La stampa araba ha seguito distrattamente l’appuntamento dei marocchini con le elezioni legislative tenutesi il 7 settembre scorso. Alla vigilia delle elezioni non erano pochi gli “esperti” occidentali preoccupati dai sondaggi che pronosticavano una schiacciante vittoria del partito di Giustizia e Sviluppo (Pjd). Il maggior timore era che l’ascesa al potere del più importante partito islamico del Paese potesse compromettere il cammino delle riforme democratiche che il Marocco ha intrapreso ormai da diversi anni. Nel mondo arabo, però, in pochi credevano che queste elezioni potessero dar luogo ad una sterzata in senso islamico per il Marocco. I risultati delle consultazioni elettorali, infatti, hanno visto il partito di Giustizia e Sviluppo ottenere soltanto 47 seggi su un totale di 325. Il partito nazionalista Istiqlal si è confermato come la principale forza politica del Paese. Di fronte all’evidenza dei numeri, che smentiscono ogni previsione allarmista, la stampa araba non ha perso l’occasione per rinfacciare agli analisti occidentali la loro incompetenza riguardo alle dinamiche politiche del mondo arabo.
“I risultati delle elezioni legislative del 7 settembre in Marocco – spiega Ridha Kefi sul tunisino Le Temps – hanno sorpreso coloro che si aspettavano un cambiamento radicale nel panorama politico del regno alauita, o addirittura una rivolta di palazzo. Chi conosceva meglio questo paese vi ha visto, al contrario, una conferma della sua capacità di progredire nel cammino democratico, seppure con i propri tempi e senza scuotere i propri equilibri secolari. Per noi tunisini, che condividiamo con i marocchini l’identità arabo-islamica e maghrebina, questi risultati offrono alcune lezioni che sarebbe bene non ignorare”. Una di queste è il fatto che i partiti nazionalisti, come ha dimostrato Istiqlal, non cadono mai del tutto nell’oblio e sono capaci di rigenerarsi e rifiorire. “Il Fronte di liberazione nazionale algerino (Fln) e alcuni partiti comunisti dell’ex blocco sovietico ne hanno già dato la prova in passato”.
Un’altra lezione importante è data dall’errore dei leader del Partito di Giustizia e Sviluppo che pensavano di replicare in Marocco il successo dell’omonimo partito al potere in Turchia. Essi hanno ignorato il fatto che il Pjd marocchino non possiede la stessa capacità di mobilitazione popolare del partito turco. Questo giudizio è condiviso anche da Wisam Saada che, sul quotidiano libanese Al-Safir, dedica un lungo articolo al confronto fra il Pjd marocchino e il suo “cugino” turco, l’Akp. Saada rileva innanzitutto una profonda differenza nel “contesto” in cui ciascuno dei due partiti si trova ad operare: da un lato la Turchia kemalista, una repubblica con una solida tradizione laica; dall’altro il Marocco, paese retto dalla monarchia alauita (che rivendica una discendenza diretta dal Profeta Maometto), il cui legame con l’Islam è sancito dalla Costituzione (al re appartiene per diritto il titolo di amìr al-mu’minìn, principe dei credenti) e che quindi possiede già una forte legittimazione su base religiosa.
Quanto al resto della stampa maghrebina, il più importante quotidiano marocchino, “Le Matin du Sahara”, a distanza di dieci giorni dalle elezioni non smetteva di proporre editoriali che sottolineano come “i risultati delle legislative hanno confermato una realtà intangibile, ormai inscritta in quella che diverrà la politica ordinaria del paese, ovvero che la democrazia prosegue il suo corso e le istituzioni che la incarnano si stanno rafforzando sempre di più”. Forte del giudizio positivo dell’Unione europea sulla trasparenza delle elezioni, il quotidiano filo-monarchico legge i risultati delle legislative come “il coronamento della visione di Sua Maestà il re Mohammed VI, la cui volontà di dotare il paese di istituzioni solide e democratiche fa il paio con la sua determinazione nel circondarle di una trasparenza e di legalità ineccepibili”.
