Amira Kashgary viene da Taif, una città di montagna nelle vicinanze. È nata in una famiglia di classe media ed è arrivata a Gedda per studiare. Dopo la morte del padre, molto presto la madre raggiunse Amira a Gedda. In quei tempi tantissimi cittadini di Taif si trasferivano a Gedda. Le opportunità di lavoro offerte dalla vivace città di mare, la seconda per grandezza in Arabia Saudita, erano completamente diverse dalla tranquilla Taif, che è invece una località turistica nota per il suo clima fresco e gradevole. Amira si è laureata a Gedda, ma ha conseguito un master e un dottorato alla prestigiosa Università di Stanford in California. Dopo il rientro dagli Stati Uniti, ha insegnato linguistica e tecnica della traduzione all’Università di Re Abdulaziz di Gedda dove ha anche svolto attività di ricerca. Oggi è Professore associato presso la stessa università.
Si ritiene fortunata: è nata in una famiglia di larghe vedute, ha potuto viaggiare liberamente e fare ciò che ha voluto. È felice del grado di istruzione della sua grande famiglia: ha quattro fratelli e cinque sorelle che sono tutti laureati. È sposata con un ex professore della stessa Università, che ora fa l’imprenditore. Il marito l’ha sempre sostenuta.
Amira racconta che dopo il ritorno dagli Stati Uniti si è subito fatta coinvolgere nell’attivismo sociale, che da subito ha cominciato ad affiancare la sua attività professionale. Ha combattuto per i diritti delle donne e per il cambiamento sociale in Arabia Saudita. A partire dal 2001 ha scritto di questi argomenti sul giornale Al-Watan, il quotidiano più progressista dell’Arabia Saudita, spesso soggetto all’imposizione di misure disciplinari da parte delle autorità, che presto hanno “pregato” il giornale di interrompere la pubblicazione degli articoli Amira e di un’altra nota giornalista, Amal Zahid per un certo tempo. Secondo Rob L. Wagner, caporedattore del quotidiano Arab News in lingua inglese pubblicato a Gedda, a Amira è stato di fatto proibito di pubblicare qualsiasi cosa. Amira e Amal avrebbero ‘superato’ il limite, a causa delle loro prese di posizione a favore delle riforme democratiche. Hanno firmato un appello con il quale si chiedeva che l’Arabia Saudita diventasse una monarchia costituzionale. Ma per chi governa il Paese, la cosa più difficile da accettare è la richiesta della concessione di diritti politici ai cittadini. Ed è proprio per questo motivo che gli arresti e le carcerazioni sono frequenti, spesso senza un processo e per lunghi anni.
Il quotidiano Al-Watan perse il suo direttore, Jamal Khashoggi, già nell’ottobre del 2010. Khashoggi era noto per essere un capo “audace” del suo giornale. Il suo motto era “niente paura, né favoritismi”. Era stato costretto a dimettersi dallo stesso quotidiano già nel 2003 dopo soli due mesi scarsi di direzione, perché nel giornale aveva criticato gli i fondamendalisti islamici. Avevo conosciuto alcuni giornalisti del Al-Watan nel 2002, quando altri di loro erano in prigione.
In Arabia Saudita la questione della condizione delle donne assume un chiaro significato politico. Infatti, si tratta di una questione centrale nella lotta interna per il potere. Da una parte ci sono coloro che sostengono le riforme iniziate dal Re Abdullah e che vorrebbero ottenere ancora maggiori cambiamenti. Dall’altra ci sono coloro che pensano che anche un minimo cambiamento precipiterebbe il Paese “peccatore” all’inferno e nelle nelle mani del diavolo.
Secondo Amira la vita stessa in Arabia Saudita costituisce una sfida, ma vivere al suo interno da donna è una sfida ulteriore. Inoltre, vi sono le difficoltà che comporta l’attivismo sociale e la volontà di esprimere la propria presa di posizione nei giornali. Ma, nell’insieme, è soddisfatta della sua vita. I suoi figli adulti che vivono negli Stati Uniti le chiedono perché non si trasferisce là. Amira racconta che avrebbe potuto stabilirsi negli Stati Uniti, ma che non pensò nemmeno di rimanervi. “L’Arabia Saudita è la mia patria. Sono contenta di esserci, perché qui sono un pesce grande in una vasca piccola, mentre negli Stati Uniti sarei stata un pesce piccolo in una vasca grande.”
