Gli attori in gioco. Da una parte ci sono le Corti islamiche, un gruppo originato dall’alleanza tra diversi tribunali religiosi locali. Vi militano sia esponenti moderati sia integralisti e secondo Etiopia e Stati Uniti sarebbero legate a gruppi terroristici. Le Corti tuttavia respingono ogni accusa di avere rapporti con al-Qaeda. Dall’altra, il governo di transizione. Nato nel 2004 dai colloqui di pace, è l’unica autorità riconosciuta dalla comunità internazionale. Di fatto non ha mai governato. Per due anni la sua sede è stata la città meridionale di Baidoa, a circa 250 km a nord di Mogadiscio. Questo governo è appoggiato dall’Etiopia, preoccupata dall’eventualità che in Somalia possa formarsi uno stato islamico, con conseguenze destabilizzanti per la sua sicurezza interna. A sua volta l’Etiopia è sostenuta dagli Usa, decisi a stroncare ogni insorgenza del fondamentalismo nell’Africa orientale. Sullo sfondo, gli altri stati della regione. L’Etiopia accusa l’Eritrea, con cui ha combattuto recentemente una guerra, di fornire armi alle Corti islamiche, ma Asmara nega. Il Kenya invece guarda con apprensione la possibilità che i profughi in fuga dal conflitto si riversino alle sue frontiere.
I fatti. Tutto è cominciato a giugno dell’anno scorso, quando le Corti islamiche hanno scacciato da Mogadiscio i vecchi padroni della città, quei signori della guerra saliti alla ribalta nel 1991, con la caduta del dittatore Siad Barre. Le loro milizie hanno poi conquistato tutto il sud del Paese. Dopo l’anarchia degli ultimi 16 anni, il governo islamico ha assicurato alla popolazione un minimo d’ordine e sicurezza. Certo, pagati cari, con l’applicazione di norme ispirate a un’interpretazione integralista della sharia: molti cinema e stadi di calcio sono stati chiusi, la musica occidentale proibita, i criminali giustiziati pubblicamente. Tuttavia, in tanti fra i somali hanno pensato che queste restrizioni fossero il male minore. L’Etiopia si è opposta da subito al nuovo regime, sostenendo il governo assediato a Baidoa. Da luglio ha fornito addestramento militare alle sue truppe e ha schierato mezzi e uomini nel Paese.
I mesi successivi sono trascorsi tra tentativi falliti di mediazione e preparativi per la guerra. A settembre il presidente ad interim della Somalia Abdullahi Yusuf è sopravvissuto a un tentativo di attentato. Il 25 ottobre il presidente etiope Meles Zenawi ha dichiarato che l’Etiopia era “tecnicamente in guerra” con le Corti islamiche. L’8 dicembre le Corti hanno affermato di aver ingaggiato la prima battaglia con le truppe nemiche a sud di Baidoa. Nel frattempo il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato la risoluzione 1725, che autorizza l’invio nel Paese di una forza di pace a sostegno del governo ad interim. Per ora soltanto l’Uganda ha dato la propria disponibilità all’invio di 1500 uomini. Il 24 dicembre l’Etiopia ha ammesso di avere soldati coinvolti in combattimento sul territorio somalo. In pochi giorni le milizie islamiche sono state sconfitte.
Il 28 hanno lasciato Mogadiscio e sono fuggite a sud, dove sono tuttora intrappolate tra la frontiera keniota e l’esercito etiope che avanza da nord, mentre dal mare una portaerei americana sbarra ogni via di fuga. Il 5 gennaio, in un messaggio audio, il numero due di al Qaeda Ayman al Zawahiri è ha lanciato un appello: “Esorto i fratelli musulmani ovunque si trovino nel mondo ad accogliere l’invito al jihad in Somalia”. Il 9 gennaio gli Usa sono intervenuti direttamente nel conflitto, bombardando alcune località nel sud del Paese dove sostengono ci fosse una base di al-Qaeda. L’obiettivo era eliminare i tre sospetti responsabili degli attentati alle ambasciate Usa di Kenya e Tanzania nel 1998. Nessun terrorista è stato ucciso e testimoni hanno riportato invece la morte di una trentina di civili innocenti. Per gli Stati Uniti si è trattato del primo intervento militare nel Paese dal 1993. L’operazione ha suscitato le reazioni negative di Onu e Unione europea. Il governo somalo, tuttavia, sostiene di aver autorizzato l’attacco.
Molte incognite. Intanto l’esecutivo provvisorio, guidato da Mohamed Ghedi, si è insediato a Mogadiscio e ha dichiarato tre mesi di legge marziale per ripristinare l’ordine sulla città. Ora sul futuro della Somalia pesano diverse incognite. La prima: che ruolo giocheranno i vecchi signori della guerra, con cui il governo sta cercando di trattare. La seconda: la posizione che terrà l’Etiopia. Il presidente Zenawi ha dichiarato di non voler lasciare a lungo le sue truppe nel Paese e gli etiopi sono malvisti dalla popolazione locale. D’altra parte, il governo è impotente senza un appoggio esterno e sembra improbabile che possa arrivare in tempi brevi un contingente internazionale. Infine c’è la minaccia di un’insurrezione armata che potrebbe essere scatenata dalle milizie islamiche e che rischierebbe di trasformare il Paese in un altro Iraq o in un altro Afghanistan, e far degenerare ulteriormente il conflitto.