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La discussione sulla compatibilità tra la democrazia e il mondo arabo-islamico è dunque ricominciata, e non c’è sito internet, giornale o rivista che non ne parli. Larry Diamond è di nuovo intervenuto, su The Atlantic, dove ha scritto che «l’Egitto è a un punto in cui è fattibile una transizione alla democrazia». Certo, bisognerà riscrivere la costituzione, riformare il sistema elettorale e quello giudiziario, le istituzioni e la polizia, e dare nuovo potere ai partiti politici, ai mass media e alle organizzazioni della società civile, ma «l’eccezionalismo autoritario del mondo arabo potrebbe cominciare a vedere la fine». È presto per esultare, ma si respira ovunque grande ottimismo. Sul New York Times Thomas L. Friedman ha colto la svolta storica del mondo arabo con una trovata linguistica, al solito, di grande impatto: «B.E., Before Egypt. A.E., After Egypt». Anche l’Economist festeggia («Un Egitto democratico potrebbe ancora una volta essere un faro per la regione. Potrebbe aiutare a rispondere all’enigma su come incorporare l’Islam nelle democrazie arabe»), mentre su Dissent Jo-Ann Mort scrive: «La rivoluzione che si sta oggi svolgendo in Egitto è l’inizio di qualcosa di diverso per il mondo arabo. Offre all’America e a Israele un’opinione pubblica giovane e istruita con cui impegnarsi – e una simile ne esiste in Cisgiordania e, sì, anche a Gaza. Quei ragazzi hanno fame della possibilità di migliorare i loro paesi, e stanno cercando più la propria autorealizzazione che dei nemici. Israele e gli Stati Uniti hanno bisogno della democrazia in Egitto tanto quanto gli egiziani».
È l’inizio di un’era nuova, e i commentatori internazionali si chiedono quali scenari politici si apriranno ora in paesi come Egitto e Tunisia. La «democrazia araba» sarà di tipo islamico? «Ora testeremo la teoria così a lungo dibattuta da politici e studiosi. Un Egitto più democratico diventerà uno stato islamico radicale? Può la democrazia funzionare nel mondo arabo?», si è chiesto Fareed Zakaria su Time, e ha argomentato che il pericolo islamista è esagerato dai media: «L’Iran sciita non è un modello per nessun paese, tantomeno per una società araba sunnita come l’Egitto». Piuttosto il rischio è una «democrazia illiberale» come la Russia, e, per quanto riguarda la Fratellanza Musulmana, il loro successo deriva molto dal fatto che sono stati perseguitati e banditi per decenni: «Quando dovrà competere nel mercato delle idee scoprirà che, come in molti paesi musulmani, alla gente stanno più a cuore le competenze dei governanti, la corruzione e la crescita piuttosto che le grandi dichiarazioni ideologiche».
Anche John Feffer, su Huffington Post, invita a «prendere atto dell’evoluzione democratica dell’islamismo», e Le Monde, in un editoriale, conferma l’analisi di Zakaria: «Il modello iraniano non è il più probabile. Se una formazione politica seduce le classi medie egiziane, è l’Akp, il partito islamico conservatore di Recep Tayyip Erdogan. Tra il modello persiano e ottomano, è il secondo che mostra la via». Stessa conclusione di Frankie Martin sul sito della Cnn: «Dal suo sistema economico pro-libero-mercato, che sta registrando una crescita a livelli cinesi, ai suoi ideali, la promozione del modello turco è nell’interesse nazionale americano». Anche in queste aperture verso l’Islam politico si nota il cambio di passo rispetto agli anni passati e all’era di George W. Bush. Oggi la Casa Bianca è sintonizzata, letteralmente, su Al Jazeera, il canale satellitare arabo detestato dall’amministrazione Bush (anche qui Resetdoc aveva visto giusto, in tempi non sospetti), e anche per questi motivi è difficile sostenere che i neocon avessero ragione (come invece fa Stephen L. Carter su Newsweek).
Lo sintetizza bene sul New York Times Maureen Dowd (dopo un sarcastico «Se solo W. avesse aspettato Twitter. E Facebook. E Wikileaks»): «Il Presidente George W. Bush aveva ragione a cercare di creare un effetto domino democratico in Medio Oriente e a voler mettere fine alla terribile ipocrisia di un’America che coccola i governanti autoritari. Ma il suo modo di agire fu naif e sbagliato». Non di bombe e di lezioni occidentali aveva bisogno il mondo musulmano, come ha dimostrato a maggio uno studio del Pew Research Center, secondo il quale si diceva allora favorevole alla democrazia l’81% dei musulmani libanesi, il 76% di quelli turchi, il 69% di quelli giordani e il 59% di quelli egiziani. Ah, sì, e di un’altra cosa aveva bisogno: un presidente americano che accompagnasse gli eventi senza intervenire con arroganza, senza offrire ai regimi né sponde né il pretesto di una repressione. Proprio quello che ha fatto Barack Obama.