Roberto Biorcio insegna sociologia all’Università di Milano Bicocca. Tra i suoi libri, "La Padania promessa" (Il Saggiatore 1997) e "Sociologia politica" (Il Mulino 2003).
Ha stupito molti osservatori il grande successo elettorale della Lega, che ha raccolto il 17% dei voti nelle regioni del Nord. Ritorna in primo piano la “questione settentrionale”. Si scopre che molti operai iscritti al sindacato (anche della Cgil) votano per il partito di Bossi. E che in molti contesti territoriali la Lega ha tolto alla sinistra la rappresentanza dei ceti popolari. Le dinamiche e i fenomeni che si sono manifestati nelle regioni del Nord sono però molto simili a quelli già registrati (anche con maggiore forza) negli anni novanta. E d’altra parte, per molti aspetti la Lega appare sempre la stessa: con una identità politica e delle parole d’ordine (contro “Roma ladrona”, gli immigrati e la criminalità) che conosciamo da oltre venti anni. Si potrebbe dire che nelle recenti elezioni si è verificata una “terza ondata” di successi elettorali leghisti: presenta molti tratti in comuni con le precedenti, ma anche rilevanti novità, perché si è manifestata in un contesto politico e sociale molto diverso, dopo oltre un decennio di stagnazione dei consensi.
Le prime due ondate leghiste
La prima ondata si era manifestata nelle 1992: il partito di Umberto Bossi, raccogliendo per la prima volta il 17,3% dei voti nelle regioni settentrionali, mise in crisi la Dc e i suoi alleati, aprendo nei fatti la crisi definitiva della Prima repubblica. Il Carroccio aveva saputo canalizzare e recuperare in misura massiccia la tensione fra gente comune e ceto politico, valorizzando il linguaggio e le opinioni e i pregiudizi diffusi al livello popolare contro la classe dirigente italiana. Nel 1994 la coalizione fra la Lega Nord e Forza Italia aveva vinto le elezioni, ma era durata solo pochi mesi. L’alleanza e le nuove responsabilità di governo avevano creato grandi difficoltà. Bossi temeva la subalternità e il dissolvimento del suo movimento a vantaggio di Berlusconi. Fu decisa la rottura con il centrodestra, anche a costo di perdere posizioni di potere e una parte dei deputati e dei senatori. Le polemiche di Bossi si distribuirono simmetricamente fra centrodestra e centrosinistra ("Roma-Polo" e "Roma-Ulivo"), anche se gli attacchi più feroci vennero riservati a Berlusconi.
Nelle elezioni politiche del 21 aprile 1996 si registrò la seconda ondata di successi leghisti: il partito di Bossi raccolse oltre quattro milioni di voti (20% dei consensi nelle regioni del Nord, equivalenti al 10,1% a livello nazionale). La Lega non riuscì però a tradurre sul piano politico e istituzionale il successo elettorale perché i suoi voti in parlamento risultavano inutili per l’Ulivo, e non sufficienti al Polo per conquistare la maggioranza. Per uscire dalle difficoltà, il federalismo fu abbandonato a vantaggio dell’indipendentismo, con la mobilitazione per la costruzione della "Nazione Padana". I successi della Lega nella prima metà degli anni ’90 non furono un fenomeno isolato nel contesto internazionale. Nello stesso periodo si era affermata, nei paesi europei più industrializzati, una serie di forze politiche che riprendevano e rielaboravano – adattandoli al presente e ai diversi contesti nazionali – i punti essenziali dei movimenti populisti storici. Hanno raccolto importanti successi elettorali formazioni come il Vlaams Block del fiammingo Dewinter, il Partito liberale austriaco (FPÖ) di Haider, il Partito del popolo danese (Ppd) di Pia Kjaersgaard, Nuova democrazia in Svezia, il Partito del progresso in Norvegia, la Lega dei Ticinesi e l’Unione di Blocher in Svizzera, il Front National di Le Pen in Francia. Partiti molto diversi, ma con profonde affinità in termini di identità e proposta politica.
La globalizzazione e la crisi dei sistemi di rappresentanza tradizionali
La congiunzione di due distinti fattori ha garantito il successo di queste formazioni nei diversi contesti nazionali. Il primo è rappresentato dai grandi e rapidi cambiamenti dovuti alla globalizzazione che hanno generato una inquietudine diffusa – a livello popolare – relativa alla soddisfazione di bisogni primari di tipo economico, di sicurezza, di identità, alimentata dalla caduta dei livelli di occupazione, dalla crisi dei sistemi di Welfare, dall’immigrazione dai paesi del terzo mondo, dall’aumento della criminalità organizzata e della micro-criminalità. L’altro fattore è stato la crisi dei sistemi di rappresentanza tradizionali: i partiti politici principali non appaiono più in grado di raccogliere e rappresentare – secondo linee di competizione e conflitto comprensibili e credibili per l’opinione pubblica – esigenze, istanze, bisogni e valori presenti nella società. I leader populisti hanno gestito efficacemente soprattutto tre tipi di campagne: a) l’antipolitica, le posizioni di critica, di disaffezione e di estraneità al funzionamento delle istituzioni democratiche e dei principali attori politici; b) la mobilitazioni dell’ostilità nei confronti degli immigrati extracomunitari; c) l’opposizione al processo di unificazione europea.
