Un bon viveur aristocratico, amante di feste, abiti di raffinata fattura, affascinato da una cantante lirica cinese. Ma, soprattutto, Abdol-Hossein Sardari era un diplomatico iraniano che grazie ad un coraggio raro, un eloquio scaltro e una discreta fortuna personale riuscì a salvare molti dei suoi connazionali di fede ebraica durante l’occupazione nazista di Parigi. Una sorta Oskar Schindler islamico, assai meno noto, ma non meno audace nei suoi rapporti con le autorità tedesche, Sardari si ritrova a capo della rappresentanza diplomatica iraniana quando le truppe di Hitler invadono la Francia nel 1940. Costretto a traslocare a Vichy, l’ambasciatore dell’epoca, suo parente, gli affida il controllo della missione parigina. L’Iran, ufficialmente neutrale, mantiene rapporti commerciali con la Germania che dichiara i suoi cittadini di razza ariana. Ma a Parigi gli ebrei di nazionalità iraniana vengono perseguitati come gli altri, costretti a indossare l’infame marchio di riconoscimento sui cappotti e a girare con carte d’identità che denunciano la loro “inferiorità” di razza.
Sardari, però, osa sfidare i diktat. Sfrutta il suo eloquio d’avvocato, i contatti con gli ufficiali tedeschi e di Vichy. E riesce ad ottenere esenzioni dalle leggi razziali per i suoi connazionali sostenendo che non avessero legami di sangue con gli ebrei d’Europa. Come dimostrano il materiale d’archivio e le testimonianze dei sopravvissuti riportati “In The Lion’s Shadow”, il diplomatico raggirò le autorità naziste. Attraverso una serie di lettere e rapporti, sostenne che l’imperatore persiano Ciro liberò gli ebrei in esilio a Babilonia nel 538 a.C. che fecero ritorno a casa. Tuttavia, in seguito un gruppo di ebrei iraniani iniziò a trovare interesse per gli insegnamenti di Mosè. Cosicché – sosteneva la sua tesi – questi seguaci di Mosè, che lui chiamava “Djuguten”, non appartenevano alla razza ebraica.
A Berlino, gli specialisti della purezza della razza vennero quindi chiamati ad arrovellarsi sulle origini sull’ebraismo di ceppo iraniano. E nel dicembre 1942 le motivazioni di Sardari raggiunsero anche Adolf Eichmann. Che, in una missiva pubblicata nel libro di Fariborz Mokhtari, liquidò come “uno dei soliti trucchi degli ebrei”. Ma nel frattempo, mentre circa 100mila ebrei venivano deportati dalla Francia nei campi di concentramento, il capo della missione iraniana era riuscito a salvare numerose famiglie iraniane di Parigi. In totale, stima lo storico, circa 2000 persone. Come? Rilasciando loro dei passaporti nuovi, senza menzioni di razza o religione, con i quali agli iraniani era permesso attraversare l’Europa. Un lavoro umanitario che Sardari continuò, con più difficoltà e maggiori rischi per la sua incolumità, anche quando si rifiutò di tornare a Teheran come da ordini ricevuti, in seguito all’invasione del suo Paese da parte di Russia e Gran Bretagna. Privato dell’immunità diplomatica, proseguì la propria opera attingendo dalla sua eredità personale e sotto la protezione dell’ambasciata svizzera.
Per la sua impresa umanitaria, il buon Samaritano islamico non ha mai cercato riconoscimenti ufficiali. Tanto che morì a Londra nel 1981 in solitudine, e dopo essersi visto sottrarre la pensione da ambasciatore e le sue proprietà di Teheran dalla rivoluzione iraniana. Solo anni dopo, nel 2004, il suo lavoro ha ricevuto un riconoscimento dal Simon Wiesenthal Centre di Los Angeles. E ora la speranza di Fariborz Mokhtari è che, attraverso il suo libro, l’esempio della vita di Sardari possa essere l’occasione di rivolgere lo sguardo a un’importante testimonianza, iraniana, di cultura della tolleranza.