia di un parlamento arabo alternativo alla Knesset, paventato dai partiti esclusi, è stata sventata, ma va sottolineato che il loro peso specifico politico sarà comunque modesto. In base a quanto riportato dal quotidiano Haaretz, nei sondaggi Balad e la Ual-Ta’al dovrebbero stare sui due o tre seggi a testa, sui 120 complessivi della Knesset. Ripristinata la situazione iniziale – con ben 34 i partiti coinvolti nelle elezioni, segno di una società in cui le minoranze e le istanze politiche sono plurali e stratificate – le testate internazionali hanno aperto una riflessione sul vero significato del provvedimento di esclusione e sullo stato della democrazia in Israele, recentemente esposta a più di qualche interrogativo. E’ evidente che l’esclusione e la riammissione dei due partiti di minoranza alla corsa elettorale siano rientrati nel contesto dell’operazione militare a Gaza. La vicenda può essere letta anche alla luce della progressiva radicalizzazione del Likud, il partito di destra di Netanyahu – candidato favorito per la vittoria – e dell’influenza di uno dei partiti più discussi in Israele, l’Israel Beitenou guidato da Avigdor Lieberman. Israel Beitenou, in base agli ultimi sondaggi, è destinato a superare la decina di seggi in parlamento diventando, in un ipotetico scenario politico, la terza forza dopo il Likud e il partito di centro-destra Kadima.
Che ripercussioni avrebbe uno scenario elettorale del genere per gli arabi israeliani? Il clima tra le due parti, già teso di partenza, si è riacceso dopo le ultime vicende, in un crescendo che, come riporta il Jerusalem Post, ha visto Sanaa (del partito Ual) e Lieberman insultarsi sulla basi di pregiudiziali fasciste e terroriste. In una dichiarazione riportata da Haaretz, Lieberman ha affermato che “con questo provvedimento la Corte ha dato ai partiti arabi la licenza di assassinare Israele come stato democratico ebraico. Nel prossimo parlamento proporremo una legge sulla cittadinanza volta a prevenire la mancata lealtà di alcuni arabi israeliani”. Da parte sua il membro di Ual-Ta’al Ahmed Tibi ha dichiarato che “la sentenza non è che l’inizio, dal momento che in Israele il razzismo è diventato una questione predominante”.
Il tema del razzismo verso gli arabi israeliani non è una novità. In un articolo sul Jerusalem Post, l’ex viceministro della Difesa Ephraim Sneh ha ricordato che nessun premier israeliano, se non Rabin, ha avuto un atteggiamento diverso nei confronti della comunità palestinese in Israele. Le diseguaglianze, nelle parole di Sneh, vanno dalle discriminazioni sul lavoro all’esclusione dai programmi di edilizia pubblica, soprattutto nei villaggi del nord. Per Sneh questo non avrebbe fatto altro che incoraggiare l’affermazione di leader inadeguati e ostili. Le accuse di ambiguità rivolte dagli analisti politici contro il partito arabo di maggioranza Hadash, il cui sito web riporterebbe due versioni diverse – una in ebraico che denuncia la guerra senza riconoscere l’azione terrorista e una in arabo che invece supporterebbe “ogni forma di resistenza” – ha spinto Haaretz ad aprire una riflessione sulle contraddizioni che animano la rappresentanza politica araba in Israele. La testata sottolinea la natura scissa di un partito che ha il compito di tutelare una comunità che sente la guerra in modo diverso dai cittadini di Israele, oltre a rappresentare una sensibilità e una tradizione politica radicalmente diverse da quelle del contesto in cui si ritrova ad operare.
Come ha sottolineato il New York Times in un suo recente servizio dai villaggi del nord, dove la presenza degli arabi israeliani si fa più consistente, questi cittadini sono costantemente in bilico tra quelli che vengono definiti processi di “palestinizzazione” e “israelizzazione”. Nelle parole di Shalom Dichter, ex co-direttore di Sikku – un’associazione di promozione dell’uguaglianza civica in Israele – il rapporto tra lo stato israeliano e la sua minoranza araba si è sempre mosso “su un’asse di continua inclusione ed esclusione”. Gli arabi israeliani fanno parte di quel debole quattro per cento che si è opposto all’attacco a Gaza. Le loro proteste, quando non sono state represse dalla polizia, come riporta il Times, sono state scoraggiate dai loro stessi leader politici. La polarizzazione generata dal conflitto, ricadendo su questioni identitarie prima che politiche, è destinata a tormentare le minoranze arabe in Israele e ad avere effetti prevedibili su quello che sarà il loro comportamento elettorale. A prescindere da come andranno le elezioni del dieci febbraio, non è difficile prevedere che saranno tempi duri, per i palestinesi in Israele.