Si fa presto a dire velo. Cosa c’è dietro un hijab
Sabrina Bergamini 31 maggio 2012

L’artista di strada Princess Hijab opera a Parigi: con uno spray nero o con un pennarello disegna sui corpi ammiccanti e seminudi delle grandi pubblicità di moda dei niqab che coprono il volto di modelle e modelli ma lasciano scoperte le gambe. Non si sa chi sia, non si sa neanche se sia musulmana, ma la sua opera invita a guardare al velo come una questione che riguarda tutti. L’immagine con cui Renata Pepicelli chiude il suo saggio “Il velo nell’Islam. Storia, politica, estetica” (Carocci editore, 2012) come sorta di conclusione aperta rappresenta bene quanto “la questione del velo” sia centrale ma anche complessa nel dibattito sociale e politico contemporaneo. Il velo infatti è pieno di significati: non solo perché ci sono tanti diversi veli – l’hijab, il niqab, il chador, il burqa – e tanti modi di indossarli legati al colore, alle fattezze, alla pesantezza o alla trasparenza di questo pezzo di stoffa che non è solo un pezzo di stoffa ma rappresenta anche un simbolo; ma anche perché, in quanto simbolo dalle molteplici interpretazioni, viene spesso usato come strumento ed emblema di discorsi sociali, politici, religiosi, culturali che passano sul corpo delle donne e si esprimono attraverso di esso. Il velo va però interrogato anche a partire dalle motivazioni e dai significati che gli attribuiscono le donne che lo indossano, come pure quelle che hanno deciso di non indossarlo. Ed è questa la prospettiva centrale del saggio di Renata Pepicelli, ricercatrice che si occupa di mondo islamico contemporaneo, che qui analizza il velo dal punto di vista della storia, della politica e dell’estetica a partire proprio dalla molteplicità di significati che il velo veicola.

Il velo è simbolo di identità musulmana, atto politico, adozione di un codice di comportamento, simbolo di appartenenza religiosa, scelta personale, espressione di un canone estetico. Per qualcuno il velo è simbolo di oppressione, di separazione fra i generi, di subalternità a una struttura patriarcale, di attentato alla laicità dello Stato. Il velo è tantissime interpretazioni diverse che spesso rispecchiano l’opinione di chi le esprime. Nel velo c’è l’elemento della libera scelta e ci sono le pressioni sociali e familiari a velarsi. Ci sono scelte politiche e religiose ma anche scelte identitarie ed estetiche, che spesso non vengono considerate e soprattutto non vengono inquadrate nella modernità e nell’attualità in cui vengono espresse. Se il Novecento per molti paesi è stato il «secolo dello svelamento», dalla Turchia di Atatürk all’Iran dello shah, il velo è poi ritornato in auge a partire dagli anni Settanta, quando è iniziata una «rivoluzione velata» che ha visto il suo uso estendersi sia nei paesi musulmani che in Occidente, nei paesi della diaspora. Per finire al centro di un dibattito aspro, fonte di veri e propri scontri. Scrive Pepicelli: «I movimenti dell’islam politico, così come i paladini del revival religioso islamico, hanno fatto dell’hijab il simbolo dell’identità musulmana e una prova dell’autenticità religiosa. Le femministe e i movimento cosiddetti progressisti, dall’altro lato, lo considerano un simbolo di oppressione, un’imposizione patriarcale che nega alle donne il diritto di decidere del proprio corpo. Oggi lo scontro ideologico attorno al velo si fa sempre più duro, mentre cresce – malgrado il tentativo di alcuni Stati di vietarlo – il numero di donne che lo indossano per libera scelta, condizionamenti sociali, legge, come nel caso di Iran e Arabia Saudita. Il velo è da sempre il barometro dei cambiamenti nel mondo islamico». Nonché terreno di confronto e scontro culturale in Occidente e in Europa.

