C’è un’analogia chiara tra i percorsi politici e culturali che il Cremlino e il patriarcato ortodosso di Mosca hanno intrapreso negli ultimi anni. Il presidente uscente Vladimir Putin si è impegnato durante i suoi due mandati – in modo particolare nel secondo – a cancellare le tracce di quello che a suo dire è stato “il caos degli anni ’90”. Dopo il crollo del gigante sovietico e durante le presidenze di Boris Eltsin, la cultura dominante è stata quella liberale. La Russia usciva ammaccata e indebolita dalla sconfitta rimediata nella guerra fredda. Senza più una bussola, senza più un’ideologia sulla base della quale modellare le proprie scelte, Mosca subì gli ideali dell’Occidente, dei vincenti: libertà politiche, liberalizzazioni economiche, stato di diritto irruppero sulla scena socio-politica. Ci fu grande fermento culturale e una significativa fioritura di pubblicazioni e giornali.
Su quell’epoca i russi si dividono. Alcuni ritengono che le libertà assaporate negli anni ’90 siano state un momento unico, irripetibile. Altri – la maggioranza – guardano a quel decennio come a una parentesi contraddistinta da caos, mancanza di trasparenza, disuguaglianza e disonestà. Nei discorsi pubblici, Vladimir Putin ha più volte insistito sulla destabilizzazione degli anni successivi al crollo dell’Urss. Il capo di stato russo è passato per nostalgico della falce e del martello. Ma quest’interpretazione è grossolana. L’azione di Putin è stata piuttosto finalizzata a ripristinare uno dei paradigmi classici della politica russa: l’accentramento dei poteri. La lotta spietata agli oligarchi e il tentativo – riuscito – di riportare nelle mani dello stato centrale le risorse energetiche rispondono a un modello di pensiero imperiale, che si è dispiegato in tutte le epoche storiche attraversate dal paese slavo. Rientra nello stesso canovaccio la decisione con cui è stata rimessa nelle mani del presidente la nomina dei governatori delle province, che sulla base delle modifiche costituzionali eltsiniane erano prima eletti direttamente dalla popolazione.
Condannati a essere impero
Questa tendenza autoritaria e centralista riflette pienamente quella che gli storici definiscono la vocazione “imperiale” della Russia. L’estensione territoriale, una lunga e feconda storia, la dimensione multietnica della nazione, impongono a Mosca una politica, un’azione e un pensiero contraddistinti dall’aggettivo imperiale e – infine – una legittimazione a essere impero. Legittimazione che per la Russia zarista veniva dalla religione. Quando, nel 1917, all’impero zarista si sostituì quello comunista, il Dio cristiano venne ripudiato, ma il divino continuò a permeare il mondo russo. Dopotutto, il comunismo era o non era una religione laica? In queste due fasi storiche la chiesa ortodossa e la “chiesa socialista” hanno così legittimato l’esistenza dell’impero. Oggi che a Mosca non c’è più la monarchia, né la capitale russa è più la città guida del movimento comunista mondiale, da dove viene la legittimazione? L’impero ha trovato la risposta nella religione.
Ma attenzione: il presidente uscente Vladimir Putin e quello entrante Dimitri Medvedev non sono come Ivan il terribile, Pietro il grande o Caterina, la zarina illuminata. La fede ortodossa non è entrata nelle ampie sale del Cremlino. Potere civile e patriarcato ortodosso dialogano oggi alla pari, non c’è sovrapposizione. Il Cremlino ha trovato con la chiesa la legittimazione che cercava, ma per incassarla c’è voluta una svolta politica, radicale. Questo cambiamento è arrivato con Vladimir Putin, appunto. La cultura politica dominante della sua Russia è quella conservatrice. Il liberalismo è stato sconfitto. Il ritorno ai canoni tipici della politica russa ha avvicinato il potere civile a quello religioso, Vladimir Putin al patriarca Alessio II. Anche durante la fase eltsiniana la politica tentò di costruire un dialogo stabile e proficuo con la chiesa, cercando di strappare alle gerarchie ecclesiastiche la legittimazione. Ma, complice l’indole eccessivamente liberale del sistema politico, il riconoscimento del patriarca non arrivò.