La figlia di Amira ha abitato negli Stati Uniti, ma ora, contagiata dall’entusiasmo della madre, è ritornata in Arabia Saudita. L’Arabia Saudita di oggi non le piace, e per questo è impegnata nel movimento giovanile per trasformare il paese. Due terzi della popolazione dell’Arabia Saudita hanno meno di 25 anni, e i giovani sanno che il futuro appartiene a loro. L’organizzazione non governativa fondata dalla figlia interviene in molti settori e organizza anche degli spettacoli teatrali nei quali si fa satira sui fenomeni politici e sociali.
Amira ha accettato sfide per tutta la sua vita nella speranza che un giorno la società possa cambiare. E ha trovato altre donne che condividono gli stessi obiettivi. Anche loro, insieme, hanno istituito un’organizzazione non governativa senza scopo di lucro.
Maha Akeel, quarant’anni, ha studiato per molti anni negli Stati Uniti, dove ha conseguito una laurea in scienze della comunicazione, marketing e studi sulla donna. È divorziata e non ha figli, “per fortuna”, dice lei. Con i figli il divorzio sarebbe stato un problema. Maha è il caporedattore del giornale della Conferenza Islamica che ha sede a Gedda. Prima, aveva lavorato come giornalista per il quotidiano Arab News, per il quale di tanto in tanto continua a scrivere.
La terza donna che ho incontrato, la cinquantenne Amal Zaid, a cui come a Amira è stato vietato di pubblicare, prima conduceva una vita da casalinga. Poi, poco più di di dieci anni fa, ha cominciato a scrivere novelle, rispolverando una vecchia passione per la letteratura. Con sei figli e un marito saudita tradizionalista aveva dovuto concentrarsi sulla vita familiare, e poiché il marito non avrebbe approvato la sua attività da scrittrice, per qualche anno fu costretta a scrivere di nascosto dal marito e a pubblicare i suoi scritti con il nome Amal Abdullah (Abdullah è il nome del padre).
Un giorno Amal decise di raccontare al marito della sua attività e lo mise di fronte a una scelta: accettarla come era, oppure il divorzio. La lotta tra Amal e il marito durò tre anni, ma alla fine il marito dovette desistere. “Lo scrivere ha cambiato la mia vita, perché ora ho trovato me stessa. Per due decenni ho avuto dei dubbi che non fossi più in grado di scrivere.” Amal aveva in programma di pubblicare le sue novelle in un libro, ma il divieto di pubblicare che le è stato imposto nel marzo 2011 l’ha fatta riflettere sulla sua posizione.
Un giornale degli Emirati Arabi uscito nel marzo 2011 ha parlato del divieto di pubblicare imposto a Amira Kashgary e Amal Zaid, spiegando che i conservatori sauditi criticano in rete la pubblicazione delle prese di posizione delle giornaliste. Secondo loro è contro l’Islam che le donne si espongano pubblicamente nei giornali e che esprimano i loro pareri sul mondo.
Sul sito giovanile Saudi Jeans c’è un articolo del 1° novembre 2008 che parla degli scritti di Amal e ne consiglia la lettura. Sotto il titolo L’ipocrisia dei sauditi e il rafforzamento della posizione delle donne si afferma che Amal Zaid è una giornalista e scrittrice conosciuta in Arabia Saudita, che presiede il club letterario di donne di Medina e scrive sul Al-Watan “dalle pagine del quale gli scrittori inclini al liberalismo portano dell’aria fresca nel dibattito sociale.” Saudi Jeans cita lo scritto di Amal che ha come argomento l’ipocrisia dell’organizzazione della polizia religiosa che si occupa del morale dei sauditi. La commissione per la promozione della virtù e la prevenzione dei vizi (The Commission for the Promotion of Virtue and Prevention of Vices), ossia l’organizzazione della cosidetta mutawwa, la polizia religiosa, ritiene che molti sauditi conducano una doppia vita. Talvolta, anche chi è religioso, conservatore e fedele alle norme ufficiali della società, conduce una seconda vita nascosta, spesso all’estero e caratterizzata da un comportamento sfrenato, spesso estremo.
