Al termine del summit di Annapolis, nel mondo arabo si è sollevato un acceso dibattito sull’esito della conferenza convocata dal presidente Bush per riprendere il cammino verso una “soluzione definitiva” del conflitto israelo-palestinese. Un diffuso scetticismo della stampa mondiale sull’efficacia di una conferenza di pace nell’attuale stato di tensione politica ha fatto da sfondo ai giorni immediatamente precedenti l’incontro di Annapolis. Tuttavia l’impegno delle parti coinvolte a discutere senza eccezioni tutte le questioni ancora irrisolte e i segnali di apertura manifestati dal premier israeliano Ehud Olmert sulla creazione di uno stato palestinese indipendente hanno fatto cambiare l’opinione di molti.
Non così, però, nel mondo arabo, dove a fronte di un coro compatto di voci che dileggiano l’iniziativa di Annapolis come “l’ennesima farsa” organizzata dagli Stati Uniti, i commenti fiduciosi – o almeno non del tutto pessimisti – si contano sulle dita di una mano. Sono i grandi giornali internazionali – Al-Hayat, Al-Sharq al-Awsat e Al-Quds al-‘arabi – ad aver dato più spazio alle riflessioni sul summit. Le testate nazionali, pur con alcune importanti eccezioni come l’egiziano Al-Ahram e il libanese Al-Safìr, hanno invece manifestato il loro scetticismo nei confronti dell’iniziativa di Annapolis attribuendole poco o nessun risalto e privilegiando altri temi all’ordine del giorno, come la crisi di governo in Libano. “Gli arabi sono andati ad Annapolis senza illusioni – commenta il noto giornalista di Al-Hayat Ghassan Charbel – I loro dubbi sono giustificati dalle precedenti esperienze. Sanno che lo scenario attuale è diverso da quello che si prospettava alla vigilia della conferenza di Madrid. Sanno anche che Ehud Olmert non è Yitzhak Rabin”. Tuttavia i paesi arabi sono andati ad Annapolis perché speravano che la conferenza potesse costituire “un’opportunità per riprendere il controllo di una questione che li coinvolge direttamente, poiché riguarda i loro diritti, la loro esistenza, la loro sicurezza e stabilità”.
E proprio il ricordo del precedente di Madrid genera il senso di sfiducia e di rabbia che serpeggia in gran parte della stampa araba: “L’amministrazione americana aveva bisogno di un evento come questo per dimostrare che la sua politica nella regione mediorientale non è destinata ad uno spettacolare insuccesso – scrive ‘Azmi Bishara sempre su Al-Hayat – E al Presidente non è venuta in mente un’idea migliore di quella che gli ha suggerito il suo Segretario di Stato: replicare la conferenza di Madrid, organizzata da James Baker durante il mandato di suo padre. La conferenza di Annapolis è iniziata come una commedia. Nei primi giorni di preparazione ci si è resi conto che si trattava di una riunione e non di una conferenza di pace, poi si è capito che si trattava semplicemente di un incontro e infine si è chiarito che ad Annapolis si sarebbe andati soltanto ad inaugurare i negoziati che si svolgeranno in seguito. Ma che cos’era la conferenza di Madrid? Anche quella era l’apertura di una fase di trattative diplomatiche. Quante volte bisognerà ancora inaugurare i negoziati? E che cosa hanno fatto gli arabi da Madrid fino ad oggi? Hanno negoziato! E mentre negoziavano Israele riempiva i territori occupati di colonie. Che bisogno c’era adesso di una nuova ‘inaugurazione’?”.
I tanti ostacoli dei negoziati
Non per tutti comunque il summit di Annapolis rappresenta una mera replica della conferenza di Madrid. Pur condividendo il sostanziale pessimismo del suo collega di Al-Hayat, Sati’ Nuruddin del libanese Al-Safir afferma che “il paragone tra le due conferenze è quasi impossibile. L’unico elemento in comune è che anche questa volta gli Usa si sono attivati per una soluzione della questione palestinese soltanto per coprire una crisi più grande nel Golfo Persico”. Quanto ai contenuti della conferenza e alle questioni affrontate, i giornalisti arabi si focalizzano sui temi più diversi. Il direttore di Al-Ahram ad esempio, l’egiziano Mursa ‘Atallah, si preoccupa soprattutto dello status di Gerusalemme, che rappresenta uno dei punti più delicati dell’intera questione: “L’identità araba di Gerusalemme deve restare fuori da qualunque negoziato e lontana dalle concessioni che gli israeliani sperano di ottenere con l’arroganza della forza e della superiorità militare e avvalendosi del sostegno americano”. ‘Atallah ricorda inoltre che una reale pacificazione deve anche implicare una soluzione del problema dell’approvvigionamento idrico di Israele, che è fonte di attrito anche con il Libano.