Ma la stampa maghrebina ha molte voci. E tra queste ce n’è anche qualcuna indipendente come quella del quotidiano algerino El-Watan (La Nazione) in cui il giornalista Hasan Moali denuncia il fatto che, a dispetto delle previsioni, il panorama politico marocchino non sia affatto mutato. “La piramide dei partiti non è stata rovesciata”. Inoltre sarà Mohammed VI a nominare il Primo Ministro, come previsto dalla Costituzione. “Ancora una volta, l’ultima decisione spetta al re. E a lui solo”. La stampa del mashreq (l’oriente arabo), ha guardato alle elezioni marocchine con scarso interesse e senza cedere agli allarmismi tanto comuni presso la stampa occidentale. La giornalista Rania Adel ad esempio, pochi giorni prima delle elezioni, prospettava sull’egiziano al-Ahram “il rischio di una scalata delle forze islamiste”, ma riconosceva al contempo come il segretario generale del Pjd, Sa’ad El-din Othmani, spesso descritto come l’“Erdogan del Marocco”, abbia sempre presentato il programma del suo partito come fondato sul “referente islamico e sull’opzione democratica”: “Nella sua azione politica il Pjd non ha mai inteso scontrarsi frontalmente con la monarchia”.
In generale, la stampa dell’oriente arabo ha osservato con un misto di curiosità e ammirazione l’operato del Pjd. “Negli ultimi anni – scrive Jamil al-Nimri sul quotidiano giordano al-Ghad (Il giorno) – l’esperimento del Pjd ha attirato un grande interesse, poiché rappresenta la corrente islamica più importante del Marocco e si fa portatore di un discorso politico che coniuga un certo pragmatismo ad ampie vedute sul futuro del paese”. L’esperienza del Pjd induce inoltre ad una riflessione più ampia, che si può estendere ad altri paesi arabi: “I partiti islamici si orientano sempre più verso programmi moderati che non costituiscono una minaccia per le elezioni libere. Bisogna prendere atto che la diffusione dell’islam politico non può più essere considerata una scusa sufficiente per arrestare il processo di riforme in senso democratico”.
Riguardo al partito di Giustizia e Sviluppo non mancano, tuttavia, voci dissonanti come quella di Husayn Majdubi che scrive su Al-quds al-arabi (Gerusalemme araba)– tra i quotidiani internazionali, quello più interessato agli sviluppi delle elezioni marocchine. Per Majdubi la vittoria di Istiqlal non era affatto inaspettata. Una fetta consistente dell’elettorato, infatti, era diffidente nei confronti del Pjd, un partito ancora “giovane” (è nato nel 1992), qualità che nel mondo arabo è più spesso sinonimo di inesperienza e inaffidabilità che di rinnovamento e dinamismo. “Alla fine ha vinto la paura di imbarcarsi in un’“avventura” pericolosa scegliendo un partito senza un’identità politica chiara, con il rischio di importare un modello ‘orientale’, estraneo al modo in cui l’Islam è percepito e vissuto dai marocchini”. Istiqlal, al contrario, “rappresentava un miglior esempio di chiarezza, affidabilità e moderazione. Ha sempre difeso l’idea che la riforma è possibile attraverso l’istituzione della monarchia, ma mai contro o senza di essa”.
Un aspetto su cui tutti si interrogano, infine, è la bassissima affluenza alle urne nelle consultazioni elettorali marocchine. Soltanto il 37% degli aventi diritto ha scelto di andare a votare. Si tratta di un’affluenza eccezionalmente bassa, comparabile a quella registrata in Egitto nel 2005 (23%) e in Algeria nel 2007 (35%). Oltre a ridurre la reale portata democratica delle elezioni, una partecipazione così bassa è il segnale di una disaffezione dell’elettorato nei confronti della politica.
Per ‘Abdallah Khalifa, del quotidiano bahreinita Akhbar al-khaleej (Notizie del Golfo), il motivo di questo “raffreddamento” dell’elettorato marocchino risiede nella delusione per non aver visto realizzate le promesse della coalizione di governo in termini di assistenza sociale e di sussidi. “La gente chiede di risolvere i problemi legati al sostentamento” – scrive Khalifa, facendo eco ai tanti elettori intervistati a più riprese dai quotidiani marocchini. Come Ahmad, impiegato, che ha dichiarato al quotidiano Al-Tajdìd (Il Rinnovamento): “Io non sono andato a votare! Perché? Perché in 50 anni non ho visto alcun cambiamento. I candidati si prendono gioco dei cittadini e si occupano soltanto dei loro interessi privati. È per questo che il livello di partecipazione non è stato quello che ci si aspettava. La gente non è andata a votare per manifestare la propria rabbia nei confronti di una classe dirigente fallimentare”.