A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, spiega l’autrice nella parte politica del saggio, si assiste alla «rinascita del velo». Accade per le donne dei movimenti islamisti, per le quali «l’adozione dell’hijab non simboleggia un ritorno al passato quanto piuttosto il segno della riappropriazione di un certo discorso islamico», atto di sottomissione a Dio, atto politico e di riappropriazione dello spazio pubblico in contrasto con l’ordine esistente. Ma il velo – lo testimonia proprio l’espansione del suo uso – non è solo adesione a un gruppo islamista, tanto che la sua diffusione si è progressivamente sganciata da questo legame. Il velo è anche adozione di un codice di comportamento che esprime modestia e religiosità, appartenenza religiosa, atto di fede che investe la sfera pubblica e segnala un movimento di riaffermazione della religione nello spazio pubblico che riguarda, argomenta Pepicelli, tutte le religioni. Il velo è spesso frutto, specialmente in Occidente, nei paesi della diaspora, fra le seconde generazioni, di una scelta personale o di una scelta politica che rivendica la propria identità musulmana. Anche se il concetto di identità è talmente complesso che, come accade in Europa, le donne che lo difendono lo fanno in nome dei diritti di cittadinanza e di un’identità plurale, non certo univoca.

Interessante è seguire le argomentazioni dei discorsi in favore e contro il velo, intrecciati con i tentativi di legiferare sul tema, fatti dalle donne musulmane. Per chi è contrario, il velo è simbolo oppressivo di sottomissione femminile e dunque va vietato, per altre il divieto è un atto politico quanto la sua imposizione; per chi si esprime in suo favore, il velo è simbolo di resistenza al consumismo e al culto dell’immagine. Fra le femministe islamiche, c’è chi indossa il velo e rivendica il suo essere di sinistra e chi il velo non lo indossa, oppure distingue contesti sociali diversi indossandolo solo in alcune occasioni e non in altre, in piena autonomia.

Se si guarda poi all’Europa, emerge come la questione del velo sia diventata centrale nel dibattito pubblico sulla laicità dello Stato e sull’uguaglianza di genere. Nel discorso che sottolinea la modernità della divisione fra Stato e Chiesa, spiega l’autrice del saggio, i veli delle donne musulmane sono diventati simbolo non solo di disuguaglianza di genere ma anche attacco ai principi della laicità, alle conquiste del secolarismo, rifiuto dell’integrazione ai valori europei. La questione del velo è anche guerra di simboli e, ricorda Pepicelli, di fronte alle leggi che lo vietano, le donne musulmane si sono appellate ai diritti umani universali, alla libertà di espressione e religione, ai diritti di cittadinanza. In Francia le ragazze hanno protestato velandosi e vestendosi con i colori della bandiera francese: «Con questo gesto provocatorio volevano rompere la dicotomia in cui si sentivano intrappolate: da un lato l’islam e dall’altro la repubblica francese», scrive Pepicelli sottolineando che il gesto indica l’affermazione del «diritto a un’identità plurima», quella di donne musulmane velate e francesi. In Italia, ai tentativi di imporre divieti al velo integrale un gruppo di donne italiane convertite all’islam ha risposto rivendicando l’autonomia di indossare il niqab quale frutto di un scelta di fede e non politica.

C’è poi un capitolo intero dedicato al velarsi in quanto «precisa scelta di autorappresentazione nello spazio pubblico e di espressione di un differente canone estetico». Aumentano i siti internet di moda islamica, che coniuga i principi islamici con le tendenze del design moderno: non sono abiti che rimandano al passato ma sono vestiti moderni, spesso alla moda, risposta a una domanda contemporanea di mercato, islamic fashion in cui le donne non sono affatto invisibili.

Il libro spiega tutto questo con una grande chiarezza espositiva. Quello che emerge è un racconto del velo, di come le donne motivano il velo, di come gli schieramenti opposti vedono (e usano) il velo. Emerge quanto la questione del velo non possa affatto essere ricondotta a una logica dicotomica che divida fra arcaico e moderno, fra islam e occidente, seguendo un approccio ideologico. Gli schieramenti contrapposti non funzionano per capire un fenomeno che è moderno e riguarda tutti, che investe il modo in cui ci si presenta e autorappresenta in rapporto a se stessi e al mondo circostante. Forse per questo il libro si chiude con l’immagine di Princess Hijab. Importa davvero sapere chi è? Quello che importa è che le sue macchie di colore nero lasciano interdetti, sparigliano il discorso e mescolano le carte. E su questo tema, avere certezze granitiche non sempre è un bene.