In questa intervista Benhabib, che è membro del Comitato Scientifico di Reset DoC, attribuisce in parte alla crisi dello stato-nazione il ritorno globale dell’Islam, ma ridimensiona la questione religiosa in Turchia, spiegando che lì la religione è solo più visibile rispetto agli anni ’60, ma non è più influente; che la battaglia tra i due principali partiti è anche una battaglia di elites; e che la religione conta più nella politica americana che in quella turca. Due stoccate, infine, le dedica a Ayaan Hirsi Ali (“E’ semplicemente disinformata, il partito dell’Akp non vuole una teocrazia”) e al presidente francese Nicolas Sarkozy: “Gli ricorderei l’esistenza dei criteri di Copenhagen, invitandolo ad attenervisi. Sarkozy usa la Turchia quale metafora delle sue difficoltà con gli immigrati musulmani in Francia, e del rapporto tra Europa e Islam così com’egli lo concepisce”.
La Turchia è stata teatro di fragorose proteste e manifestazioni contro la candidatura di Abdullah Gul, il ministro degli Esteri che vanta un passato da islamista, alle elezioni presidenziali. Crede che le paure cui si è data voce siano legittime in una democrazia o no?
Onestamente, non credo che Abdullah Gul avesse intenzione di stravolgere il modello dello Stato turco, né covasse il desiderio di rinnegare la laicità del Paese. Certo, l’opinione pubblica è rimasta irritata soprattutto dal valore simbolico della candidatura, e dal fatto – tra le altre cose – che la moglie di Gul indossa il velo. A molti è sembrato che il Paese fosse sul punto di una profonda trasformazione, almeno sul piano simbolico. Ma, ripeto, Gul non è un falso moderato, né il partito Akp (nelle sue grandi linee) mira a trasformare la Turchia in un regno islamista e fondato sulla religione. Il partito è probabilmente infiltrato da qualche elemento che coltiva quell’illusione, o che si prefigge quell’obiettivo. Ma non è il caso di Gul. Per certi versi, in Turchia si è assistito alla lenta ma costante genesi di un conflitto attorno alla questione presidenziale, la quale chiama in gioco la guida simbolica del Paese. Conflitto che è poi esploso. Ma il fatto che l’argomento sia stato esplicitamente messo sul tavolo rappresenta, a mio parere, un bene. E l’essersi chiesti quanto davvero lontano si sia spinto il progetto islamico in Turchia, e qual è il modus vivendi che esso propugna, è sicuramente un fatto positivo.
La Turchia odierna è più religiosa che negli anni ’60, durante la sua infanzia e adolescenza?
Non direi. È vero, però, che oggi la religione gode di maggiore visibilità ed espressione pubblica rispetto al passato. Io sono cresciuta nel retaggio di Atatürk, per cui la religione attiene alla sfera privata e va tenuta fuori dai luoghi d’istruzione, dalla sfera pubblica, e soprattutto dalla politica. Il quadro è cambiato notevolmente a partire soprattutto dagli anni ’80, che hanno visto una progressiva trasformazione e un risveglio globale dei costumi islamici. Personalmente, non credo che all’affermazione dell’Islam nella sfera pubblica corrisponda veramente e di necessità un incremento della religiosità tra la popolazione. L’unico cambiamento è la maggiore visibilità.
È possibile che l’irruenza – e forse la violenza – delle politiche di Atatürk e sulla religione in generale siano la ragione del fragoroso ritorno dell’Islam nella sfera pubblica turca?
Ricorda quanto diceva Herbert Marcuse a proposito del “Ritorno del represso”? Ebbene, è forte la tentazione di interpretare l’ascesa dell’Islam in Turchia in quei termini. Non credo, però, che ciò sia giusto né opportuno. Oggi assistiamo a un fenomeno di portata globale che ha trasformato l’Islam di Atatürk, retaggio dei Califfati e dei sultani dell’Impero Ottomano ai vertici della comunità islamica sunnita (un po’ come il Papa nelle terre cristiane). Con il crollo dell’Impero ottomano, infatti, i sultani persero anche i califfati. Si spostarono allora in Egitto, ove l’Islam era ben diverso: un connubio di religione e Stato. Atatürk si occupò, dunque, anche delle istituzioni deputate all’istruzione, le quali non contemplavano il concetto di laicità. Nel vecchio regime tali istituzioni – o almeno la maggior parte di esse –, infatti, erano nelle mani di gruppi religiosi, e agivano a mo’ di “logge” dotate di grandi poteri. Ovvero come organizzazioni segrete inserite nella struttura dello Stato. Contestualmente, c’era la religione della gente comune, assai devota e osservante, com’era il caso della classe contadina, che coltivava le proprie forme di religiosità e conservatorismo. Atatürk, quindi, era alle prese con la struttura di un antico Impero ove la religione fondava la coscienza e il ruolo dello Stato. Quel che avviene ora, invece, è un risveglio globale dell’Islam dovuto e alla crisi dello Stato-nazione, e al vento di globalizzazione.