Tra i problemi ancora in attesa di una soluzione, Rajah al-Khoury del quotidiano libanese Al-Nahar segnala anche “il problema dei confini, quello della sicurezza e quello del rientro dei rifugiati palestinesi”. Questa moltitudine di ostacoli che si profila all’orizzonte impedisce di pensare che la questione palestinese possa essere affrontata e risolta in una conferenza di due giorni: “È chiarissimo sin da adesso – aggiunge al-Khoury – che la conferenza di Annapolis sarà soltanto un’altra tappa nel fallimentare corso che la diplomazia americana ha intrapreso in Medio Oriente da oltre mezzo secolo. Da Annapolis torneremo soltanto con un nulla di fatto”. Lo scetticismo nei confronti del summit è inoltre motivato dal fatto che ad Annapolis si è discusso esclusivamente della questione palestinese, isolandola dall’incandescente contesto regionale nel quale si colloca e con il quale interagisce continuamente.
Così se già prima della conferenza di pace Sarkis Na’um lanciava provocatoriamente dalle pagine di Al-Nahar il quesito “cosa si dice dell’Iraq a Washington?”, il giornalista Muhammad Sa’idi dell’algerino Al-Khabar dopo l’incontro di Annapolis ribadisce: “L’agenda dei lavori si è limitata al conflitto israelo-palestinese. Non vi è stato alcun accenno al Grande Medio Oriente né alla questione della libertà, della democrazia e dei diritti umani, né al dossier del nucleare iraniano, o alla situazione tra Iraq e Iran. Questo rispecchia la discutibile convinzione degli organizzatori del convegno che sia possibile risolvere la questione palestinese e che, una volta risolta, anche tutti gli altri problemi del Medio Oriente troveranno la strada verso una soluzione completa”.
Le aperture di Al-Sharq al-Awsat
I commenti meno disfattisti arrivano dal quotidiano internazionale Al-Sharq al-Awsat, stampato a Londra ma di proprietà saudita. “L’importanza del summit di Annapolis è che ha portato ad una dichiarazione congiunta di Israele e Palestina con cui le due parti si sono impegnate a discutere le questioni fondamentali, senza alcuna eccezione, per riuscire a creare uno stato palestinese indipendente”, scrive l’esperto Tarek Al-Homayed. “Bisogna sostenere la conferenza di Annapolis – aggiunge sullo stesso quotidiano Husayn Shabakshi – non tanto perché si tratta di una conferenza di pace, ma perché dà il via ad una fase di negoziati e permette alla questione palestinese di tornare, dopo una lunga assenza, sul tavolo delle trattative come la più importante questione politica del Medio Oriente”. Secondo Al-Sharq al-Awsat, comunque, è ancora necessario moltiplicare gli sforzi per portare avanti il processo di pace. E nel futuro gli sforzi più critici saranno quelli per conciliare le diverse fazioni palestinesi, oggi ancora più divise. L’annuncio del presidente Ahmadinejad di voler convocare una conferenza a Teheran a cui parteciperanno i gruppi palestinesi che si sono opposti al summit di Annapolis ha avuto l’effetto di approfondire le fratture interne in Palestina.
Ma, come al solito, non manca la visione “complottista” di chi ritiene che le divisioni tra i palestinesi siano funzionali agli interessi americani. ‘Abd al-Bari Atwan, direttore del quotidiano internazionale Al-Quds al-arabi, noto per le sue posizioni estreme e i suoi commenti infuocati contro la politica americana, scrive infatti: “La strategia americana adottata in Iraq di spingere le fazioni interne le une contro le altre per distrarle dal loro obiettivo originario, che era quello di resistere alle forze di occupazione, pare debba ripetersi nella Palestina occupata. E il capitale americano comincia a dare i suoi frutti dal momento che il presidente Abu Mazen è arrivato a promettere nel suo discorso ad Annapolis che combatterà il terrorismo palestinese senza alcuna clemenza”. Il pessimismo è dunque il leitmotiv dei commenti della stampa araba alla conferenza di Annapolis.
Certamente non passano inosservati gli elementi positivi dell’incontro, come l’annuncio del premier israeliano Ehud Olmert che il suo paese “è pronto a prendere le misure necessarie per realizzare la pace” e che “siamo pronti a fare un compromesso doloroso, pieno di rischi, per realizzare queste aspirazioni”. Ma anche di fronte ad aperture apparentemente tanto positive, il mondo arabo non può a fare a meno di sollevare forti dubbi sul valore di queste dichiarazioni. E così alle parole di Olmert, Zuhayr Qasibati risponde su Al-Hayat: “Annapolis è soltanto l’inizio di un periodo di sacrifici. E se l’israeliano, come al solito, si dice pronto a dolorose rinunce, il grande interrogativo, la cui risposta cominciamo ad intuire con sempre maggior chiarezza, è: chi dovrà soffrirà di più?”.