Prima della rivoluzione: la storia del nucleare iraniano
Antonella Vicini 9 dicembre 2011

Il la era stato dato circa un anno prima, il 14 agosto 2002, da Alireza Jafarzadeh (autore fra l’altro del libro The Iran Threat: President Ahmadinejad and the Coming Nuclear Crisis), nel corso di una conferenza a Washington in cui rivelò che nel sito di Natanz era nascosto gran parte del programma nucleare segreto iraniano: nucleare a scopo militare e non civile. Il punto centrale della crisi riguarda le finalità reali del nucleare iraniano: nelle sue rivelazioni Jafarzadeh parlò di strutture per l’arricchimento dell’uranio a Natanz e poi di un sito, quello di Arak, in cui si lavorerebbe acqua pesante. Natanz, non a caso, è diventata una delle centrali su cui più di tutto si concentrano le attenzioni di Stati Uniti e Unione Europea.

Jafarzadeh, oltre che un analista e un commentatore politico, è anche un dissidente iraniano, membro di quel National Council of Resistance of Iran che ha sede a Parigi e che è fortemente avversato dal regime di Teheran perché al suo interno risiedono gran parte dei Mujahedin del Popolo (conosciuti anche con la sigla MKO) inseriti nella black list dell’Unione Europea fino al 2009 per la loro attività terroristica in Iran. C’è anche un altro dissidente, come Ebrahim Yazdi, che non piace certo agli ayatollah, che vive negli Stati Uniti e che ha dato le dimissioni da vice capo del governo e da Ministro degli Esteri dopo la presa dell’ambasciata americana a Teheran, e che però  intervistato sul programma nucleare iraniano ricorda come a dare impulso alle aspirazioni nucleari del suo Paese furono, prima della rivoluzione islamica, proprio quelle stesse potenze che ora puntano il dito contro la potenziale atomica di Teheran.

Gli atomi per la pace

Il programma nucleare iraniano inizia infatti nel 1959 con un piccolo reattore fornito dagli Stati Uniti all’Università di Teheran come parte del progetto denominato “Atoms for Peace”, “atomi per la pace”, lanciato nel 1953 da Dwight D. Eisenhower volto a fornire know how nucleare a scopi pacifici in piena guerra fredda.

L’Iran dei Pahlavi si muove da quel momento in direzione di una totale autonomia energetica e quindi anche atomica, spingendo sull’acceleratore e sfruttando gli ottimi rapporti che lo legano all’Occidente (dopo il colpo di stato che nel 1953 aveva messo fuori gioco Mossadeq, reo di aver tentato la via della nazionalizzazione petrolifera). Questo non impedisce comunque allo scià di firmare nel 1968 il Trattato di Non Proliferazione, accettando di fatto la dottrina del contenimento promossa da tre delle potenze uscite vincitrici dalla Seconda Guerra Mondiale. Il nucleare diviene per lo scià motivo di intensa propaganda politica, un banco di prova della sua potenza imperiale. Così mentre gli inglesi e le sette sorelle continuano a gestire l’oro nero persiano, questi stessi attori partecipano al nuovo grande affare.

L’Eldorado persiano

L’Iran di quegli anni è quello che Kapuscinski chiama “il nuovo Eldorado” in cui presidenti, delegati, direttori “fanno a botte” per stringere accordi economico-commerciali, in tutti i settori. All’epoca la polizia segreta, la Savak, è già nota per le sue atrocità e la sua violenta repressione degli oppositori, ma l’Iran viene ritenuto un partner credibile dall’Occidente. La tanto discussa centrale di Bushehr appartiene proprio a questo contesto ed è, infatti, figlia del contributo offerto dalla compagnia tedesca Kraftwerk, nata dalla fusione di AEG e Siemens; l’accordo firmato nel 1975 prevedeva il suo completamento nel 1981, per un costo di tre milioni di euro. All’investimento partecipa anche l’italiana Ansaldo.

