Le candidature del Pd sono state oggetto di numerose critiche. L’idea veltroniana di candidare un precario per i precari, un operaio per gli operai, tradisce una visione povera della politica. Ma, a questo punto, come mai non candidare degli immigrati? A cosa è dovuta, secondo lei, una dimenticanza così clamorosa?
Si tratta, da una parte, di un ennesimo segnale del provincialismo italiano, visto che le cifre e le statistiche dei naturalizzati, cioè degli elettori in altri paesi, è molto consistente; quindi non occorre aver avuto il Commonwealth per sapere che la popolazione di oggi è un insieme più composito di quello di una volta. Ma c’è un’aggravante che si aggiunge alla nostra sprovvedutezza da provinciali, ed è l’idea sbagliata secondo cui toccare il tema dell’immigrazione sia autolesionistico, per cui, in altre parole, se ne parli hai delle grane; meglio quindi far scomparire gli immigrati dalla campagna elettorale, tanto è vero che è stata lasciata in sospeso la questione della sanatoria dei settecentomila: nessun politico, dall’estrema destra all’estrema sinistra ha ritenuto di poterne parlare, in Italia.
Le fasce «deboli» della società che finora avevano avuto scarsa rappresentanza sono tre: giovani, donne e immigrati. Le prime due sono riuscite ad entrare nel dibattito politico, la terza no. Come mai gli immigrati sono stati esclusi? Forse perché non votano?
Nego che abbiano assunto posizioni e quote davvero significative le donne e i giovani, nego che con la legge Calderoli vigente, e con queste candidature, si sia attuato un ricambio di classe dirigente. Il risultato elettorale dimostrerà che le donne in lista ci sono ma che non verranno elette, o lo saranno in misura inferiore al promesso. Quanto agli immigrati, non è vero che siano più deboli delle donne e dei giovani, per come è organizzata la società italiana. Il problema è che manca nella politica italiana la cultura di una rappresentanza che tenga conto del multiculturalismo. Forse comincia a esistere nel sindacato e nelle associazioni imprenditoriali, nelle camere di commercio, ma a livello di politica non è ancora arrivata. Non c’è ricambio da decenni nei gruppi dirigenti, figuriamoci trovare un dirigente di partito con la pelle scura. Avremo presto Mario Balotelli, cioè un nero attaccante della nazionale italiana di calcio: il calcio precederà la politica.
Tra i dodici punti del programma del Pd non compare la voce immigrazione. O, meglio, compare sotto le vesti della «sicurezza», quasi che fossero diventate sinonimi.
C’è una tendenza a inseguire la destra sul suo terreno, invece che proporre piattaforme di contenuti drasticamente alternative; ma secondo me questa strategia non convincerà mai l’elettore del nord est, che è un po’ l’icona più citata, a scegliere l’imitazione anziché l’originale. Ma se viviamo gli immigrati come qualche cosa da nascondere sotto il tappeto, perché accettiamo l’automatismo “immigrati uguale sicurezza”, allora tanto vale che voto Pdl. O no?
Il tema della sicurezza è certo molto sentito, e non è un caso che esperti di comunicazione e spin suggeriscano al Pd di puntare su di esso. Casi drammatici come l’omicidio Reggiani hanno scosso l’opinione pubblica. Ma forse, al di là delle paure, gli italiani già vivono l’integrazione, come vivono la secolarizzazione, il pluralismo etico; prima della loro classe politica.
