Il Cairo
Niente più mani legate sotto il tavolo. Il futuro ora appare illuminato. Mona Anis, Caporedattore della Cultura per Al Ahram Weekly (inserto settimanale in lingua inglese del quotidiano egiziano filo-governativo Al Ahram) fino a ieri voleva lasciare il suo lavoro. E invece ora mi dice di voler restare. La rivolta dei giovani egiziani ha contagiato tutti, e lei vuole fare la sua parte. “C’è un’aria più respirabile in redazione, che soffia dopo la notizia del rinnovo dei vertici del sindacato dei giornalisti egiziani – spiega la giornalista, che su Twitter analizza la rivolta egiziana all’indirizzo @monaanis – Si tratta di un risultato importante alla luce delle violenze e degli atti di intimazione subiti dai giornalisti, non solo egiziani, nei giorni della protesta”. I vertici del sindacato dei giornalisti egiziani erano stati accusati, in particolare, di non aver fatto abbastanza per far luce sulla morte del reporter di Al Ahram, Ahmed Mohammed Mahmoud.
Dal suo disordinato ufficio, situato al nono piano di un palazzo nel centro del Cairo, interamente occupato dagli uffici della redazione, Mona Anis si accende una sigaretta e fissa la pila di pacchi contenenti libri che fa bella mostra sulla sua scrivania. Poi mi fa vedere una foto che si è fatta scattare quella stessa mattina, con il suo iPhone, davanti ad un carrarmato. Mi guarda e sorride. Poi esordisce: “Resto quindi ai vertici della testata (nata 138 anni fa, ndr) perché ora posso svolgere davvero il mio lavoro di giornalista: essere la coscienza dell’Egitto, e anche del mondo arabo”. E’ un’aria nuova che non soffia solo sulla stampa tradizionale, ma anche sul mondo dei blogger, “che, insieme ai giovani attivisti di Facebook e Twitter, hanno ricoperto un ruolo decisivo per lanciare la protesta”. Mona Anis punta il dito sul fatto che alcuni blogger hanno improvvisamente deciso di rivelare la loro identità. “Finalmente sappiamo chi è Sandmonkey (un noto attivista del web che durante la protesta è stato arrestato e rilasciato dopo essere stato picchiato dagli agenti della sicurezza, ndr). Si chiama Mahmoud Salem, e ha 49 anni. Non è un giovane come molti credevano”.
“Questi giovani ci hanno sorpreso. Non credevamo che la protesta sarebbe durata per più di un paio di giorni”, continua Mona Anis, secondo la quale un ruolo importante lo ha giocato il movimento islamico dei Fratelli Musulmani (bandito ma tollerato dalle autorità del Cairo) che hanno saputo organizzarsi rapidamente per fornire aiuti ai manifestanti di Piazza Tahrir. “E’ questo che ha spaventato maggiormente le autorità. Questo spirito di collaborazione e solidarietà che si è creato trasversalmente fra giovani di diversa estrazione sociale, convinzioni politiche e religione”. Stando alla giornalista, gli attivisti dei Fratelli Musulmani non rappresentano più del 20% della popolazione. Tuttavia, se dovessero occupare la maggioranza nel nuovo parlamento, lei non si dichiarerebbe preoccupata. “Noi non vogliamo essere governati da un partito religioso. Ad un 20% di attivisti del movimento islamico corrisponde una percentuale identica di egiziani laici, che non li vorrebbero vedere al governo. Ma questa è un’organizzazione che esiste in Egitto dal 1928. La repressione che hanno subito i suoi membri in questi anni non li ha disciolti. Quindi, se vogliamo essere uno stato democratico, dobbiamo accettare la possibilità che siano loro ad essere scelti dal popolo per governare il Paese”, insiste la giornalista cresciuta in una famiglia musulmana dell’upper class egiziana, che ha trascorso lunghi periodi all’estero. “A Piazza Tahrir li abbiamo visti pregare e non fare propaganda gridando slogan per l’imposizione della sharia (la legge islamica, ndr)”.
Sul periodo di transizione che porterà l’Egitto a nuove elezioni presidenziali e parlamentari, Mona Anis dice di essere invece preoccupata. Si deve riflettere soprattutto su un punto: “Onestamente, credo che il popolo saprà individuare un nuovo leader, se riuscirà ad entrare più nel concreto. La maggior parte degli egiziani oggi sostiene i rappresentanti del movimento (non un partito politico, ma un cartello di attivisti guidati dal movimento 6 Aprile e Kifaya) che ha fatto scoppiare la rivoluzione – credo che quando successo sinora in Egitto debba essere chiamato rivoluzione – Ma ci vorrà più impegno per ricostruire il consenso nazionale intorno alle istituzioni. Secondo il quotidiano inglese The Guardian, il tesoro di Mubarak è di 70 miliardi di dollari. Mentre il popolo egiziano muore di fame”. Mona Anis, che mi ricorda di aver partecipato alle proteste del ’72 durante la presidenza di Anwar Sadat (di cui Mubarak è stato il vice presidente, fino al suo assassinio nel 1981), dice che con questa rivoluzione ha finalmente compreso il significato dell’opera dello scrittore egiziano Tawfiq Al Hakim, che si intitola “awdat al ruh”, in italiano “Il Ritorno dello Spirito”. L’Egitto è rimasto, per oltre trent’anni, “uno spirito dormiente – spiega – Poi si è risvegliato. E nessuno ha potuto più fermarlo”. E probabilmente resterà il numero uno, nella regione, anche in questa nuova era.