Forse è possibile parlare di un risveglio dell’Islam anche nei Paesi occidentali, la cui intellighenzia è ossessionata dall’influenza che, in Turchia, la religiosità esercita sulla politica. Ma davvero la religione gioca nella patria di Atatürk un ruolo più incisivo che non negli Usa o in Italia?
Domanda sagace. La mia risposta è “no”. Anzi, scavando a fondo ci si accorge – forse – di come la politica sia simbolicamente pregna di valori religiosi negli Usa più che in qualsiasi altro Paese. Un esempio ficcante: la questione dell’aborto. In Turchia non se ne parla mai, e la ragione di questo silenzio va ravvisata nelle contrastanti posizioni teologiche. Mi pare che né l’Islam, né l’ebraismo considerino il feto un essere umano: la questione dell’aborto si riduce, in fin dei conti, al primato (più o meno stringente) della salute della madre su quella del figlio. Forse non è così per tutte le religioni, di certo non per il cristianesimo. In Turchia si discute, invece, dell’immagine della donna nella sfera pubblica, dell’obbligatorietà o meno del velo, delle figure deputate alla formazione e alla guida dei capi religiosi. Non dimentichiamo che c’è anche un ministero degli Affari religiosi, che è responsabile degli istituti di formazione religiosa. Il modello d’ispirazione, dunque, è quello francese, della laïcité. Allo stesso tempo, però, è lecito affermare che la religione non è del tutto indipendente dallo Stato (almeno non quella musulmana). Le religioni minori quali ebraismo o cristianesimo si appoggiano alle proprie istituzioni. Per la maggioranza musulmana, invece, l’istruzione è garantita dallo Stato.
Ricapitolando: se la sfera pubblica Usa e europea ospita temi quali l’aborto, la ricerca sulle staminali e (specie in Francia) l’interminabile affaire du foulard, la Turchia non registra quasi affatto il fenomeno. Qui la religiosità non è fattore che pilota specifiche scelte politiche e morali: agisce secondo criteri completamente diversi. Per gli europei – me ne rendo conto – può risultare un po’ difficile accettare che l’Islam non detta alcuna linea di condotta politica o morale sui cosiddetti temi “controversi”. E che è sbagliato postulare che se un partito al potere affonda le proprie radici in una religione (islamica nel nostro caso), quest’ultima esercita un potere ancora maggiore sulla politica del relativo Paese (leggi: la Turchia). Certo, è ben palpabile l’afflato religioso e il ritorno in auge dell’osservanza, ma le diatribe politico-religiose che fanno tanto clamore nella sfera pubblica occidentale esulano (fatta salva la questione del velo) dal contesto turco.
Il faccia a faccia tra i due maggiori partiti turchi simboleggia uno scontro culturale tra laici e religiosi, o piuttosto una lotta di potere tra vecchie e nuove élite?
L’uno e l’altra. Il Partito popolare repubblicano (Chp), difatti, è il vecchio schieramento di Atatürk che riunisce effettivi dell’esercito, dipendenti statali e della magistratura, insegnanti e tutti gli elementi “laici” in generale, i quali danno vita alla Repubblica. E la cui politica, se vogliamo, è pregna di giacobinismo. Non è rivoluzionaria ma “giacobina” nella misura in cui si crede che lo Stato e la Repubblica siano tutto, e l’individuo niente. I fautori di tale politica sentono di essere fortemente minacciati e “tagliati fuori”. Verso la fine degli anni ’50, una prima sfida al loro partito fu lanciata dall’emersione di un ceto medio legato al mondo industriale e finanziario, che avrebbe poi dato vita al Partito democratico. Da una parte, quindi, un’élite burocratico-militare; dall’altra, una borghesia locale e un ceto capitalista che, pur presenti all’interno della Turchia, non dipendevano dal potere statuale, e contavano tre le proprie fila i più ricchi imprenditori del Paese. Questi gli sviluppi industriali e il trend negli anni ’60.