L’articolo è seguito da un dibattito molto lungo, una vera battaglia tra opinioni opposte. I conservatori ritengono che la libertà rende le donne “prostitute” con figli nati fuori dal matrimonio e che per questo la libertà delle donne farebbe crollare la morale nella società. “Quando le madri non sono a casa, la società si riempie di schiavi della droga, perché anche una minima emancipazione delle donne crea una grande catastrofe”, dicono. Altri invece respingono questi pronostici e ricordano a tutti che le donne sono persone umane. Il sito racconta sia del dibattito sociale che dell’influenza di queste donne attive, indipendentemente dal fatto se riescano o meno a pubblicare i loro articoli nei quotidiani o nel sito Internet. Saudi Jeans infatto parla anche degli articoli di Amal Zahid che non sono stati pubblicati ma si sono diffusi con una notevole velocità in rete.
La quarta donna seduta con me nella hall dell’albergo è Suhair Farahat, anche lei una professoressa universitaria che scrive sul giornale riformista Okaz. Suhair ha studiato programmazione e amministrazione nel campo dell’istruzione. Ha conseguito tutti i suoi studi in Arabia Saudita, perché si è sposata all’età di 16 anni con un ufficiale proveniente da una famiglia di militari. La sua famiglia viene dalla Mecca, come anche quella di suo marito, ma sua madre è originaria dell’Egitto. Pur avendo sei figli è riuscita a studiare. Dopo la laurea, ha ottenuto un lavoro all’Università e cominciato anche a scrivere sul giornale Okaz, ma ciò era troppo per il marito, che le impose di stare a casa per occuparsi dei figli. Divorziarono, ma ora, dopo un lungo periodo di trattative, lei e il marito sono tornati insieme. Il marito ritiene di aver vinto una dura battaglia e di aver ottenuto ciò che voleva, ma così crede anche Suhair. Ora è libera di fare ciò che desidera, e il marito la incoraggia a scrivere e a partecipare a dibattiti, a parlare pubblicamente dei problemi del loro paese.
Nel 2008 Arab News ha raccontato le rivendicazioni di Suhair per migliorare la posizione delle donne nel mercato del lavoro. Suhair partecipava in quel momento al dibattito del forum nazionale dell’Arabia Saudita dove si parlava del mercato del lavoro e dei problemi sociali.*
Nel forum sul mercato del lavoro, Suhair ha proposto di aumentare l’età pensionabile delle donne dai 55 anni ai 60 anni e di diminuire l’orario di lavoro delle madri in difficoltà con i problemi domestici. Per le donne saudite ha rivendicato il diritto al part-time e al congedo di maternità (in Arabia Saudita non si parla mai di congedo parentale), oltre all’attuale “astensione dal lavoro” per maternità della durata di 40 giorni. Nello stesso forum, le donne più conservatrici hanno chiesto che in tutti i posti di lavoro in Arabia Saudita venga applicata la totale separazione dei sessi, come nel mondo scolastico, una richiesta che è venuta in risposta al Ministro della Giustizia che era intervenuto il giorno prima e che aveva spiegato che il lavoro degli uomini e delle donne nello stesso posto di lavoro non era problematico, se le donne portano il hijab e viene garantità la loro virtù.
