Quando parliamo del 1989 arabo o della Primavera araba, usiamo una metafora che si riferisce alle trasformazioni e alla democratizzazione avvenute nell’Europa dell’est. A preoccuparmi è il fatto che quando usiamo questo paragone per descrivere ciò che sta accadendo in Tunisia o in Egitto, esso potrebbe rivelarsi irrealistico o paternalistico, se non addirittura offensivo. Piuttosto, opterei per un poco di cautela: tutti tendiamo a essere comparatisti nelle nostre analisi, ma dobbiamo essere coscienti che si tratta solo di paragoni e non di una rilettura, reinvenzione o riproposizione di determinati avvenimenti in un luogo diverso.
Dovremmo prendere sul serio le trasformazioni democratiche, nei termini e nei processi con cui esse avvengono. Non dovremmo invece pretendere che vadano per un certo verso e che producano un certo tipo di risultati: insomma, non dovremmo pretendere dagli arabi che essi facciano esattamente ciò che ci aspettiamo da loro. Perché potrebbe non essere così, e il punto è proprio questo: la rivolta, o la rivoluzione, devono farla a modo loro e seguendo le proprie priorità. Io vivo negli Stati Uniti e vedo che qui aleggia una sorta di ossessione intorno alla Primavera araba: “Si trasformerà in regime islamico?” E allora? Se è questo ciò che i popoli di quei paesi vogliono, è questo che essi meritano. Con “paternalismo” intendo la pretesa di proteggere gli arabi da se stessi o di prescrivere ciò che essi dovrebbero fare, in modo che essi non facciano male a se stessi né a noi.
Tutte le rivoluzioni cominciano come rivolte. A volte, nel tempo, si trasformano in rivoluzioni e, altre volte, questo non accade. La rivoluzione americana cominciò come una ribellione contro la Corona inglese e, successivamente, si sviluppò seguendo le proprie dinamiche. Solo in retrospettiva siamo in grado di considerarla come una rivoluzione. La Riforma cristiana, per coloro che la portavano avanti, non era considerata del tutto tale. È di fondamentale importanza sottolinearlo, poiché situazioni come quella attuale sono legate alle proprietà dell’agire umano, ovvero alla nostra abilità di agire nel modo che riteniamo giusto in un dato momento e non perché è prescritto. Le rivolte arabe potrebbero diventare delle rivoluzioni oppure no, ma in ogni caso seguiranno le proprie dinamiche e non c’è motivo per farne un’ossessione.
Sono sudanese e ho sofferto molto dell’illusione di uno Stato islamico fondato sull’idea che la sharia dovesse essere implementata dallo Stato. Però, pur avendo attraversato questa esperienza e avendone sofferto personalmente, continuo a ripetere che se questo è ciò che la gente vuole sperimentare, bisogna lasciarla fare: è il diritto di ognuno come cittadino del proprio paese. Come mi aspettavo, il popolo sudanese ha realizzato che la via intrapresa è un vicolo cieco, ma ha dovuto scoprirlo da sé. Naturalmente spero che i popoli delle regioni vicine trarranno gli insegnamenti necessari da questa esperienza, ma non sento di poter prescrivere nulla.
Quando parlo della necessità di tener conto del processo e del contesto in riferimento alla Primavera araba non voglio essere deterministico, come se non si potesse far nulla. Si può fare molto: ma ciò che io faccio, lo faccio come agente tra altri agenti, perché credo nel principio dei diritti umani e perché vedo me stesso come attore e come soggetto coinvolto in queste trasformazioni, e non solo perché provengo da un paese vicino alla regione araba. Sono coinvolto soprattutto come essere umano che con i suoi simili condivide solidarietà e preoccupazione. Questo significa che mi sento obbligato a dare il mio contributo, ma in maniera delicata e rispettosa. È per questo che non accetto la dicotomia tra attori interni e attori esterni; ognuno di noi ha un ruolo, conformemente alle proprie condizioni.
Gli esseri umani interessati a quello che sta accadendo dovrebbero impegnarsi nel processo [rivoluzionario ndc], ma non dovrebbero pretendere di assumere su di sé il ruolo di primo piano che appartiene invece ai popoli in questione. È da questo punto di vista – “io ho un ruolo da giocare” – che voglio affrontare la questione del rapporto tra religione e potere politico, il ruolo dell’islam e della sharia nello Stato: è infatti una questione cruciale, anche se spesso vi è dell’imbarazzo quando se ne discute. I rischi che la gente crede di correre affrontando questo problema, però, sono molto maggiori quando non se ne discute affatto.
L’articolo 2 della Costituzione egiziana – quello che definisce l’islam come religione di Stato e la sharia come prima fonte della legge – è stato escluso dal referendum, benché, a mio avviso, sia del tutto incoerente definire l’islam come religione di Stato, poiché uno Stato non può “avere” una religione. E neanche la sharia può essere la legge dello Stato: infatti, l’articolo 2 contraddice l’articolo 1, secondo il quale alla base dello Stato egiziano vi è la cittadinanza. Per definizione, allora, se si afferma che alla base di una società vi è la cittadinanza, la sharia non può essere considerata come la fonte primaria della legge, poiché questo entrerebbe in aperta contraddizione con lo stesso principio di cittadinanza.
La costituzione tunisina è stata la prima a menzionare l’Islam come religione di Stato, ma fu quella egiziana del 1923 a introdurre la sharia come fonte della legge, salvo che poi è diventata l’unica fonte della legge. È un mito senza fondamento che però è ancora molto pericoloso, specie quando vediamo copti e musulmani uccidersi nelle strade di Alessandria o del Cairo. È assurdo parlare ancora dell’Islam come religione di Stato.
Quando dico che questo non è possibile, infatti, parlo proprio dal punto di vista dell’islam: lo Stato deve essere secolare per la possibilità stessa di essere musulmani. Credo che vi sia un obbligo religioso per un musulmano, che consiste proprio nel resistere all’idea di uno Stato islamico, poiché essa mina la possibilità di essere musulmano per scelta e convinzione. L’opzione di uno Stato islamico è incoerente, storicamente infondata e praticamente insostenibile: è una menzogna, e questo vale tanto per l’Arabia Saudita quanto per l’Iran.
Imporre allo Stato di essere neutrale nei confronti della religione non significa prendere posizione sulla religione, ma non significa neanche che la religione non abbia nulla a che fare con lo spazio pubblico. Semplicemente, distinguo lo Stato dalla politica: la religione e lo Stato devono essere separati, ma la religione e la politica non possono e non dovrebbero essere separati. I credenti agiscono politicamente come credenti, e noi dobbiamo confrontarci con il paradosso di mantenere la separazione tra Stato e religione in una realtà dove religione e politica sono intimamente connesse. È per questo motivo che introduco la nozione di “ragione civica”, distinta dalla “ragione pubblica” di John Rawls, troppo prescrittiva e troppo limitata dal punto di vista della partecipazione. Vorrei mantenere il discorso religioso come possibile candidato per la ragione civica nella pubblica piazza, ammesso che esso sia limitato e definito dalla costituzione. È una lotta e un paradosso, ma dobbiamo impegnarci per risolverlo.
Traduzione di Nicola Missaglia