Alcune settimane fa, Reset ha pubblicato un articolo di Larry Diamond nel quale l’autore affronta la domanda: “Perché non c’è nessuna democrazia araba?”. Ma, sorprendentemente, gli eventi recenti in Tunisia e le dimostrazioni in Egitto suggeriscono che la democrazia è possibile in uno stato arabo. E’ rimasto sorpreso da quanto è accaduto?
Ci sono voluti alcuni mesi, ma si può dire che l’evento è stato inatteso. Molte persone hanno parlato negli ultimi 10-15 anni di un “eccezionalismo arabo”. Fino a 25 anni fa lo si chiamava “eccezionalismo islamico” perché i musulmani erano visti come persone differenti dal resto del mondo e questa era la ragione per la quale non avevano una democrazia. Il cosiddetto eccezionalismo islamico è un’affermazione falsa perché il 75% del mondo musulmano è in realtà sotto la guida di governi eletti democraticamente (Indonesia, Malesia, Bangladesh, Albania… senza dimenticare l’India con i suoi 165 milioni di musulmani). Prendiamo l’Egitto come esempio. L’Egitto ha creato il suo primo Parlamento nel 1866, cioè 4 anni prima dell’Unità d’Italia con Roma come capitale. L’Egitto è stato una democrazia per circa 100 anni, fino alla Rivoluzione di Nasser del 1952 che ha messo fine all’epoca liberale egiziana ed araba. A mio parere, la causa della conclusione di questo periodo è da cercare nella creazione dello Stato di Israele.
Come può argomentare questa connessione fra i due fatti?
Gli eserciti arabi sconfitti tornarono a casa cercando un capro espiatorio che permettesse loro di spiegare perché avessero perso la prima guerra arabo-israeliana. Invece di rendersi conto che esistevano varie ragioni per la loro sconfitta, hanno incolpato i governi liberamente eletti. A soli tre mesi dalla firma del trattato di armistizio con Israele, ha avuto luogo il primo colpo di Stato in Siria, seguita dall’Egitto e poi dall’Iraq.
I regimi dei paesi arabi, sia quelli semi-autoritari che quelli interamente autoritari, si presentano come una protezione contro il rischio della salita al potere degli islamisti. Tuttavia, gli eventi che si sono susseguiti in Tunisia sono stati interamente secolari. L’islamismo non si è visto…
Nel migliore dei casi, gli islamisti potrebbero ottenere fra il 20 e il 30% dei voti in qualsiasi governo eletto. Non più di questo. Questi sono i risultati delle ricerche e delle indagini che abbiamo portato avanti negli ultimi trent’anni presso il nostro centro, l’Ibn Khaldun Center for Democratic Studies. Tuttavia, nella nostra parte di mondo, i dittatori usano lo spettro dell’islamismo come scusa per spaventare non solo l’Occidente ma anche il ceto medio locale.
Vuole dire che la situazione che riguarda l’influenza elettorale degli islamisti è abbastanza omogenea nei paesi arabi?
Ciò che voglio dire è che gli islamisti possono ottenere fra il 20 e il 30% dei voti e ciò significa che in alcuni paesi possono totalizzare anche meno del 20% mentre in altri possono arrivare fino al 30%. Anche in Egitto dove i Fratelli Musulmani operano da 80 anni, il risultato sarebbe lo stesso.
La situazione cambierà nel prossimo futuro?
Gli islamisti esistono in Tunisia, come anche in Egitto, Marocco e Algeria. Non sono la maggioranza, ma sono ben organizzati. Ciò spiega perché, in caso di elezioni, gli islamisti si ritroverebbero nel blocco maggioritario apparendo così il gruppo dominante.
Gli islamisti tendono a presentare come prevalenti i punti in comune fra i paesi arabi. Esistono invece delle significative differenze strutturali fra queste nazioni che debbono essere considerate quando si parla delle possibili evoluzioni future?
Certamente. Ci saranno sempre due dimensioni. La prima è quella panaraba: ogni arabo dall’Iraq al Marocco sente di avere elementi in comune con gli altri arabi: tutti guardano Al-Jazeera, ascoltano le canzoni egiziane e libanesi e guardano i film egiziani. Se uno stato arabo sta giocando una partita di calcio contro uno stato non arabo, tutti faranno il tifo per la squadra araba. Ma se la partita è fra l’Algeria e il Marocco, allora si vede quanto la lealtà alla propria nazione sia forte. E’ forte esattamente quanto il sentimento panarabo.
Il regime di Mubarak è impopolare quanto quello di Ben Ali?
Direi anche di più.
Qual è la geografia dei partiti d’opposizione in Egitto?