Organizzare altre campagne nazionali delle donne
Amal crede che il sistema politico codificato dell’Arabia Saudita non sia in grado di vigilare su tutto. Per questo motivo ritiene che l’atteggiamento del sovrano su certi argomenti sia molto importante. Il Re e sua figlia Adelah sono favorevoli alle riforme, eppure la condizione delle donne saudite è ancora pessima. Per il diritto a guidare un’automobile, le donne del Paese lottano già da un paio di decenni, ma la decisione viene sempre rimandata. Questa lotta ha portato alla luce come pochi altri il conflitto tra i conservatori religiosi e i liberali, ma su questa questione il governo non ha ancora deciso su quale parte prendere, per timore soprattutto delle conseguenze politiche di una decisione che inevitabilmente susciterà molte polemiche, da parte dei conservatori o da parte dei liberali.
Secondo Amira, però, le donne dovrebbero incalzare il governo, e proprio questo hanno fatto nel 2011 quando il 17 giugno alcune donne coraggiose si sedettero al volante e hanno guidato le proprie macchine in varie parti del Paese. La campagna sul diritto alla guida è stato un tentativo – più o meno riuscito, senz’altro per il richiamo che ha avuto sull’opinione internazionale – delle donne saudite di essere una forza influente a livello nazionale.
L’attivista Manal Al-Sharif cominciò a far pressione sull’amministrazione dei trasporti perché rilasciasse alle donne una patente di guida. La sua campagna ha spinto molte altre donne a fare lo stesso e, ad oggi, decine di richieste di patenti di guida presentate da donne aspettano una debita risposta. L’amministrazione dei trasporti ha risposto negativamente, benché in Arabia Saudita non esista una legge che vieti la guida dell’automobile alle donne. Il divieto in vigore è infatti soltanto un’interpretazione da parte autorità.
Le debolezze delle donne: lavaggio del cervello, paura e individualismo
Secondo Maha, le donne non sono ancora in grado di svolgere un vero lavoro di gruppo, anche se individualmente lavorano e producono molto. “Dobbiamo imparare a unire le nostre forze e creare un’organizzazione che curi gli interessi delle donne. Abbiamo bisogno anche di una figura che diriga le attività delle donne. Oggi il lavoro di Amira è conosciuto, anche quello di Amal, Suhair e il mio, ma nonostante i nostri obiettivi comuni, noi portiamo avanti la nostra attività da individui,” dice Maha.
Qualche anno fa queste quattro donne hanno cercato di istituire un’organizzazione delle donne scrittrici, per unire tutte coloro che scrivono nei giornali o lavorano nei media, ma non sono riuscite a ottenere un’autorizzazione. Sono però riuscite ad organizzare un corso nel quale alle partecipanti sono stati insegnati i rudimenti dell’autorganizzazione. Per due anni hanno cercato di ottenere l’autorizzazione del Ministero delle Comunicazioni, che, però, ritenendo di non essere competente, ha girato la richiesta al Mistero degli affari e delle attività sociali. Questa risposta fornita dallo Stato a tante organizzazioni non governative ha scoraggiato le attiviste, benché esse non abbiano ancora rinunciato alla speranza di registrare la propria organizzazione. Senza autorizzazione, svolgere un’attività di qualsiasi tipo in Arabia Saudita può essere molto rischioso. Secondo Maha le donne saudite dovrebbero imparare dalle esperienze delle donne di Qatar e di Kuwait che incalzano i loro governi con molta più forza e determinazione. Secondo lei le donne saudite dovrebbero anche essere pronte ad accettare dei sacrifici pesantissimi, come anche la prigione, se intendono ottenere dei cambiamenti.
Secondo Amira alle donne saudite è stato inculcato molto timore, mentre in altri Paesi dell’area, le donne si sono già liberate da molte paure. Suhair ricorda che per esempio nel Kuwait le donne hanno ottenuto sostegno da organizzazioni politiche e dal governo, mentre in Arabia Saudita operano quasi da sole. Amal sostiene che sia la popolazione saudita a non volere i cambiamenti importanti. Le donne vengono trattate giuridicamente da “minori”, quando per esempio devono avere un tutore maschile della famiglia (un padre, un fratello, un marito o un figlio), un mahram che le accompagni ovunque, e che per le più progressiste rappresenta una profonda umiliazione. Maha critica le attiviste e i gruppi femminili per il fatto che di questo fenomeno si parla ancora molto poco. “Come possiamo immaginare di poter viaggiare da sole, guidare la macchina, essere candidate nelle elezioni oppure votare, se abbiamo bisogno del permesso di un uomo della famiglia per compiere qualsiasi passo? Come possiamo guidare un’unità lavorativa con anche dei lavoratori maschi, quando non possiamo nemmeno dire ai nostri figli maschi cosa devono fare. Al contrario, sono loro a decidere su ciò che noi siamo autorizzate a fare.”
