L’ex ministro degli esteri italiano Massimo D’Alema, in una recente intervista televisiva, ha raccontato con pragmatismo l’amara necessità dei Paesi occidentali di tenersi buoni alcuni regimi autocratici del mondo arabo, in assenza di un’alternativa democratica e per evitare il rischio del fiorire di nuovi gruppi ispirati al fondamentalismo religioso. Meglio i leader arabi autoritari ma “moderati” (agli occhi dell’Occidente), che uno scenario confuso e a rischio di fondamentalismo sebbene frutto di libere consultazioni democratiche (come l’Algeria post-elezioni dei primi anni novanta).
Un’analisi drastica e controversa, una tesi che rappresenta il primo freno allo sviluppo di un dissenso nel mondo arabo lontano dalle manipolazioni religiose o dalle ideologie post nazionaliste legate all’ormai decadente panarabismo. L’incoerenza delle leadership occidentali, gli Stati Uniti in testa, e l’utilizzo di binari differenti di giudizio e di relazione con i Paesi arabi sulla base dei propri interessi economici e geopolitici, ha di fatto indebolito e allontanato ancor più la speranza dell’emergere di un’elite di oppositori arabi riformisti e davvero democratici. E così ascoltando alcune voci del dissenso arabo si percepisce il senso di frustrazione e delusione innanzitutto nei confronti dei governi occidentali, incapaci di mettere al primo punto nelle loro agende di relazioni con i Paesi arabi il rispetto delle libertà individuali e dei diritti umani, risultando così corresponsabili agli occhi della stessa popolazione araba e complici delle decine di soprusi nei confronti della popolazione e degli oppositori politici in particolare.
Ma rispetto al passato, oggi il dissenso arabo appare più maturo e disposto a sfidare i regimi senza doversi rifugiare nelle capitali europee come avveniva in passato. Ora in campo vi è una nuova generazione di oppositori e dissidenti, che anche grazie allo spazio importante offerto negli anni scorsi da al Jazeera e grazie al supporto dei movimenti civili europei e americani, si sente più tutelato e pronto a sfidare il regime, anche rischiando la galera e il dramma della tortura come tuttora avviene in alcuni Paesi arabi. Una nuova generazione di dissidenti arabi che dialogano in diretta tramite internet con i loro coetanei occidentali, condividendo tutti insieme il disagio per un nuovo mondo in cui si sentono tutti insoddisfatti di una globalizzazione che avvantaggia le classi alte e indebolisce le fasce più povere. Sia in Occidente che nel mondo arabo. In una determinata misura, la nuova generazione dei dissidenti arabi non si accontenta più di ricevere messaggi di solidarietà, velati talvolta da un approccio terzomondista ormai fuori tempo, ma desidera a gran voce farsi sentire in maniera autonoma, sfruttando la tecnologia e chiudendosi a qualsiasi tentazione vittimista.
Il gruppo dissidente libanese capitanato da Samir Kassir, assassinato a Beirut nel giugno 2005 e autore di un’illuminante raccolta di scritti “L’infelicità araba”, sogna un mondo arabo finalmente affrancato dalla malattia dell’ideologia e delle demagogie volte a camuffare le responsabilità dei regimi in nome di un’aggressione occidentale e del complotto “sionista-americano”. Un movimento che lascia da parte i passati scontri tra laici e islamismi, e cerca di tracciare una nuova prospettiva di società araba liberale e rispettosa delle differenze e del pluralismo politico e religioso. Samir Kassir, come la tunisina Sihem Benzedrine e l’egiziano Saad Eddine Ibrahim, sono solo alcuni nomi noti del dissenso arabo che hanno voltato le spalle all’ipocrisia occidentale per assumersi in prima persona la responsabilità e il pericolo di portare nel bel mezzo dei tribunali militari e delle detenzioni senza processo una sola richiesta: la libertà.
Khalid Chaouki, giornalista, è membro della Consulta per l’islam italiano e direttore di Minareti.it