Nello stesso anno, la società franco-belga-ispanico-svedese Eurodif operante nell’arricchimento dell’uranio, spostava il 10% delle sue quote in Iran, attraverso la sussidiaria francese Cogéma, dando vita a una società a capitale misto franco-iraniano Sofidif (Société franco–iranienne pour l’enrichissement de l’uranium par diffusion gazeuse); una società che ha creato, in epoca recente, qualche imbarazzo alla Francia che ora è paladina della battaglia contro il nucleare di Teheran. A conferma della ferma volontà della scià di rendere l’Iran una potenza anche atomica, nel 1976 il bilancio dell’Atomic Energy Organization of Iran è di 1,3 miliardi di dollari, il più grande ente pubblico economico nel Paese dopo l’azienda del petrolio, che solo un anno dopo conta più di millecinquecento dipendenti; per la loro formazione arrivano in Iran esperti nucleari da tutto il mondo.

Così, mentre lo scià annuncia a colpi di slogan che l’Iran si sarebbe dotato di ventitré reattori entro gli anni Novanta e anche dell’atomica, “prima di quanto si creda”, nel 1974 anche gli Stati Uniti, dopo alcune riserve iniziali, avviano i loro affari per favorire il nucleare persiano. Stando a quanto pubblicato nel 2003 dal New York Times, inoltre, alla fine degli anni ’70 l’Iran e Israele discutono un progetto per adattare i missili terra-terra iraniani a testate nucleari; piani che, secondo documenti scoperti a Teheran dopo il 1979, vennero tenuti nascosti Oltreoceano. Paradossalmente, quindi, sembra che se l’Iran non si è dotato ancora oggi di armi atomiche non è per merito delle potenze occidentali ma per la Rivoluzione Islamica che deponendo lo scià ha sconvolto gli equilibri dell’area.

Reza Pahlavi, un testimonial d’eccezione

Sempre nel 1974, in un telegramma del Dipartimento di Stato si definisce la cooperazione fra Washington e Teheran nel settore come uno strumento alternativo alla produzione energetica e nel frattempo si prepara una missione di esperti statunitensi in Iran per valutare la forma di collaborazione a cui fa seguito una visita di Dixy Ray, esperta a capo della US Atomic Energy Commission. Il Pentagono, in realtà, nutre qualche preoccupazione circa la produzione annuale di 23mila watt derivanti da plutonio (questo era il piano energetico che lo scià ha in mente) e decide di vendere reattori all’Iran solo dopo essersi accordati in merito a speciali controlli bilaterali, in aggiunta a quelli standard, per valutare la stabilità del Paese nel timore che questi strumenti finiscano nelle mani di dissidenti o di terroristi stranieri. La mancanza di fiducia non è, dunque, nei confronti del monarca persiano, ma di attori esterni e di quelli interni che nel 1979 presero il potere, ponendo la novella Repubblica Islamica dell’Iran dall’altra parte della barricata. Nel 1975, Henry Kissinger e il ministro delle Finanze iraniane Hushang Ansari siglano un accordo per l’acquisto dagli Stati Uniti di otto reattori del valore di 6.4 miliardi di dollari, mentre la US Atomic Energy Commission fornirà carburante per alimentare due reattori ad acqua leggera da 1200 watt e altri sei addizionali per un totale di 8000 watt di  potenza.

Le ottime relazione fra i due Paesi saltano all’occhio anche in una delle campagne a favore del nucleare negli Usa che in quegli anni sceglie proprio lo scià come testimonial, probabilmente inconsapevole. “Indovina chi sta costruendo impianti nucleari?”, si legge su un poster in cui campeggia la foto di Mohammed Reza Pahlavi. “Lo scia iraniano – si spiega – è seduto su una delle più grandi riserve petrolifere al mondo, eppure sta costruendo il secondo impianto e programmandone altre due per  provvedere all’energia elettrica del suo paese. Non lo farebbe se dubitasse della sua sicurezza”.