I successi elettorali delle formazioni populiste sono avvenuti sempre con una trasformazione della base sociale di riferimento: da un radicamento privilegiato tra la piccola borghesia urbana e rurale, alla crescente influenza fra gli operai delle aree metropolitane, urbane e suburbane. L’FPÖ di Haider ha raccolto, nel momento di massima espansione, i livelli più elevati di consenso fra gli operai (30%). Lo stesso discorso vale per il Front Natinal di Le Pen, e anche la Lega Nord ha raccolto nel 1996 il massimo di consensi fra gli operai residenti nelle ragioni dell’Italia settentrionale (31%). La formazioni populiste sono riuscite così in molte situazioni a sostituire i partiti di sinistra nella rappresentanza politica dell’elettorato popolare, allargando i loro consensi soprattutto fra gli operai. I sindacati tradizionali hanno mantenuto la capacità di mobilitare e rappresentare i lavoratori per i loro interessi economici, ma i partiti di sinistra hanno avuto difficoltà crescenti a proporre principi di rappresentanza politica credibili, dopo la crisi delle ideologie e la dissoluzione delle reti organizzative dei partiti operai.
Il rischio della normalizzazione
Dopo il 1996, la radicalizzazione della posizione indipendentista aveva accentuato l’isolamento della Lega riducendo il suo peso nella politica italiana. Negli anni successivi si dimezzarono i voti leghisti mentre si riduceva l’attivismo dei militanti. Per evitare la definitiva marginalizzazione politica del movimento, fu stipulata una nuova alleanza. Il progetto indipendentista venne ridimensionato nella forma più trattabile e gestibile della devolution. La coalizione Casa delle Libertà vinse le elezioni politiche del 2001. Ma cambiarono i rapporti di forza tra i partiti della coalizione. Forza Italia si rafforzava mentre la Lega si indeboliva (8,1% dei voti nelle regioni del Nord). Bossi perse consensi tra gli elettori più radicali, mentre altre aree elettorali che in passato avevano votato per il Carroccio furono attratte da Berlusconi e dal suo partito. La Lega, pur avendo perso molti voti, scelse una linea di lealtà rispetto alla coalizione di governo. Sembrava delinearsi così la fine di un ciclo politico, con la "normalizzazione" della partito nell’ambito della Casa delle Libertà. La Lega non era più l’unico e autentico rappresentante delle battaglie promosse in passato e, di conseguenza, si era registrata una forte riduzione del suo spazio elettorale. Sulle questioni dell’insicurezza, della lotta alla criminalità e all’immigrazione clandestina subiva la concorrenza di Alleanza Nazionale. E il protagonismo dei governatori di Forza Italia nelle regioni del Nord toglieva spazio e visibilità all’azione della Lega per l’autonomia da Roma.
Negli anni successivi il partito di Bossi rimase in contatto con gli umori e le esigenze popolari nelle aree di maggiore radicamento. Senza indebolire l’alleanza, e anzi mantenendo un rapporto privilegiato con Berlusconi, il Carroccio cercò di proporsi ancora come partito di lotta in grado di farsi interprete del malcontento e della protesta delle regioni del Nord. Vennero rispolverati i vecchi manifesti contro “Roma ladrona” e si intensificarono le polemiche nei confronti dei partiti alleati di centro-destra più radicati nel mezzogiorno. Ma i livelli di consenso non migliorarono nelle elezioni del 2006. L’alleanza con il Movimento per l’autonoma di Raffaele Lombardo – che contraddice la tradizionale polemica anti-meridionalista su cui si era fondata l’identità della Lega Nord – ottenne buoni risultai solo in Sicilia (4,4% dei voti): nelle regioni del Nord non aumentarono i consensi rispetto al 2001. E si vanificavano le tendenze al recupero dei voti che si erano manifestate nelle elezioni regionali del 2005. Il referendum svolto pochi mesi dopo le elezioni del 2006 bocciò a larga maggioranza la riforma costituzionale votata dal centrodestra in parlamento, che prevedeva l’introduzione della devolution (la crescita dei poteri attribuiti alle regioni). La riforma era stata per la Lega Nord la condizione irrinunciabile per la propria partecipazione alla coalizione di centrodestra.