Le donne, vittime di un Islam congelato
L’Islam ufficiale dell’Arabia Saudita è come un prodotto messo nel congelatore mille anni fa e che come tale deve essere ora seguito. Alle quattro attiviste ho chiesto un giudizio in proposito.
Maha ritiene che ci sono due “tipi” di Islam che interferiscono con la vita delle donne: l’Islam politico e l’Islam vincolato a un’unica interpretazione. “Questi due Islam cercano di ostacolare il cambiamento e le riforme in qualsiasi società musulmana: in Arabia Saudita, Iran, Egitto e in altri paesi. Eppure, non esiste un’unica interpretazione dell’Islam e l’Islam non include disposizioni per l’attività politica. L’Islam è un modo di vivere e tutti possono vivere secondo i precetti dell’Islam nella maniera che ritengono giusta. Esistono varie tendenze dell’Islam, tante scuole e esse sono diffuse dappertutto durante i quasi 14 secoli successivi all’epoca del Profeta. Il vero problema è che nella nostra società l’Islam è sotto il controllo di un’unica scuola. Questa scuola vuole costringere le altre ad adattarsi alla sua interpretazione dell’Islam. Sono proprio le donne le prime vittime di questa interpretazione, perché su di loro vengono applicate le interpretazioni più conservatrici dei versetti del Corano.”
Maha menziona in particolare il versetto coranico 34 della sura “Le donne”: “Gli uomini sono preposti alle donne, in ragione dei favori che Dio accorda a questi su quelle e per le spese che fanno coi propri beni” (traduzione di Gabriele Mandel Khan, UTET, 2006). La ricercatrice e arabista finlandese Sylvia Akar (Ihmisoikeudet ja islam, a cura di Kriina Kouros e Susan Villa, Like, 2004, p. 166) sostiene che il versetto vuol dire questo: gli uomini sono protettori/tutori delle donne. Akar è del parere che coloro che interpretano il Corano in modo progressista pensano che questo versetto significhi che la donna abbia il diritto di fare affidamento sull’aiuto dell’uomo e l’uomo abbia il dovere di mantenere sua moglie.
Maha Akeel condivide questa interpretazione, secondo la quale il marito deve prendersi adeguatamente cura della propria moglie. È così che infatti la maggioranza di traduttori e riformatori interpretano quella frase. “Per questo motivo noi lottiamo per eliminare quella interpretazione conservatrice. Crediamo che il governo stia preparando qualche cosa in questo campo. Purtroppo non ha ancora preso una chiara decisione pubblica in materia. Pubblicizzare ciò vorrebbe dare un messaggio diretto anche al pubblico internazionale sul fatto che il governo vuole suscitare dibattito e aprire a vari tipi di interpretazioni. Qui ancora non è permesso abbandonare le visioni salafite vecchio stile. In base alla visione tipica del salafismo dobbiamo seguire come tale, cioè alla lettera, qualsiasi cosa il Corano o le tradizioni del Profeta dicano. Oltre a ciò dobbiamo applicare queste parole del Profeta alla nostra vita.”
Questa spiegazione di Maha è molto importante anche perché lei stessa lavora per l’ex Conferenza Islamica, che oggi ha preso il nome Organizzazione della Cooperazione Islamica, che ha la sua sede principale a Gedda. Prima l’organizzazione era sotto il controllo dell’Arabia Saudita, ma ora le cose stanno cambiando. Dal 2005 l’organizzazione è diretta da un turco, il Segretario Generale Ekmeleddin Ihsanoglu, già professore universitario e diplomatico. Sul sito dell’organizzazione c’è scritto che il periodo sotto il presente Segretario Generale è caratterizzato da un desiderio di riformare l’organizzazione e il suo pensiero.