Mi pare che il mutamento più importante che si è verificato sin da allora sia l’emersione di un ceto medio-basso anche in Anatolia. Gente che tutt’al più possiede un’officina di riparazioni auto, un negozio di generi alimentari, un hotel o un’attività nel mondo della ristorazione. La base elettorale del partito Akp (che sta per Adalet e Kalkinma, Giustizia e Sviluppo) è proprio questa piccola borghesia, per lo più mercantile, orientata ai valori del ceto medio e profondamente ostile alla sinistra, se non esplicitamente anti-comunista. Gente che crede nelle proprietà privata e spesso possiede un appezzamento di terreno e una casa e un’automobile. Questa nuova borghesia anatolica era stata in passato del tutto assente dalla politica turca. A rappresentarla erano le grandi élite: la borghesia e gli industriali di Istanbul, oppure l’esercito. Ora, però, con il progressivo sviluppo della Turchia, l’Anatolia ha fatto sentire la propria voce; non è più una regione desolata e marginale, bensì comincia a integrarsi economicamente, rinfoltendo le fila dell’Akp. Il cui zoccolo duro, quindi, ha oramai i tratti sociali della sua popolazione.
Commentando la recente crisi turca, Ayaan Hirsi Ali ha scritto sul Los Angeles Times: “I fautori dell’Islam al governo, come il Premier Recep Tayyip Erdogan, il ministro degli Esteri Abdullah Gul e il partito Akp, hanno fatto leva sul fatto che è possibile avvalersi degli strumenti democratici per erodere la democrazia stessa. Dopo un iniziale tentativo di Rivoluzione islamica fallito nel 1997, quando l’esercitò ordì un «golpe bianco» contro gli islamisti eletti al governo, Erdogan e il suo partito hanno compreso che la via del gradualismo avrebbe assicurato loro un potere più duraturo. Di certo, essi sanno che è possibile giungere a una totale islamizzazione della Turchia soltanto acquisendo il controllo dell’esercito e della Corte costituzionale. Leader europei di buone intenzioni ma ingenui sono stati manipolati dagli islamisti al potere e indotti ad affermare che l’esercito turco va posto sotto il controllo civile, come tutti gli eserciti negli Stati membri Ue. L’esercito e la Corte costituzionale hanno anche, e forse soprattutto, il compito di proteggere la democrazia turca dall’Islam”. Obiezioni?
(Ride) Sinceramente, mi aspettavo una domanda più difficile… Ayaan Hirsi Ali è una giovane assurta a un ruolo pubblico avvalendosi dell’arma dell’esagerazione, cioè liquidando l’Islam e tutto ciò che a esso è collegato quale esempio di fascismo o teocrazia. Le affermazioni citate sono semplicemente disinformate, e chiunque creda nei valori democratici non può assegnarvi alcun peso. Per prima cosa, non esiste il rischio di alcuna teocrazia islamica in Turchia. Glielo garantisco: anche nell’ipotesi che ciò dovesse avvenire, prima esploderebbe senz’altro una guerra civile. Come già detto, il partito Akp (e tantomeno la popolazione turca) non auspica alcuna teocrazia. Sta portando avanti un esperimento eccezionale. È strano, per un socialista-democratico – quale io sono –, sostenere e osservare attentamente un partito del genere. Lo si fa perché esso incarna anche una sorta di pluralismo nella società civile, ciò di cui la Turchia non può assolutamente fare a meno. Certo, è possibile che qualche elemento abbia coltivato tale speranza, ma senza alcuna conseguenza sulla situazione attuale.
