Lotta alla globalizzazione, difesa dei protezionismi, caccia agli immigrati, sicurezza del territorio: questi i valori vincenti delle ultime elezioni italiane. È possibile, secondo lei, che il vero criterio che decide le elezioni politiche sia diventato la posizione di chiusura o apertura dei partiti verso la globalizzazione, piuttosto che la distinzione destra-sinistra? In Italia come in America?
La questione della globalizzazione e i fenomeni psicologici che essa ha innescato vanno molto al di là della vecchia classificazione destra e sinistra, ormai quasi obsoleta. Questa è una cosa abbastanza difficile da accettare in Italia, ma in America è assai diffusa. Ovviamente, è chiaro che rimangono ancora dei valori sociali identificabili come «sinistra», ma i problema legati alla resistenza al cambiamento, agli atteggiamenti di apertura o chiusura mentale, alla paura di perdere il posto di lavoro possono essere interpretati indifferentemente sia come fenomeni di destra che di sinistra. Questo vale anche per forze sociali o movimenti sindacali, di diversa provenienza ideologica, che in realtà fanno comunque una politica conservatrice.
Tuttavia i cittadini sembrano essere spaventati da mutamenti, che in qualche modo sentono collegati alla globalizzazione. L’immigrazione, la competizione feroce, il lavoro precario, l’inflazione. Tutti fenomeni visti con paura anche negli States?
Sicuramente, anzi va ricordato che negli Stati Uniti la globalizzazione per certi versi ha colpito di più, perché i processi sono molto più avanzati e soprattutto perché l’outsourcing ha riguardato non solo i posti di lavoro industriali, ma anche quelli nel terziario, non esistendo alcuna barriera linguistica. In altre parole, se in Italia è difficile spostare i servizi perché all’estero nessuno parla l’italiano, invece qui molte cose possono essere fatte tranquillamente dall’India (per esempio i call center); di conseguenza la paura della globalizzazione tocca ceti sociali molto più vasti, è un fenomeno che è penetrato più a fondo: pur essendo l’America un paese che ama di più rischiare e stare sul mercato.
A proposito di mercato, in Italia abbiamo assistito ad uno strano rovesciamento che ha visto il Partito democratico difendere (almeno in teoria) l’apertura dei mercati e la globalizzazione, mentre la destra ha assunto una connotazione quasi apertamente no-global. Vale lo stesso per democratici e repubblicani?
No, in America rimane lo schema classico della sinistra tentata da posizioni più populiste su questi temi, perché ha come riferimento la forza lavoro tradizionale dell’Ohio, del Michigan, della Pennsylvania, che si trova in difficoltà davanti ai fenomeni della globalizzazione. Per una serie di coincidenze, invece, il candidato repubblicano McCain, pure avendo storicamente sempre fatto politiche di accordo e di dialogo con i democratici, ad esempio sui temi fiscali, in questo caso, avendo bisogno di accreditarsi presso la destra conservatrice, ha teso a fare suoi programmi simili a quelli di Bush e di Reagan.
Secondo lei, anche il successo di Obama si spiega in base alle sue posizioni protezioniste?
A dir la verità, io non credo neanche un po’ che Obama sia un protezionista, ma capisco che bisogna stare a ciò che dice in questo momento. Ad esempio, Jagdish Bhagwati, considerato il nome del liberismo e della globalizzazione, l’autore del saggio «In difesa della globalizzazione» (tradotto in Italia col titolo Contro il protezionismo, Laterza, 2006) ritiene che Obama sia un liberista cresciuto con gli economisti della scuola di Chicago e sostiene che con l’eventuale presidenza le sue posizioni saranno del tutto diverse. Ad ogni modo, al di là delle posizioni dei candidati presidenziali, negli Stati Uniti, rispetto all’Europa, c’è, come dicevo, un’indifferenza rispetto al meccanismo destra-sinistra. Anche se è certamente significativo che in Italia il personaggio sulla cresta dell’onda sia Giulio Tremonti: una mente brillante che unisce la capacità intellettuale di analizzare i problemi sotto un profilo economico al fiuto politico verso ciò che accade; e che ha una formazione culturale legata alla sinistra socialista lombardiana. Insomma, uno che compone diverse culture politiche e quindi più di altri può liberarsi del vecchio armamentario ideologico destra-sinistra.
Tuttavia quelle del neoministro dell’Economia, espresse nel suo libro La paura e la speranza, sono posizioni di chiusura alla globalizzazione. Pensa sia possibile rapportarsi a un fenomeno di così vasta portata con quel tipo di teoria?