Parlo alle quattro attiviste dell’interpretazione del Grand-ayatollah iraniano Jussuf Sane’i, il quale ritiene che sono stati i sunniti a interpretare a suo tempo quel versetto in modo sbagliato. Il grand-ayatollah, vicino ai riformisti iraniani ritiene che nel Corano e nella tradizione non sia possibile trovare fondamento del fatto che la donna in qualche modo debba essere in una posizione inferiore rispetto all’uomo.
Secondo Suhair la condizione delle donne in Arabia Saudita viene associata all’Islam ma ritiene che un tempo l’Islam era una religione di apertura per le donne. Il problema non sarebbe l’Islam, ma coloro che lo applicano alla vita e soprattutto il modo in cui lo fanno. Per esempio in caso di divorzio, in Arabia Saudita ci sono dei giudici che abbandonano le donne al loro destino e decidono che un uomo straricco debba dare 500 rial (poco piu di 100 euro) al mese alla donna che mantiene i figli che hanno avuto insieme. Un altro problema è il fatto che le donne debbano aspettare dieci anni prima di ottenere il divorzio. Amal aggiunge che il divorzio viene visto quasi esclusivamente come un diritto dell’uomo.
Suhair rammenta che in realtà il matrimonio è un contratto tra uomo e donna e per recedere dal contratto ci vogliono tutti e due. All’atto pratico, nell’Arabia Saudita di oggi, l’Islam viene applicato nel modo che serve per le esigenze degli uomini al potere. Gli uomini pensano che se si comportano in modo diverso, perdono il loro potere di sorvegliare le donne. “Sono molto favorevole all’Islam e alle sue regole, perché l’Islam ha tante belle regole e rispetta le donne,” aggiunge Suhair. Intende, infatti, che l’Islam interpretato nel modo corretto è più favorevole alle donne rispetto all’interpretazione ufficiale attualmente seguita in Arabia Saudita, che secondo tante donne ha attinto molti aspetti dalle culture tribali e non dall’Islam in sé.
Amal ricorda che prima dell’Islam le donne non erano prese in considerazione ed erano completamente sottomesse al potere degli uomini, e che fu solo dopo la nascita dell’Islam che cominciarono a ottenere molti diritti. Ma dopo i primi tre secoli nel mondo sunnita si abbandonò il cosiddetto ijtihad – ovvero la possibilità di addentrarsi in nuove interpretazioni adeguate al contesto storico. Con l’aiuto dell’ijtihad, sarebbe stato infatti possibile “aggiornare” l’Islam. Amal pensa che il “congelamento” dell’Islam sia collegato all’idea che l’imposizione di una rigorosa disciplina alle donne equivalga alla possibilità di controllare tutta la società.
Maha ritiene invece che le stesse donne abbiano subìto il lavaggio del cervello che le ha portate a credere che l’interpretazione conservatrice dell’Islam sia l’unica possibile. Che la donna debba obbedire al marito, qualunque cosa egli decida. Sottolinea che molte donne non sono consapevoli dei diritti che l’Islam concede loro, che le scuole dell’Arabia Saudita non parlano di questi diritti alle ragazze. E quando le donne non conoscono i propri diritti, non hanno la possibilità di essere consapevoli della propria posizione e nemmeno di capire cosa si intenda per diritti. E non sono in grado di essere orgogliose del fatto di essere donne, aggiunge Suhair. “Le nostre donne non credono in se stesse, perché a partire da quando sono piccole, alle bambine viene detto che valgono meno dei maschi e che l’unico scopo della loro vita è di servire gli uomini. È compito delle donne consapevoli insegnare alle ragazze più giovani come uscire da questa credenza”.
