Professor Guolo, chi sono i “musulmani G2”?
Fa parte della seconda generazione chi è nato da almeno un genitore immigrato ed è cresciuto in Italia; dunque vi appartengono anche molti giovani musulmani. Ma lo stesso termine “musulmani” spiega poco, a meno che non lo si usi presupponendo che essi presentino, ascrittivamente e immutabilmente, determinate caratteristiche, magari quelle attribuite loro dal “senso comune”. In realtà, soprattutto tra i più giovani, vi sono musulmani che vivono cercando di osservare i princìpi religiosi, altri che fanno riferimento alla dimensione culturale dell’islam, altri ancora che si secolarizzano o cercano nella reislamizzazione identitaria una sorta di bussola per navigare nei meandri quotidiani delle società dell’incertezza. Comportamenti, pratiche e vissuti religiosi assai differenti. Soprattutto tra i giovani, che hanno un’interazione molto attiva con la società italiana, e fanno parte della generazione della doppia “e” : e questo e quello, musulmani ma anche italiani. Dunque più che genericamente di musulmani, parlerei di individui che vivono in modo molto diverso il riferimento alla religione. Si tratta di capire, dunque, come si declinano le molteplici identità del musulmano di seconda generazione in un contesto come quello italiano.
Dunque come si presenta il contesto di accoglienza, cioè l’Italia del presente?
L’Italia non ha adottato alcun modello di integrazione, o meglio, di interazione culturale, a differenza di altri paesi, come la Gran Bretagna, che hanno adottato un modello multiculturalista, o la Francia, che hanno adottato il modello assimilazionista. Sia pure in modo diverso, e tenendo conto della loro specifica storia, questi Paesi hanno cercato di mettere in campo un discorso pubblico, definendo ciò che era riconoscibile o meno nello spazio pubblico in tema identità particolaristiche, religiose o culturali che fossero. Inoltre hanno definito l’accesso alla cittadinanza in termini di ius soli, ovvero di dimensione contrattuale dell’appartenenza alla collettività nazionale. Sono modelli non certo esenti da critiche, per diverse ragioni. Resta il fatto che l’Italia non ha fatto alcuna scelta sul versante dell’integrazione culturale, affrontando il tema dell’immigrazione secondo un’ottica solo di ordine pubblico o economica. Al mutare dei governi e delle maggioranze, sono prevalsi, di volta in volta, diversi orientamenti. Attualmente, per effetto del forte condizionamento imposto da un partito xenofobo, ci troviamo davanti a un modello che definirei “dell’assimilazionismo doveroso”. Un modello che chiede volontaristicamente allo straniero di aderire alle “nostre tradizioni” ma che ha una debolissima attrattiva perché in cambio dell’invocata rinuncia alle identità particolaristiche non offre un più facile accesso alla cittadinanza. L’assimilazionismo doveroso produce, in realtà, effetti perversi simili a quelli prodotti dal multiculturalismo spinto: induce infatti gli immigrati al ripiegamento identitario e la società italiana a disinteressarsi di quello che avviene all’interno delle comunità straniere e tra le giovani generazioni.
Qual è, in questa situazione, il ruolo dei giovani delle seconde generazioni?
La seconda generazione potrebbe contribuire ad abbattere il muro di diffidenza innalzato nei loro confronti dagli italiani per effetto della somatizzazione della tesi dello “scontro di civiltà”, dell’onda emotiva seguita all’11 settembre, dell’azione di attivi imprenditori politici dell’islamofobia, del timore di vedere stravolto il territorio, come luogo sociale, da presenze estranee. Può farlo promuovendo un’interpretazione adattiva della religione in un contesto, come quello europeo, caratterizzato dal pluralismo religioso e dall’individualizzazione delle credenze, oltre che mettendo in discussione quelle leadership comunitarie, comprese quelle degli attori dell’Islam organizzato, che non riescono a adattare la loro logica d’azione alla realtà in cui vivono oggi i musulmani immigrati. Compito ineludibile ma che richiede, perché si realizzi, anche alcuni passi da parte dello Stato italiano. Come l’avvio di politiche di inclusione e di cittadinanza: se i giovani della G2 diventeranno italiani, come loro già si sentono per aver frequentato le scuole italiane, per il fatto di parlare la lingua e di condividere spesso con il gruppo dei pari autoctoni i gusti, gli stili di vita, i consumi e le relazioni, tale compito sarà facilitato. Altro elemento che può favorire un simile esito è la fine della discriminazione istituzionale che, soprattutto a livello locale, rende difficile l’accesso agli stranieri ai servizi del welfare. L’assenza di cittadinanza e le discriminazioni istituzionalizzate possono produrre pericolosi atteggiamenti di chiusura. Situazione in cui prospererebbero leadership religiose ed etniche decise a coltivare separatezze e comunità del rancore, divenute potenziali serbatoi di conflitto.