L’esercito turco è stato protagonista della politica degli ultimi cinquant’anni, e chiunque si considerasse liberal-democratico auspicando al contempo il suo ritorno, darebbe prova di non conoscere i numerosi episodi di repressione scatenati proprio dai militari. Dopo due colpi di Stato, nel 1972 e 1981, e una successiva, momentanea battuta d’arresto, i militari hanno inscenato una vera e propria persecuzione nei confronti della sinistra – ciò che non si è mai verificato nei confronti della destra – e tentato di minare la base del movimento sindacale. Lo stesso esercito, tra l’altro, è infiltrato anche da elementi del nazionalismo estremista. Le parole di Hirsi Ali riflettono un errore di valutazione marchiano, questo lo scriva per intero. Deve scusarmi, ma quando sento certe cose non riesco a trattenermi… E il suo è il linguaggio dello scontro, e in sostanza offre una visione monocolore, ortodossa dell’Islam, che sarebbe totalmente chiuso ai processi di riforma e cambiamento. Un linguaggio che disvela un’idea assolutistica, acritica e invariabilmente positiva delle democrazie liberali, come se non avessero anch’esse i loro problemi e le proprie pecche. Ayaan Hirsi Ali ha deciso di lavorare per l’American Enterprise Institute e, di conseguenza, agire politicamente e pubblicamente attraverso un noto think-thank di destra con base a Washington. Rispetto le sue sofferenze come individuo e come donna, ma non posso non stigmatizzare il modo in cui ha scelto di affrontare questioni tanto importanti per tutti noi. La speranza è che, dopo un paio d’anni di vita negli Usa, possa cambiare idea.
Secondo il presidente francese Nicolas Sarkozy “Non c’è posto per la Turchia in Europa”. Cosa si sente di rispondergli?
Per prima cosa gli ricorderei l’esistenza dei criteri di Copenhagen, invitandolo ad attenervisi. Il legame tra Turchia e Unione Europea risale al 1957-’58, quando furono siglati gli accordi di Ankara, e quindi ha una sua storia. Sarkozy tenta di muovere un’obiezione “culturale”, o meglio culturalista, alla quale io sento di contrapporre una serie di cosiddetti obblighi istituzionali. È stato pubblicato un rapporto sui progressi compiuti dalla Turchia rispetto ai criteri di Copenhagen, dove pure la Turchia è stata “bocciata” su nove punti. Sono in corso negoziati. La mia più calda speranza è che si possa formare un consenso all’interno della Ue, grazie al quale procedere sulla base di analisi e criteri istituzionali, non sull’onda di vaghe generalizzazioni “culturali”.
Non è tutto. I rapporti tra Turchia e Francia assumono particolare interesse se letti alla luce dei problemi che quest’ultima registra con i propri immigrati. In fondo, di questo parla Sarkozy. Gli immigrati e i lavoratori stranieri turchi in Francia assommano, come ho potuto constatare nel corso di alcune mie ricerche, a non più di 700-800 mila unità. Molti di più quelli in Germania e in Olanda. Sarkozy usa la Turchia quale metafora delle sue difficoltà con gli immigrati musulmani in Francia – che provengono soprattutto da Algeria, Marocco a Tunisia – e del rapporto tra Europa e Islam così com’egli lo concepisce.
Pare di capire che Sarkozy non affronti la questione turco-europea, bensì quella degli immigrati arabi in Francia.
Esatto. Si innesca, in sostanza, un meccanismo di “dislocazioni”, mutuando il termine alla psicoanalisi. Quali critiche mirate, difatti, sono state mosse alla Turchia? Gli spunti, eppure, non mancherebbero: basti pensare all’assassinio del giornalista armeno Hrant Dinkt, alla persecuzione mossa nei confronti di Orhan Pamuk, o a come la magistratura turca sia tuttora infiltrata da elementi che si rifanno alla destra estrema e usano la legge per realizzare la propria idea di Stato. C’è di che criticare, eccome. Mi risulta, però, che sinora nessuno si sia mosso in tale direzione. D’altra parte, le questioni citate potrebbero rientrare sotto il cappello dei criteri di Copenhagen. Se davvero vuole aderire al progetto europeo, difatti, la Turchia dovrà intraprendere un serio cammino di riforme legislative. Il pensiero va all’Articolo 301 del codice penale, che prevede dure sanzioni per chi insulta l’“Identità nazionale turca”, e che va necessariamente abrogato. Sarkozy dovrebbe dedicarsi alla valutazione di questioni specifiche, cosa che sinora non ha fatto. Ha tentato invece di innalzare uno steccato facendo leva sulla paura. Di più: ne ha fatto il suo mestiere.
