Se foste capitati sulla homepage dei Giovani musulmani d’Italia (Gmi) appena una settimana fa, avreste trovato in bella evidenza due messaggi molto diversi tra loro. Nel primo, in nome della democrazia, si festeggiava il successo delle rivoluzioni di Tunisia e Egitto: «I popoli arabi sono scesi in piazza per riprendersi quella libertà di cui per troppi decenni erano stati privati». Nel secondo, in nome della repressione del dissenso, si comunicava l’espulsione «del fratello Khalid Chaouki» dal Consiglio dei Garanti, in sostanza per il suo non essersi adeguato alla «linea dell’associazione».
È così. Proprio mentre i giovani del sud del Mediterraneo indicano al mondo arabo un futuro di democrazia e pluralismo, e i religiosi si mischiano ai laici e agli atei (il Financial Times racconta in questi giorni come la nuova generazione dei Fratelli musulmani stia spingendo il movimento politico-religioso più significativo e più analizzato del mondo islamico ad aprirsi al futuro), i nostri giovani musulmani, come fossero un qualunque partito comunista dell’Europa dell’Est degli anni Ottanta (anche in quell’invito all’autodafé, quel loro sottolineare il «rifiuto» di Chaouki, «nel corso degli ultimi anni, di rimediare pubblicamente»), espellono uno dei fondatori storici dei Gmi: che, peraltro, è anche di gran lunga la figura del gruppo più nota al grande pubblico e quella che più si è battuta per il dialogo inter-religioso e per il confronto con il mondo politico.
«Pago alcune mie prese di posizione, anche dure, nei confronti di una certa ambiguità di alcuni settori dell’Islam italiano, e pago la mia condanna netta verso ogni forma di terrorismo e la mia battaglia per una maggiore trasparenza delle organizzazioni musulmane del nostro Paese – spiega a Resetdoc Chaouki, che oggi è direttore di Minareti.it, responsabile Seconde generazioni dei giovani del Pd e collaboratore di Reset, ed è stato già membro della Consulta per l’Islam istituita presso il Ministero degli Interni – È grave espellere uno dei fondatori, colpire il pluralismo e il dissenso, con modalità che non hanno nulla a che fare con i giovani musulmani dei paesi arabi, quelli che vediamo ad esempio in azione in questi giorni in Egitto e Tunisia».
Ma perché proprio adesso, se è vero che Chaouki, da quattro anni, non svolgeva attività all’interno dell’associazione? «Temo che la dirigenza dei Gmi sia tornata a sentire l’influenza di associazioni esterne – risponde – Come sostengono alcuni osservatori, si assiste a un arretramento progressivo nelle iniziative di dialogo e di apertura verso le altre religioni e la società. Parlo però solo della dirigenza nazionale, perché la base e le realtà locali sono spesso molto diverse». C’è un riferimento all’Ucoii in queste parole? «No, l’Ucoii si sta rinnovando, e al suo interno sta avendo la meglio la corrente più aperta alla modernità. Ma a Milano permangono comunque altre realtà radicali, nell’Islam italiano. Serviva un capro espiatorio, e l’hanno trovato».
Chaouki, nato a Casablanca nel 1983 ma arrivato in Italia nel 1992 grazie a un ricongiungimento familiare, cita tra gli episodi di scontro sia il tentativo di dialogo, nel 2004, con Magdi Allam («Secondo me era più utile dialogare con quella che si diceva un’ala laica dell’Islam che non farlo. Un confronto fallito, è vero, ma che secondo me andava tentato, e continuo a rivendicarlo, perché i Gmi dovrebbero cercare di rappresentare quanti più settori della comunità musulmana italiana possibili»), e l’aver co-organizzato, proprio con Reset, la visita in Italia del grande filosofo egiziano Nasr Abu Zayd, morto lo scorso luglio («Un intellettuale scomodo che, come mi è stato rimproverato, non rappresentava la linea dell’associazione dei Giovani musulmani»).
È curioso ricordare come Chaouki, appena tre anni fa, quando si candidò al Comune di Roma con la lista “Moderati per Rutelli” venne accusato dal Pdl (tra loro anche Fabrizio Cicchitto) di essere un “estremista dell’Ucoii”. Oggi la critica proviene dall’altra parte, ed è opposta: è troppo moderato. Su Facebook si scrive che Chaouki non aveva preso più parte alle attività dell’associazione (da cui si era dimesso come presidente nel 2004), e che ora avrebbe dato troppa pubblicità a quest’espulsione (di cui ha scritto anche Il Giornale). Per carità, ogni organizzazione fa come vuole, ed è corretto sottolineare che l’espulsione è dal comitato dei garanti, non dall’associazione in sé. Ma quale immagine si dà all’esterno (e all’interno) in un momento così? Non è sempre più utile mantenere al proprio interno (e anzi alimentare) una voce scomoda ma brillante, piuttosto che lasciarla andare via?