Una geopolitica ortodossa
La chiesa si percepisce come la garante dell’unità dei russi, ma non solo. La sua giurisdizione va oltre la stessa Russia e si estende su tutti i territorio dell’ex Unione sovietica, esclusa la Georgia. Le istituzioni ecclesiastiche della piccola repubblica caucasica sono autocefale (autonome) dal 1918. Il patriarcato di Mosca s’è poi impegnato negli ultimi anni a raggiungere i russi all’estero e nel 2007 è avvenuta la riunificazione tra la chiesa moscovita e il” patriarcato della diaspora”. Quest’ultimo, con sede negli Stati Uniti, venne fondato dopo la rivoluzione d’Ottobre. L’azione del patriarcato di Mosca è dunque triplice: punta a cementare l’unione religiosa dei popoli delle ex repubbliche sovietiche, si rivolge all’emigrazione russa e – infine – mira a costruire una relazione privilegiata con i paesi di stirpe ortodossa dell’Europa, comunitaria e non: Romania, Moldova, Bulgaria, Serbia, Montenegro, Macedonia, Grecia, Cipro.
Le analogie con la geopolitica del Cremlino sono evidenti. Dopo il crollo dell’Urss Mosca si è impegnata a mantenere una certa influenza nell’arco sovietico. Le relazioni con i paesi caucasici e dell’Asia centrale sono generalmente virtuose, fatta eccezione per la Georgia, i cui slanci atlantisti vengono visti con sospetto dal Cremlino. Un po’ più complessa è la questione dei rapporti con la periferia occidentale dell’Urss. A parte la Bielorussia, “stato vassallo” di Mosca, le relazioni con l’Ucraina sono burrascose. È il patriarcato di Mosca, a cui fanno riferimento i vertici delle chiesa di Kiev, a svolgere in una certa misura una funzione moderatrice. Con l’Europa ortodossa, la Russia ha intessuto relazioni politiche e commerciali di una certa significatività. Putin, di recente, ha dispiegato un’offensiva economico-diplomatica di un certo spessore, per esempio in Serbia e nel Montenegro.
Con Belgrado, Mosca ha negoziato l’acquisto di Nis, monopolista petrolifero serbo, e raggiunto un’intesa per la costruzione di una pipeline (il cosiddetto progetto South Stream) che convoglierà verso l’Ue il gas estratto nel bacino del mar Nero, passando per la Serbia – appunto – e per la Bulgaria, altro stato ortodosso. Sempre a riguardo dei rapporti con Belgrado, è interessante notare come nel corso della complessa partita kosovara, Mosca si sia impegnata a sostenere i diritti della Serbia, agendo da potenza tutrice di Belgrado. In Montenegro, invece, la Russia ha tutta una serie di interessi economici nel settore energetico, turistico e immobiliare. Cosa che sulla carta suscita una certa perplessità, dal momento che Podgorica ha raggiunto nel 2006 l’indipendenza dalla Serbia giocando la carta dell’europeismo. Tuttavia, l’Europa non è un’area geografica aliena a Mosca. La Russia, dell’Europa, si sente parte. Per ragioni storiche e religiose. Tant’è che il documento finale del concilio mondiale del popolo russo, svoltosi nel 2004, ribadiva che «è maturata la necessità di definire chiaramente il ruolo della Russia in Europa e nel mondo come uno dei centri della civiltà cristiano-orientale».
Più popoli, più fedi
Secondo gli osservatori è stata la chiesa russo-ortodossa a ispirare recentemente l’ampliamento degli orizzonti geopolitici del Cremlino. Negli ultimi anni, Alessio II ha invitato i vertici politici della federazione russa a guardare oltre lo spazio ortodosso. Questa tendenza a cogliere orizzonti più vasti risiede nell’estensione geografica del vecchio impero zarista, che accoglieva più popoli e più fedi. Fermo restando che la Russia è prima di tutto un paese slavo e cristiano, la chiesa ortodossa ha sostenuto che il respiro multiculturale e multietnico che ha sempre caratterizzato la Russia e l’ecumenismo religioso che si è affermato nel corso dei secoli nell’impero zarista legittimano il Cremlino a costruire relazioni amichevoli con altri spazi geopolitici, in modo particolare con il Medio Oriente e l’Asia. È curioso ma perfettamente spiegabile, per esempio, l’appoggio che il patriarcato ha dato agli sforzi che Putin sta compiendo per entrare nella conferenza islamica, l’organizzazione che riunisce i paesi di religione musulmana. Attualmente la Russia, dove vivono circa venti milioni di musulmani, ha lo status di osservatrice, ma punta a diventare membro effettivo del consesso. Nel 2004, Kirill, metropolita di Smolensk e Kaliningrad ha affermato: «Il fattore ortodosso e musulmano è stato attivamente utilizzato dalla Russia nella sua politica estera. Tale realtà è attuale anche oggi». Vladimir Putin ha raccolto questo assist. Lo farà anche chi verrà dopo di lui.