Nonostante il pessimismo, le mie interlocutrici ritengono che in un paio di decenni siano davvero stati fatti dei progressi. Prima nessuna donna poteva fare vedere il proprio viso nei giornali o in televisione. Tra le donne che conoscono, una non ha mai mostrato il proprio viso in pubblico. Ma loro si ritengono pronte al cambiamento, anche se sono preoccupate della reazione della propria famiglia.
A Gedda il cambiamento infatti si intuisce in tante cose, anche nel modo di vestire. A Riyad è difficile vedere una donna saudita senza il hijab nero. Invece a Gedda la scala dei colori dei vestiti delle donne è molto più ampia. Amira ha detto che nel suo tempo libero non usa mai il hijab nero, ma ora lo indossa perché è appena uscita dal lavoro. Le amiche di Amira sono vestite con i hijab di color blu scuro, bordeaux e di color ruggine. Le donne di Gedda si ribellano contro l’obbligatorietà del modo di vestire.
I rappresentanti ufficiali dell’Islam in Arabia Saudita (The Senior Council of Ulema), un consiglio formato dai dotti del clero wahabita, non ha dato segni di cambiamento di linea. Quando il Ministero del Lavoro ha deciso che le donne potevano lavorare come cassieri nei supermercati, il Consiglio dei dotti ha condannato la decisione. Hanno dichiarato con una fatwa che il lavoro eseguito dalle donne è peccato e per ciò proibito, se viene svolto in un luogo pubblico dove siano presenti anche uomini. Tante donne avevano già iniziato a lavorare, ma sono dovute ritornare a casa ma più tardi sono ritornati a fare quel lavoro. L’Arabia Saudita conservatrice ha paura che le decisioni prese sul lavoro femminile possano minacciare la stabilità della società.
In occasione di un altro incontro e con altre donne ho discusso il fatto se la religione debba essere separata dallo Stato in Arabia Saudita. Alcune pensano che sarebbe una buona idea, perché darebbe a tutti la possibilità di agire sulla base della propria visione e spianerebbe la strada alla libertà di religione, della quale non si vedono segni in Arabia Saudita. Questo obiettivo è molto difficile da raggiungere in Arabia Saudita perché la separazione della religione e dello Stato è vista da molti sauditi come la premessa per la diffusione (e dell’“invasione”) delle chiese cristiane Penisola Arabica. La separazione le due cose sarebbe il modo per proteggere le religioni e per porre termine alle lotte tra varie religioni e tendenze. “Quando la religione viene separata dalla politica, tutti hanno più libertà”, dice una delle donne.
La separazione dello Stato e della religione e la laicizzazione sembrano ateismo per tanti sauditi e poiché l’ateismo è proibito, anche parlare di queste cose in Arabia Saudita rappresenta un rischio. Pure la parola liberale deve essere usato con cautela in questo paese. La donna che ha parlato con più audacia di queste cose pensa che la religione debba essere una questione privata. Questa donna rispetta molto le religioni, ma nessuno può avere il diritto di interferire in quello che tu bevi, mangi o in quello che tu vesti, perché queste sono delle cose strettamente personali. In Arabia Saudita, l’arrivo di questo tipo di libertà è ancora molto lontano.
—-
* Il forum nazionale dell’Arabia Saudita si riunisce sporadicamente per discutere diversi problemi. È nato nel 2003 quando in Arabia Saudita si cominciava a respirava un’aria più liberale. Il principe ereditario di allora Abdullah, l’attuale re, ha creato questo forum che è nato anche in risposta ai vari attentati compiuti da Al-Qaeda in Arabia Saudita. Tra i principali scopi del forum è stato quello di trattare il vasto problema di estremismo religioso esistente in Arabia Saudita. Uno degli avvenimenti più importanti è stato l’incontro tra il leader religiosa della minoranza sciita dell’Arabia Saudita Hassan Al-Saffar e dei rappresentanti del clero sunnita per discutere il tema dell’unità nazionale. Nell’incontro successivo è stata trattata la lotta contro il fanatismo e estremismo, nel terzo incontro i diritti delle donne.