Philip Roth, l’umiliazione e l’erotismo senile
Claudia Durastanti 10 maggio 2010

Ci sono due modi di affrontare L’umiliazione (Einaudi, 2010, 17 euro). Nel primo caso ignorando il nome ingombrante del suo autore. Nel secondo tenendo a mente che si tratta di un libro proprio di Philip Roth, colui che insieme a Thomas Pynchon e Don DeLillo, almeno stando alle parole dell’influente critico letterario americano Harold Bloom, è il canone della letteratura americana contemporanea. Bloom si riferiva certo ad altre opere: Pastorale americana, l’epopea di Nathan Zuckerman, tutte quelle vicende per cui Roth è diventato un autore molto amato e molto venduto anche in Italia. Se si fa questo sforzo, allora L’umiliazione appare né più né meno che come un tassello nella complessa opera di mappatura che Philip Roth sta facendo della vecchiaia, della decadenza, dell’idea della fine che pure deve tormentarlo come uomo prima che come scrittore. Che L’umiliazione non sia il capolavoro è evidente a metà lettura: se non fosse per certi guizzi e una ricorrenza di temi che rendono la lettura digeribile e familiare, faremmo fatica a esserne coinvolti.

Il libro racconta la storia di Simon Axler, un attore sulla sessantina che all’improvviso perde sul palco la capacità di recitare. Segue un ricovero breve in un ospedale psichiatrico, uno di quei luoghi infarciti di “psicologia pop” e dove ognuno tenta di sopravvivere ai propri suicidi falliti, e un tentativo di riabilitazione attraverso una relazione sentimentale che non conduce agli esisti sperati. Sarebbe ingenuo leggere nel declino artistico di Simon Axler un’analogia con il declino di uno scrittore che ha perso la capacità di tastare il polso e il malessere della realtà che lo circonda. Ma se fosse così? Se fosse un modo per esorcizzare il timore che tutta l’empatia necessaria per immedesimarsi in un Altro, qualità cara sia a uno scrittore che a un attore, svanisca prima o poi per tutti? In alcuni momenti, Simon Axler non sta parlando di Philip Roth? Resta il fatto che l’autore è abbastanza cinico per non crogiolarsi nell’introspezione e infatti recupera subito il filo di una trama che risulta tutto sommata compatta.

La definizione del personaggio Axler domina la prima parte del romanzo, che non a caso è la migliore. Durante la degenza psichiatrica l’attore ormai in ritiro dalle scene fa la conoscenza di Sybil Van Buren, una figura timida e dimessa che gradualmente si scopre assassina, interrompendo in modo violento il sogno domestico e borghese. Ma è un personaggio volatile, che dura poco, e avrebbe meritato un approfondimento più deciso, tant’è che a lettura conclusa ci si interroga ancora sul suo ruolo, che non ha il potere di rivelare grosse verità. L’altra figura femminile, Peegen Mike, è una lesbica quarantenne figlia di amici di Axler che sceglie proprio lui per fare prove di eterosessualità. Un personaggio che l’autore avrebbe voluto più complesso di quanto non risulti alla fine, e che non ha mai il pregio di diventare importante.

L’umiliazione è quella che spinge Axler a legarsi a una donna che non sarà mai in grado di salvarlo. E qui arriva la sensazione che Roth voglia fare lo strano, confermandosi maestro di un erotismo sciovinista e disperato che diventa sempre meno una chiave di lettura e di conoscenza ma sempre più esercizio di stile. C’è da dire che l’autore continua a essere magistrale quando descrive la fisica dei rapporti emotivi e tratteggia gli equilibri in una relazione: «Ma alla fine verrà un giorno, pensò Axler, in cui le circostanze la metteranno in una posizione molto più forte rispetto all’idea della fine, mentre io sarò arrivato a trovarmi in una posizione più debole per il semplice fatto di essere stato troppo indeciso di troncare adesso. E quando lei sarà forte e io debole, il colpo che verrà inferto sarà insopportabile». Questa volta, però, una pagina non vale la lettura, neanche e soprattutto se ti chiami Philip Roth.