Se in Egitto ci fossero elezioni libere e imparziali, il partito di Mubarak otterrebbe il 40% dei voti e i Fratelli Musulmani il 20%. Un altro 20% verrebbe acquisito dal partito al-Wafd, un partito creatosi nel 1919 ma dichiarato illegale durante il governo di Nasser. Venti anni fa il partito si è riformato e oggi registra un significativo successo popolare nelle zone rurali e presso il ceto medio. Il partito di Mubarak controllerebbe il blocco più imponente ma la maggioranza verrebbe determinata dai partiti minori.
Ha pensato di ritornare alla vita politica?
Nel 2004 ho sfidato Mubarak quando ho dichiarato che mi sarei candidato alle elezioni e che, se fosse stato sicuro di se stesso, avrebbe dovuto cambiare la costituzione per permettermi di partecipare. Fino a quel momento, la costituzione non permetteva l’iscrizione di candidati multipli. Sotto pressione popolare, Mubarak acconsentì ad emendare la costituzione nel 2005, un anno dopo l’inizio della mia campagna. Tuttavia, si assicurò di farlo in maniera che fosse impossibile per me partecipare alle elezioni. Il candidato in corsa avrebbe dovuto essere membro di un partito legalmente riconosciuto e non ve ne era nessuno. Inoltre il candidato doveva essere in possesso della sola nazionalità egiziana mentre io avevo la doppia cittadinanza (egiziana e americana).
In un articolo sul ruolo degli americani nell’evoluzione della situazione dei paesi arabi, lei ha criticato Obama per la sua mancata pressione a favore della democrazia. Crede ancora che Obama sia in errore?
Quando Obama è salito al potere, gli è stato detto che il conflitto arabo-israeliano era il problema principale in Medio Oriente e che, per riuscire a fare qualsiasi cosa in quell’area, fra cui interagire con l’Iran e l’Afghanistan, avrebbe dovuto prima risolvere questo conflitto. Ciò era in parte vero ma quello che lui ha fatto è stato trascurare la promozione della democrazia. Non è riuscito a capire che democrazia e pace sono due facce della stessa medaglia e che doveva lavorare simultaneamente su entrambi i fronti.
Il ruolo della Turchia nel mondo arabo sta cambiando. Nel passato, il regime kemalista ha cercato di contenere la religione ma oggi il paese è governato da un partito islamico democratico.
Sono fondamentalmente d’accordo. La Turchia è un buon modello nel quale ci sono partiti di tendenza islamica che credono nella democrazia e rispettano i diritti umani. Faccio sempre un’analogia con i partiti democratici cristiani in Europa, fra cui l’Italia. Questi partiti lavorano in un quadro di riferimento cristiano ma credono nella democrazia e partecipano alla vita politica. Si tratta di un modello da cui imparare.
I paesi del Golfo possono svolgere un ruolo nello sviluppo dei paesi del Maghreb e del Mashreq?
Il Kuwait è un buon modello. Ha una democrazia che va avanti da più di 50 anni, fin dall’indipendenza, con la sola interruzione di 3 anni durante la Prima Guerra del Golfo. Lo segue il Bahrain. La sua democrazia è più recente di quella del Kuwait ma è comunque solida.
E per quanto riguarda Al-Jazeera, la televisione panaraba di proprietà del Qatar e con sede nell’emirato, e la Arab Democracy Foundation possono avere un ruolo e sostenere l’opposizione?
Io sono stato il Primo Segretario dell’Arab Democratic Foundation e Sheikha Moza, la First Lady del Qatar, è la figura centrale alle spalle della Fondazione. Ha sempre fermamente creduto che il Qatar è pronto e c’è un piano decennale per la sua completa democratizzazione. Nel 2015 avranno luogo le prime vere e proprie elezioni parlamentari.
Quale sarà il ruolo dell’Arabia Saudita?
L’Arabia Saudita sarà una delle ultime nazioni a diventare democratica. Nel 2005 venne realizzato un esperimento di elezioni municipali locali e fu molto dinamico ma, da allora, il processo sembra essersi rallentato. L’Arabia Saudita ha tutto ciò di cui necessita per diventare effettivamente una democrazia, tuttavia la famiglia reale e le istituzioni religiose credono ancora che la democrazia sia un prodotto importato dall’Occidente che minaccia il loro potere.
Cosa suggerirebbe all’Unione Europea e ai governi dei paesi europei per aiutarli a sostenere il processo di democratizzazione?
Dovrebbero lavorare per la promozione della democrazia che gli americani con Obama hanno trascurato. Dovrebbero essere pronti ad aiutare ogni nazione che voglia portare avanti questo processo e offrire trattamenti di favore e usare adesioni o accordi associativi con l’Unione Europea come ricompensa per quei paesi che si muovono verso la democrazia.