Antipolitica e sicurezza
Nelle recenti elezioni, i voti per la Lega sono improvvisamente raddoppiati, tornando ai livelli del 1992 e avvicinandosi a quelli del 1996. I sondaggi non segnalavano fino a pochi mesi fa una tendenza significativa di questo tipo. Si era però registrata una forte caduta di consensi per il governo Prodi e per la coalizione dell’Unione. Un cambiamento di orientamenti che si verificava soprattutto in una vasta area sociale – formata da operai, dalle loro famiglie e da pensionati con un passato di lavoro operaio – che nelle elezioni del 2001 aveva dato la maggioranza dei voti alla Casa delle Libertà e che nel 2006 si era orientata in prevalenza a favore dell’Unione. In questi settori sociali erano crescenti la percezione di impoverimento e le difficoltà incontrate nella gestione della vita quotidiana. Era d’altra parte sempre più diffuso l’allarme sociale provocato dall’arrivo di quote crescenti di immigrati e dagli innumerevoli episodi di microcriminalità enfatizzati dai media.
In questo contesto la Lega ha potuto condurre nell’ambito dell’opposizione al governo Prodi una campagna molto efficace semplicemente riattivando ed rafforzando le sue tradizionali campagne. Innanzitutto ha lavorato sul sentimento dell’antipolitica anche se in forme diverse rispetto al passato: un tempo era rivolta soprattutto contro Roma, oggi attacca l’intera casta dei politici e i loro privilegi. Di fronte alla crescita massiccia dell’immigrazione, la Lega è stata percepita come il partito politico più coerente e combattivo, capace di criticare anche Berlusconi quando ha ammesso la possibilità di concedere il voto amministrativo agli immigrati con permesso di soggiorno. Il Carroccio appare d’altra parte come il partito più sensibile alla crescente domanda di sicurezza che nasce dall’impatto della globalizzazione sulla vita sociale. Si tratta di temi molto sentiti anche in regioni come l’Emilia e la Liguria: aree territoriali estranee alla tradizione della subcultura bianca.
Presentandosi nelle regioni del Nord come unico partito alleato al Pdl, la Lega è potuta apparire come il partito che – nell’ambito del centrodestra – si impegnava su questo tipo di questioni più coerentemente e con maggiore forza. E ha raccolto così molti voti da ex elettori di Forza Italia e di Alleanza nazionale, recuperando anche consensi da ex elettori dell’Unione. La terza ondata leghista presenta però differenze significative rispetto alle precedenti. Nel 1996 il messaggio era molto più radicale e legato all’indipendenza della Padania. Oggi il riferimento è quello del Nord inteso come territorio da rappresentare a Roma. La Lega parla soprattutto di federalismo fiscale e punta a radicarsi nel Nord, in tutto il Nord, per rappresentarne gli interessi all’interno di uno stato nazionale che non mette più in discussione in quanto tale. Per il partito di Bossi sarebbe più importante insediare un proprio rappresentante al governo di regioni come la Lombardia o il Veneto piuttosto che avere dei ministeri a Roma. Sarebbe un salto storico.
Mentre molti commentatori sottolineano il successo della Lega tra gli operai, i dirigenti leghisti tentano piuttosto di accreditare il partito anche come rappresentate della borghesia, sottolineando come, a differenza degli anni Novanta, una quota rilevante di imprenditori ha votato Lega. Non si governa se non si rappresenta anche la classe dirigente delle regioni del Nord. Non sono più solo i settori popolari il riferimento del partito di Bossi, e sono abbandonati gli accenti polemici del passato nei confronti della grande borghesia. Negli ultimi anni è cresciuta d’altra parte una nuova classe dirigente del partito impegnata nell’amministrazione di comuni e province. Un nuovo ceto di amministratori, che non si limitano solo a lanciare messaggi provocatori.
A differenza del 1994 e del 1996, appare oggi molto solida l’alleanza della Lega con Berlusconi. Si lasciano cadere i riferimenti del passato – come il modello basco o quello fiammingo – che cercavano di accentuare l’autonomia territoriale fino al limite dell’indipendenza. Il modello perseguito oggi dal ceto politico leghista appare piuttosto simile a quello bavarese praticato dalla Csu: un’alleanza solida con un partito conservatore come il Pdl, per fare avanzare il federalismo regionalista.
La Lega cerca così di estendere i propri consensi cavalcando atteggiamenti apparentemente opposti che convivono spesso nelle regioni del Nord: la fiducia nella propria capacità competitiva presente nei settori dinamici della piccola impresa e in particolari distretti industriali, i timori diffusi a livello popolare di fronte dagli effetti della globalizzazione che lo stato nazionale ha difficoltà a fronteggiare. Le proposte leghiste possono apparire allettanti sia a chi si sente vincitore, sia a chi teme di essere perdente in questi fase storica.