Sono convinto che l’Italia abbia un luogo di formidabile integrazione, che funziona, quasi per inerzia, spontaneamente, e non perché si siano fatte politiche avvedute. Ed è la scuola, materna, primaria: luoghi in cui i docenti sono stati costretti dalla realtà a rimboccarsi le maniche e a produrre didattica della differenza e dell’integrazione che funzionano, che costruiscono l’abitudine alla convivenza. Questo sì ha portato molto più avanti la società rispetto al dibattito politico, di cui il dibattito sull’iscrizione dei figli di clandestini alle liste d’attesa delle scuole materne ha dato un esempio emblematico. Tra l’altro, i casi in questione riguardano poche decine di famiglie, dove ogni causa che viene fatta viene vinta, perché i clandestini sono quasi sempre figli di qualcuno che il lavoro ce l’aveva e poi l’ha perso, e non certo gente che delinque. Esistono insomma luoghi di potente integrazione di fatto, senza i quali la società italiana sarebbe già esplosa da tempo. Se noi restassimo agli schemi, alle fotografie proposte dalla politica, in Italia ci sarebbe stato già da tempo un crack, mentre per fortuna non ha ancora preso piede un partito xenofobo (anche se la Lega Nord potrebbe diventarlo) di dimensioni paragonabili a quelle di altri paesi europei, perché il tasso di integrazione si è rivelato funzionale.
Khaled Fouad Allam ha denunciato la monoetnicità del Pd. La mancanza di candidati di altra nazionalità e cultura non è forse il sintomo dell’incapacità di elaborare un discorso più complesso sui temi dell’intercultura e del dialogo tra visioni etiche diverse? Già è complicato mettere insieme laici e cattolici.
Già era poco un solo parlamentare che rappresentasse la cultura musulmana. Ma passare da uno a zero significa rimpicciolire la propria visuale, fare un uso malaccorto del marketing. Guardi che ho grande rispetto del marketing politico, così come del mestiere che faccio, ascolto sempre le indagini di mercato sui telespettatori: ma guai se mi ci appiattissi, mai se ne traessi la lezione che devo trattare solo i temi secondo quanto ha registrato un’indagine di mercato. Non sostituirà mai un ruolo di leadership, di guida, che è ciò che alla politica si chiede.
Non pensa che evitare di parlare di immigrazione, e di immigrazione musulmana, sia parte della generale strategia di elusione dei problemi etici, a favore di una campagna che punta tutto sul pragmatismo e sui temi sociali?
Su questo non sono d’accordo, nel senso che io non accetto la distinzione tra temi sociali ed etici, non vedo cos’abbia di meno etico del tema dell’aborto quello della lealtà e dell’evasione fiscale, o quello dell’applicazione degli standard di sicurezza contro gli incidenti sul lavoro, anche se un edile quarantenne non è un embrione. Insomma, questa distinzione è il prodotto di un’ideologia e di una debolezza del sistema politico italiano, talmente debole che anche lo spostamento di pochi punti percentuale che è in grado di operare la Cei viene preso in massima considerazione.
Quali sono, secondo lei, le politiche più urgenti che il Pd dovrebbe mettere in atto in relazione all’integrazione? Legare il permesso di soggiorno al lavoro, come prevede non solo la Bossi-Fini ma anche il ddl Amato-Ferrero, non conduce ad una concezione dell’immigrato come pura risorsa da sfruttare, eludendo il tema della solidarietà?
In generale, io credo sia necessaria una politica di regolarizzazione della grande massa di immigrati che chiedono di essere regolarizzati dopo che vivono in questo paese da molti anni, è interesse di tutti che emerga la loro posizione, anche per sconfiggere il sommerso e l’illegalità nel campo lavorativo. E poi, direi, politiche metropolitane dell’abitare, che siano diverse dalla logica emergenziale, che vive di simboli e di paure, di sgomberi puramente dimostrativi: quando sappiamo bene che non è questo il terreno su cui si risolve un problema della crescita delle disuguaglianze sociali e delle marginalità all’interno delle nostre aree urbane. Tutto ciò poi costituisce un freno allo sviluppo, alla crescita, tanto è vero che a Milano i settori più dinamici delle borghesia, quelli più globalizzati che vivono tra l’Italia e il mondo, sono spesso i più sensibili al tema dell’emarginazione perché si rendono conto che anche l’impresa ha bisogno di un ambiente nel quale crescere, che sia ospitale e rassicurante per davvero.