La Turchia può essere un modello per altri Paesi islamici moderati quali Marocco, Giordania, Egitto? Se domani la patria di Atatürk entrasse nella Ue, il Marocco non potrebbe fare altrettanto dopodomani?
La questione è duplice. Per prima cosa occorre chiedersi quali siano le frontiere dell’Europa. È una domanda fondamentale: per “confini” si intendono quelli definiti dalla Storia, dalla geografia o piuttosto dalla civiltà? Difatti, se la valutazione va fatta sul piano dei rapporti storici, tutti i Paesi del Mediterraneo hanno profondi legami con il Nordafrica. Mi pare evidente che solo agli occhi di un politologo idealista – e talvolta, nella veste di filosofo politico, ho agito in tal modo – il progetto di Unione Europea possa assumere le sembianze di un modello di federalismo cosmopolita o di struttura di governo federalista globale. In tale prospettiva, l’Unione europea diverrebbe un unicum al quale qualsiasi altro Paese potrebbe potenzialmente aggregarsi o ispirarsi. Ciò che riflette un progetto e un’ambizione utopica, che pure – ne sono convinta – mai dovremmo smettere di ricercare, tutt’altro. Da un punto di vista istituzionale e organizzativo, però, è chiaro che la Ue ha in sé dei limiti, e per tutta una serie di ragioni. Ora, è mia convinzione che la Turchia abbia giocato un ruolo fondamentale – sul piano tanto economico che storico e sostanziale – molto più a lungo e in maniera ben più decisiva di quanto si possa dire del Marocco. È per questa ragione che Angela Merkel ha proposto il modello di un “rapporto speciale” tra Ue e Turchia: a chiunque appare evidente che tra queste ultime vige un legame asimmetrico rispetto agli altri Paesi. Il mio auspicio è che il dibattito proceda nel solco dei criteri di Copenhagen: solo così si capirà quanto lontano potremo andare.
Ora, può la stessa Turchia fungere da modello? Ci fu un tempo, dopo la proclamazione della Repubblica nel 1923, in cui la Turchia era sicuramente un modello per un Paese come la Tunisia. Habib Bourghiba fu fortemente ispirato da Atatürk. È interessante notare, d’altra parte, come la Turchia sia stata un modello anche per l’Iran (che era allora un Paese laico) fino al periodo di Mossadeq (il quale fu spodestato dalla Cia). E per l’Egitto. Mi pare, tuttavia, che in questo momento si assista a un generale smembramento – meglio: a un’impasse – del modello di sviluppo laico pilotato dalle élite statali; quello di Nasser in Egitto, per intenderci, e in certa misura quello di Atatürk prima, e di Inönü poi, in Turchia. Si infrange nuovamente, difatti, il sogno del socialismo di Stato nel mondo arabo. Ora, spiegare le ragioni di tale smacco richiederebbe un’analisi troppo approfondita; ci basti ricordare che l’ascesa dell’Islam nel resto del mondo arabo fu per certi versi una reazione al fallimento dei vecchi modelli di sviluppo. C’è, va da sé, la débâcle araba del ’67-’68, che innescò una profonda dissoluzione. In ultima analisi, però, il problema è soprattutto di natura socio-economica. Diverso, in tale prospettiva, potrebbe essere il discorso per la Giordania. E se l’Egitto mi è parso in preda al caos e all’impasse, la Turchia è interessante emblema d’un Paese giovane, che vive un boom economico, e che potrebbe fungere da traino per lo sviluppo di altre nazioni. Economicamente la Turchia è oggi molto più avanti rispetto all’Egitto. Tutte queste considerazioni per giungere a una conclusione: più d’un Paese, oggi, tiene gli occhi puntati sulla Turchia. Tra di essi, forse, c’è anche la Siria. Non se ne parla mani, ma i due Paesi condividono una frontiera molto estesa. E non mi stupirei se, in un futuro più o meno prossimo, Siria e Turchia prendessero a coltivare rapporti sempre più stretti. Né rimarrei sorpresa se Asad desse il via a una trasformazione a “aprisse” il suo Paese. Staremo a vedere.
Traduzione di Enrico Del Sero