Quando il razzismo è discriminazione di Stato
Sabrina Bergamini 27 aprile 2012

In Italia è un’espressione quasi assente dal dibattito pubblico. Eppure, se è semplice puntare il dito contro le aggressioni individuali esplicitamente razziste, meno facile è identificare quel complesso sistema di norme e politiche, meno appariscente ma in qualche modo più violento e più pesante sulla vita degli individui, che finisce per creare discriminazione e disuguaglianza dei migranti e per alimentare costantemente questa disparità.

L’Italia è un paese razzista perché «in Italia si è avviata la costruzione di un sistema razzista, reso efficace e duraturo dalla legge, che rischia di portare a una frattura della popolazione dai perniciosi effetti di lunga durata». È quanto scrive Clelia Bartoli, docente di Diritti umani nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo, nel saggio “Razzisti per legge. L’Italia che discrimina” (Editori Laterza 2012) che esplora e applica al contesto italiano un concetto, quello di razzismo istituzionale, che affonda le sue radici nel Black Power degli anni Sessanta e si diffonde poi nel dibattito pubblico della società britannica negli anni Novanta.

Per determinare il razzismo di un’istituzione non è necessario che dietro vi sia una esplicita ideologia razzista: «basta che una certa legge, una politica, una pratica vigente di fatto crei, perpetui o aggravi la disuguaglianza di minoranze etniche, culturali, religiose o nazionali». Lo spettro di casi che può rientrare in questo fenomeno è dunque molto ampio e «la gravità del razzismo istituzionale non va misurata guardando alle intenzioni di chi lo ha prodotto, ma giudicando l’entità dei danni che determina» [corsivo dell’autore, ndr]. Si articola in una scala ideale che va da azioni e dichiarazioni razziste di esponenti politici, ad atteggiamenti discriminatori di pubblici ufficiali, per salire ai regolamenti più o meno velatamente xenofobi degli amministratori locali, alle leggi nazionali che intaccano i diritti dei migranti e creano allarme, per arrivare alla cattiva qualità delle leggi e dei regolamenti prodotti, alla cattiva organizzazione delle istituzioni, al peso della burocrazia «lenta, cangiante e complicata», fino a salire alle politiche scolastiche, abitative e lavorative che hanno un impatto sulla vita degli immigrati. Si crea disparità di trattamento, e questo a sua volta produce divisioni nella società.

L’autrice esplora le diverse forme del razzismo attraverso analisi teoriche ed esempi pratici, casi singoli (come l’assegnazione a una famiglia rom di un prestigioso appartamento confiscato alla mafia) e vicende note, quali i respingimenti in Libia e la cattiva gestione da parte delle istituzioni italiane della “emergenza Lampedusa” del 2011. La sua tesi è che «i migranti stiano subendo un processo di razzializzazione». Sostiene Bartoli: «Quando l’etnia, la nazionalità, la cultura e la religione non sono trattate come categorie aperte, negoziabili, mutanti, frutto di processi storici, ma come un dato naturale, inalienabile, immutabile, che determina totalmente i comportamenti e le opinioni dell’individuo che vi è rubricato e ne decreta l’incommensurabile diversità dal «noi», allora divengono nomi criptati del concetto di razza». Il diritto finisce dunque per creare, quasi fossero nuove denominazioni di razza, l’identità di “straniero” – che rischia di rimanere tale a vita e non ottenere mai la cittadinanza per residenza, perché questa è basata sullo ius sanguinis e difficile da ottenere anche per i figli degli immigrati nati e vissuti in Italia – e quella del “clandestino”, che è tale per definizione di legge – «La clandestinità è una sorta di status d’eccezione in cui finanche i diritti fondamentali possono essere sospesi».

Viene inoltre sottolineato il ruolo delle responsabilità di sistema: ci sono contesti e istituzioni che alimentano la discriminazione e la violenza, e questo pone l’esigenza di risalire verso l’alto la catena delle responsabilità per chiamare in causa quelle dei vertici e dei capi. Rifacendosi alle elaborazioni teoriche e pratiche esistenti, l’autrice spiega che è il caso non delle “mele marce” ma dei “cattivi cestini” che rendono marce le mele. Nel saggio questo approccio viene usato per analizzare il caso di Lampedusa e l’emergenza che si è creata nell’isola nel 2011. In realtà, all’inizio Lampedusa è stata una “anomalia”, argomenta l’autrice, perché nonostante il difficile contesto l’isola non è esplosa, ma è stata teatro di catene di solidarietà e di aiuto reciproco fra abitanti dell’isola e migranti appena sbarcati, smentendo in questo modo etichette, emergenze e pregiudizi alimentati anche da istituzioni disorganizzate e ciniche. È solo in seguito che l’isola è diventata teatro di scontro, quando l’azione delle istituzioni ha di fatto “premiato” la rivolta e l’intolleranza e non l’accoglienza che in origine si era creata, quale forma di resistenza comune nei confronti di una situazione oggettivamente difficile.

Che una diversa politica dell’immigrazione sia possibile, il saggio lo evidenzia con una sorta di vademecum finale che sottolinea la necessità di cambiare paradigma, passando a una cittadinanza partecipata, all’autorappresentazione dei migranti, a politiche non di assistenza ma di empowerment, alla condivisione di valori comuni fondati sulla Costituzione.

In apertura, Bartoli sottolinea che al dibattito sulla xenofobia e sul razzismo in Italia mancano le parole, come accade per la categoria di “razzismo istituzionale”. Ma se la legge (malfatta) crea disuguaglianza, se la dura lex non è uguale per tutti ma si applica con più durezza ad alcune persone, la conseguente creazione di una società divisa fra “autoctoni” e “stranieri” non può essere considerata una finalità da perseguire per difendere presunte rendite di posizione o diritti acquisiti della cosiddetta maggioranza. I diritti, se tali, sono di tutti. Il saggio ci invita a diffidare del razzismo in giacca e cravatta che non usa la violenza ma perpetua la discriminazione con strumenti subdoli. Un monito da non dimenticare, in un paese che non ha mai trovato una vera politica di gestione delle migrazioni e che si sta interrogando ancora, con molte buone proposte sul tavolo ma anche con molta fatica, su come riformare la legge sulla cittadinanza – uno dei casi citati nel libro – in modo che i figli di migranti nati in Italia, vissuti in Italia, che parlano italiano e hanno studiato nelle scuole italiane, non si scoprano a diciotto anni stranieri in terra natìa. E questo è solo uno dei tanti nodi che andrebbero affrontati con urgenza.