Nel giro di settantadue ore è successo ciò che non è accaduto in un anno. La parole d’ordine è cautela, ma è chiaro che, rispetto ad altri interventi internazionali, la categoria della prudenza è stata già largamente applicata. Lo aveva già chiarito il titolare della Franesina, Giulio Terzi, sul palco di Situation Room, nota trasmissione televisiva della CNN: una risoluzione delle Nazioni Unite per chiedere un’azione militare ora “è molto improbabile”.
Il piano Annan, la tregua e le prime violazioni
Il primo punto dei sei proposti dall’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan prevede la fine delle violenze. L’opposizione da parte sua dovrebbe deporre le armi dopo altre quarantotto ore. Posticipato alle 6 (ora locale) del 12 aprile, secondo il Syrian Observatory for Human Rights il cessate-il-fuoco sarebbe stato violato più e più volte sin dalla prima giornata e non solo a Homs. Sulla rete sono stati caricati video che mostrerebbero come le proteste sono proseguite ad Aleppo, Hama, Daraa, in alcune zone di Damasco e altrove; e stando alle segnalazioni e ai filmati le violazioni sarebbero avvenute in più di sessanta località differenti. Per il Syrian National Council, che sul modello del CNT libico è formato da oppositori del regime all’estero, “non ci sarebbero prove di un ritiro significativo”. Per Annan, però, questo è già un primo passo. Quello successivo, su cui le Nazioni Unite premono, è quanto previsto nel terzo punto del suo piano e cioè uno stop di tutte le operazioni per circa due ore al giorno per portare soccorso ai feriti. Si parla da settimane di “corridoi umanitari”, ma Damasco frena e continua a respingerli come un tentativo di limitare la sovranità sul proprio territorio. Sul quinto punto, e cioè la libertà di circolazione in tutto il Paese per i reporter, il governo siriano ha reso noto che negli ultimi giorni sarebbero stati forniti visti di ingresso a giornalisti di 74 organizzazioni.
Per l’attuazione delle altre tre richieste (mettere in atto un processo politico aperto guidato dai siriani; il rilascio delle persone arrestate arbitrariamente, in particolare di quelle delle categorie più vulnerabili e quelle coinvolte in attività politiche pacifiche; l’impegno da parte delle autorità siriane a rispettare la libertà di associazione e il diritto di partecipare a manifestazioni pacifiche), bisognerà invece attendere che le condizioni sul terreno si stabilizzino, anche se c’è chi come Abdul Raouf Darwich, presidente del Collettivo 15 Marzo per la Democrazia in Siria, sostiene che quella del regime sia solo una mossa: “la posizione del consiglio nazionale (SNC, ndr) è chiara: il regime siriano respinge l’iniziativa di Kofi Annan e se ha accettato è solo per guadagnare tempo”.
La risoluzione e gli osservatori
Dopo un lungo braccio di ferro all’interno del Palazzo di Vetro, sabato pomeriggio (ora italiana), il Consiglio di Sicurezza è riuscito a trovare un accordo totale sulla Siria. Ventiquattro ore più tardi, i primi osservatori, scelti tra i caschi blu già presenti nel Golan, in Libano e in Sudan, sono stati già inviati nel Paese per controllare la tenuta della tregua.
Le Nazioni Unite hanno chiesto il rispetto del piano Annan, formalmente accettato da Bashar al Assad (http://www.un.org/apps/news/story.asp?NewsID=41779&Cr=Syria&Cr1=). In caso contrario, verranno valutate misure alternative.
Trenta osservatori sono ben poca cosa per assicurare una copertura efficace sul terreno, per questo l’ambasciatore russo all’Onu Vitaly Churkin ha rimarcato la necessità accelerare una seconda risoluzione, già annunciata a Ginevra dal portavoce di Annan, “che dia mandato integrale alla missione di 200-250 osservatori ”. Non è ancora chiaro, però, quali Paesi comporranno questa seconda, ben più cospicua, rappresentanza.
La Russia, insieme alla Cina, è stata protagonista di un intenso scontro diplomatico in seno alle Nazioni Unite su questo testo, bloccato per due volte perché Mosca chiedeva un documento più breve e tecnico incentrato solo sull’invio degli osservatori; tutto questo mentre il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, riferiva le “rassicurazioni” ricevute da Assad sull’attuazione del piano di pace e mentre l’agenzia Ria Novosti confermava la presenza “permanente” di navi da guerra russe in pattugliamento delle coste siriane.
La Turchia e la tesi del complotto
Col crescere delle violenze, nella parte di Mediterraneo che lambisce la Siria è aumentata la presenza di navi straniere: statunitensi, francesi, britanniche. È recente la notizia di un’imbarcazione che trasportava armi iraniane destinate alla Siria fermata in quelle stesse acque. A questo fermento ‘marinaro’ fa da eco la presenza della fregata russa Smetlivyj che pare rispondere silenziosamente ai vari rumors su un possibile, eventuale, futuro coinvolgimento della Nato contro Damasco, partendo dalla Turchia. Del ruolo di Ankara e di un vero e proprio complotto turco aveva parlato ufficialmente il ministro degli esteri siriano Walid al-Muallim, in una lettera inviata al segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Nel testo si fa riferimento ai recenti scontri a fuoco nei campi profughi turchi lungo il confine con la Siria. Muallim ha replicato così alle accuse del governo Ankara di violazione del suo territorio e ha denunciato una strategia di sostegno ai “gruppi terroristici che entrano in territorio siriano, attaccano i civili e distruggono le infrastrutture”.
Gli scontri al confine non sono una novità, così come non è una novità né il ruolo politico che la Turchia sta tentando di ritagliarsi nella crisi siriana (il Friends of Syria di Istanbul è stato molto criticato da Damasco e dai suoi alleati), né l’ondata di profughi che si sono riversati da subito al di là della frontiera, con tutto ciò che significa una presenza di circa 24mila persone straniere sul proprio territorio. Damasco accusa Ankara di lasciare questi confini troppo “liberi” la notte; mentre Ankara sa bene che su quegli stessi confini si gioca una partita molto importante per il suo futuro, non solo in termini di sicurezza e stabilità, ma anche per la parte che riuscirà a guadagnarsi a livello internazionale.
Immagine: FreedomHouse (cc)