Giulio Tremonti ha capito meglio di altri quello che stava avvenendo nello stato dell’opinione pubblica, ma a mio avviso le soluzioni che propone non sono lungimiranti. Sebbene ne ammiri l’intuito sociale, ritengo che la sua sia un’impostazione non condivisibile, troppo centrata sulla paura del nuovo, sui rischi della globalizzazione anziché sulle sue opportunità. E che quindi non ci porterà molto lontano, per due motivi: primo, perché seguendo quel tipo di ragionamento si finisce per considerare quello che è accaduto nell’economia contemporanea come il frutto quasi esclusivo della caduta delle barriere doganali, mentre invece la globalizzazione è anzitutto figlia della diffusione di internet e della caduta delle barriere fisiche al trasferimento di beni e servizi a basso costo in tempo reale (mentre Tremonti punta soprattutto a demonizzare il Wto e gli accordi di libero scambio); secondo, perché credo che se può essere lecito criticare gli eccessi della globalizzazione – visto che in effetti soprattutto negli Stati Uniti l’amministrazione Reagan ha imposto un regime di laissez faire molto poco attento all’esigenza di un mercato che ha bisogno comunque di essere regolamentato per funzionare – si tratta di un tipo di riflessione che va fatta nei paesi che hanno liberalizzato molto, o troppo: ma non vale per l’Italia, dove quelle liberalizzazioni non sono state mai decollate, e dove c’è un sistema pesantemente ingessato, con protezioni di tipo corporativo di ogni tipo, e la barriera oggettiva della lingua italiana che limita l’accesso di servizi dall’estero. In breve, l’Italia ha ancora il problema opposto, ovvero quello di liberalizzare l’economia, non di curare le ferite per gli eccessi delle liberalizzazione.
La lezione americana non potrebbe tuttavia metterci in guardia circa il fatto che la trasformazione del capitalismo in un sistema di offerta di beni e servizi sempre più sofisticato, come lei ha raccontato nel suo libro, è un’opportunità per chi possiede gli strumenti adeguati, mentre rischia di lasciar fuori vaste fasce di popolazione?
In effetti il mio libro tanto ottimista non era, perché, anche se raccontava l’attuale scenario, ricordava anche che esso non è privo di chiaroscuri, e anzi può aprire la strada a forme di radicalizzazione politica. Anche se per crescere non vedo molte altre alternative, ritengo che ci sia bisogno di una rete sociale abbastanza spessa per proteggere chi nel processo resta sconfitto: penso ad esempio ai lavori a bassa qualificazione che entrano in competizione con la manodopera a basso costo dei paesi emergenti, che provoca una compressione al ribasso dei redditi che certo bene non fa. Se non si è in grado di entrare in quella aristocrazia della conoscenza, che difficilmente sarà superiore ad un terzo della popolazione attiva, oppure nelle mansioni professionali che mantengono una certa capacità innovativa, si apre un problema, che è destinato a crescere con la globalizzazione; però ripeto, non ci sono altre strade possibili, e comunque vorrei sottolineare che l’operaio siderurgico era in crisi anche prima che nascesse il Wto. Semmai ci sarebbe da chiedersi se con questa impennata di domanda di materie prime non stia nascendo un ciclo nuovo che rivaluta alcune produzioni meccani tradizionali, ma questo è uno scenario ancor più futuribile.
In conclusione, come secondo lei una forza politica può articolare un messaggio politico intorno alla globalizzazione, senza appiattirsi su una posizione contraria o favorevole? Rispondendo, cioè alle paure e ai rischi reali senza proporre la semplice conservazione?
Purtroppo, nel tentativo di spiegare una politica più complessa, che intervenga settore per settore, si rischia di mandare un messaggio che l’elettore non capisce o che lo rende diffidente. Insomma, le parole d’ordine in campagna elettorale funzionano meglio; poi nel modo concreto di governare ci saranno una serie di accorgimenti che fanno parte dell’azione quotidiana di governo e che riguardano questioni come il sostegno alla ricerca, la creazione di aree di innovazione integrata costruite su modelli nuovi al posto dei distretti industriali, una gestione nuova della sanità privata che può richiamare pazienti dall’estero, la riqualificazione del made in Italy e del turismo, la valorizzazione delle nostre punte di eccellenza in aree come le nanotecnologie e nelle biotecnologie. E molte altre cose. Che, però, che sono ben difficili da rendere attraverso slogan.